L’istituto della rinuncia con riferimento ai diritti indisponibili del lavoratore
Mosso dalla necessità di tutelare l’istituzionale situazione di debolezza contrattuale del prestatore di lavoro, il legislatore giuslavoristico ha approntato una fitta trama di norme inderogabili che riequilibrano la disparità di potere contrattuale.
Il complessivo assetto regolativo del rapporto è dunque solo in minima parte dettato dai contraenti, concorrendo a delinearne l’ambito la legge e la contrattazione collettiva.
Fermi i concetti di “inderogabilità” che è un tratto della norma, dalla “indisponibilità “ che è una caratteristica dei diritti, si analizzerà, dopo aver trattato del principio generale della rinuncia ai diritti disponibili, l’articolo 2113 Codice Civile che introduce una disciplina speciale delle rinunce e delle transazioni del lavoratore su diritti previsti da norme inderogabili di legge e di contratto collettivo.
Indice
1. La rinuncia quale negozio unilaterale
2. Gli istituti di “rinuncia codificati”
3. Il rifiuto
4. Le rinunzie previste dall’articolo 2113 Codice Civile
5. Le transazioni collettive
1. La rinuncia quale negozio unilaterale
Le posizioni soggettive sono di regola disponibili, essendo quella dei diritti indisponibili una categoria ristretta e legata all’incidenza di valori superiori, si pensi essenzialmente ai diritti fondamentali della persona, come vita, salute, identità personale, riservatezza.
Il titolare di un diritto disponibile può – non soltanto trasferirlo a terzi, ma anche liberarsene, cioè rinunciarvi.
Emerge così la categoria dei negozi di rinuncia il cui proprium è rappresentato dagli effetti puramente abdicativi della dichiarazione negoziale.
Si parla di negozi abdicativi puri (o meramente abdicativi o ancora di rinunce in senso stretto), per differenziare la figure in esame dalle cosiddette rinunce traslative, ove l’atto di dismissione si inserisce in un programma negoziale più ampio, che in virtù di altri negozi collegati comporta intenzionalmente l’acquisto del diritto rinunciato da parte di altro soggetto, spesso dietro corrispettivo.
Viceversa nelle rinunce pure la volontà del dichiarante è rivolta soltanto alla dismissione, che pertanto costituisce l’unico effetto diretto dell’atto negoziale, mentre la successiva sorte del diritto (a seconda dei casi: la sua estinzione o il passaggio ad altro titolare) è mero effetto indiretto, da ricollegare ad una norma di legge; ad esempio, il legislatore prevede, quale effetto indiretto della rinuncia alla sua quota da parte di uno dei comproprietari, l’accrescimento di quelle degli altri: articolo 1104 Codice Civile.
Il negozio di rinuncia trova causa in se stesso, nel senso che rinunciare a un diritto è un modo legittimo di disporne, per cui non è dato indagare sulla ragione intima della rinuncia; ciò, tuttavia, non elimina la necessità di una indagine preliminare sulla causa in concreto del negozio abdicativo, quale precondizione per accertare se lo stesso abbia davvero funzione meramente abdicativa oppure si inserisca in un quadro negoziale più ampio e diversamente connotato sotto il profilo causale, nei termini sopra evidenziati.
La rinunzia è quel negozio giuridico unilaterale, a carattere meramente abdicativo, col quale un soggetto dismette un diritto che fa parte del suo patrimonio, senza attribuirlo ad altri.
La rinunzia è negozio di disposizione, in quanto il titolare perde il diritto, ma non è un negozio di attribuzione, perché il diritto dismesso non viene attribuito ad altri.
Questa quindi si distingue dalla rinunzia traslativa che è in realtà un negozio bilaterale di attribuzione e quindi un contratto. Trattasi, pertanto, di un normale negozio di alienazione.
2. Gli istituti di “rinuncia codificati”
Rientrano in questa categoria
la rinunzia abdicativa ad un diritto reale,
la remissione del debito,
la derelictio ex articolo 923 comma 2,
la distruzione della cosa,
l’abbandono liberatorio e
la rinunzia alla prescrizione.
La rinunzia al diritto di proprietà o ad un diritto reale su cosa altrui non incrementa l’altrui patrimonio ma solo depaupera quello del rinunziante. L’effetto acquisitivo del diritto al patrimonio del terzo è infatti a titolo originario in caso di derelictio di cosa mobile. In caso di immobili, poi, l’acquisto da parte dello Stato è ex lege. Infine l’effetto di consolidazione opera del tutto autonomamente rispetto alla rinunzia al diritto reale su cosa altrui, essendone questa mera occasione e non già causa.
Non si esclude altri possano avvantaggiarsi della rinuncia, ma questo vantaggio può derivare solo occasionalmente e indirettamente dalla perdita del diritto da parte del suo titolare.
Ad esempio, la rinuncia al diritto di usufrutto comporta la consolidazione dell’usufrutto con la nuda proprietà ex articolo 1014 Codice Civile per effetto della quale il potere di godere la cosa ritorna al proprietario; tuttavia tale conseguenza non costituisce effetto diretto della rinunzia, che in sé e per sé produce soltanto l’estinzione del diritto di usufrutto: essa, invece, deriva dal principio di elasticità del dominio, in virtù del quale la proprietà, prima compressa, riprende automaticamente la sua espansione originaria, non appena il diritto che la limitava viene meno.
Ciò spiega come la rinuncia pur avvantaggiando indirettamente il nudo proprietario, non debba farsi con la forma dell’atto pubblico richiesta per la donazione (articolo 782 Codice Civile).
Lo stesso discorso vale per la rinuncia ad un credito (cosiddetta. Remissione del debito). Secondo alcuni la remissione del debito è l’unico schema mediante il quale si può rinunziare ad un diritto di credito: si tratta di un negozio giuridico unilaterale, che si perfeziona col solo consenso del creditore: l’opposizione del debitore è un autonomo negozio giuridico che ha la funzione di risolvere l’efficacia della remissione.
Altra parte della dottrina distingue nettamente tra remissione del debito e rinunzia al diritto di credito. La rinunzia è un negozio giuridico unilaterale che si perfeziona senza bisogno di accettazione del debitore; si concreta in una semplice dismissione del diritto e avvantaggia solo indirettamente il debitore, l’altra è il negozio posto in essere per avvantaggiare direttamente il debitore. Con la rinunzia il creditore intende dismettere il diritto; con la remissione il creditore intende dismetterlo per liberare il debitore. La dichiarazione del debitore di non volerne profittare è un negozio unilaterale risolutivo che rientra nella categoria dei negozi di rifiuto.
Si intende che non ricorre la figura della rinunzia se la dismissione del diritto è fatta dietro corrispettivo. Manca invero, in questa ipotesi l’elemento della unilateralità, caratteristico della rinunzia (da segnalare che, in materia successoria, l’articolo 478 stabilisce che la rinuncia ad un’eredità compiuta verso corrispettivo determina, in realtà, l’accettazione dell’eredità stessa).
Si ritiene che rientri in questo istituto anche la rinuncia alla prescrizione quale atto negoziale unilaterale a carattere recettizio (che può avere fonte anche in un contratto) suscettibile di rifiuto, mediante il quale il debitore dismette l’effetto estintivo della prescrizione.
Essa non richiede forme particolari e può anche essere tacita (che può ravvisarsi nella promessa di pagamento e nel riconoscimento di debito fatti dal debitore consapevole dell’intervenuta prescrizione, nel libero e consapevole pagamento dell’intero debito, dovendosi sostenere che il pagamento parziale non comporti rinunzia alla prescrizione relativamente alla parte residua. Il pagamento del capitale non comporta rinunzia alla prescrizione relativamente agli interessi) quando risulti da un comportamento incompatibile con la volontà di valersi della prescrizione.
Anche il proprietario può rinunziare alla prescrizione dei diritti reali limitati gravanti sul suo bene.
La rinunzia è ammissibile solo ove la prescrizione sia compiuta.
Ratio: la rinunzia preventiva precluderebbe infatti il verificarsi della prescrizione incidendo sulla disciplina inderogabile di essa. Può tuttavia ritenersi che la rinunzia alla prescrizione in corso valga come riconoscimento del debito e abbia pertanto effetto interruttivo.
La rinunzia alla prescrizione facendo venir meno la causa estintiva del diritto di credito è rilevabile d’ufficio dal giudice se essa risulta dagli atti del giudizio, trattandosi di eccezione in senso lato.
La soluzione negativa, invece, sostiene che la deduzione della sussistenza di una rinunzia alla prescrizione in replica alla relativa eccezione formulata dalla controparte si configura come una controeccezione in tutto assimilabile alle eccezioni in senso stretto, e quindi soggetta al regime delle preclusioni e delle decadenze previste per il rito del lavoro ex articoli 416 e 437 Codice Procedura Civile, applicabile non solo alle eccezioni del convenuto ma anche a quelle dell’attore; ne consegue che la parte interessata ha l’onere di allegare tempestivamente la rinunzia alla prescrizione di primo grado e, in caso di rigetto della sua domanda per intervenuta prescrizione, riproporla in appello.
3. Il rifiuto
La rinuncia non va confusa con il “rifiuto” che è invece un negozio giuridico unilaterale col quale il soggetto impedisce che un diritto o un bene entri nel suo patrimonio.
Esso, dunque, si distingue dalla rinuncia che, come osservato, dismette un diritto che già fa parte del patrimonio.
Il rifiuto non consuma in nessun caso il diritto, che ritorna nel patrimonio del dichiarante o perviene nel patrimonio di un terzo.
Deve poi distinguersi tra rifiuto impeditivo dal rifiuto eliminativo. Nel primo caso il soggetto impedisce un acquisto al proprio patrimonio (ad esempio, ì rinunzia all’eredità), nel secondo caso invece, rimuove con effetto retroattivo effetti che si sono già prodotti ma non si sono ancora stabilizzati (rinunzia al legato).
L’effetto tipico del negozio unilaterale di rifiuto è in ogni caso quello eliminativo che presuppone una situazione già sostantiva, cioè già operante.
Costituiscono casi di rifiuto:
- la rinunzia all’eredità. Trattasi di un negozio giuridico unilaterale col quale il chiamato manifesta la propria volontà di non addivenire alla eredità: in tal modo egli fa cessare gli effetti della delazione verificatasi nei suoi confronti e rimane estraneo alla successione. Economicamente, la rinunzia alla eredità è un atto eccedente all’ordinaria amministrazione poiché il titolare dispone di un diritto potestativo e impedisce l’acquisto di un valore che l’ordinamento gli pone a diposizione, pertanto essa necessita di autorizzazione qualunque sia l’entità del patrimonio.
Si discute, tuttavia, in dottrina se essa sia atto di rinunzia o di rifiuto.
Secondo alcuni, la rinunzia all’eredità sarebbe l’atto abdicativo col quale il chiamato dismette il diritto di accettare l’eredità, diritto a lui attribuito dalla delazione.
Secondo altri la rinunzia sarebbe atto di rifiuto, in quanto il chiamato non dismette la titolarità di alcun rapporto (ed in particolare non rinunzia alla qualità di erede, non avendola mai acquistata), ma impedisce che possa diventare erede.
- La rinunzia al legato. Come è noto esso si acquista ipso iure, sebbene sia lasciato al legatario la facoltà di rinunziarvi.
La rinunzia al legato non è un negozio abdicativo, col quale il legatario dismette il diritto acquistato, ma è un negozio risolutivo, col quale il legatario risolve l’acquisto con effetti retroattivi, impedisce che l’acquisto del legato si consolidi, rifiuta l’ingresso del bene legato nel suo patrimonio. Il legatario non perde il diritto legatogli ex nunc bensì ex tunc, come se non fosse mai stato legatario.
- La rinunzia del terzo del contratto a suo favore che risolve con effetti retroattivi l’acquisto già verificatosi a seguito della stipulazione a seguito della quale quindi la prestazione va eseguita dal promittente a favore dello stipulante.
- Il rifiuto (eliminativo) nel contratto con obbligazioni a carico del solo proponente ex articolo 1333 Codice Civile là dove ed in tal caso il diritto rientra nel patrimonio del proponente.
4. Le rinunzie previste dall’articolo 2113 Codice Civile
L’articolo 2113 Codice Civile introduce una disciplina speciale delle rinunce e transazioni del lavoratore previsti da norme inderogabili di legge e di contratto collettivo riassumibile nei seguenti capisaldi:
Annullabilità degli atti dispositivi, impugnabili entro termini di decadenza
Che si tratti non di una formale nullità ma di annullabilità è reso manifesto dalla circostanza che la loro impugnazione è sottoposta a termini di decadenza decorrenti:
A. Dal momento della cessazione del rapporto, se gli atti dismissivi si sono verificati in costanza di rapporto di lavoro.
B. Dal momento della rinuncia o della transazione se queste ultime sono state poste in essere successivamente alla cessazione del rapporto. Il termine di decadenza è di sei mesi.
In dottrina (MAZZOTTA) si è fatto notare che la predisposizione di una tutela in termini di annullabilità e la sua sottoposizione alla sanzione della decadenza entro termini brevi ha “la evidente funzione di contemperare le esigenze del datore di lavoro ad avere, in termini ragionevolmente rapidi, certezza sulla completa definizione delle situazioni soggettive derivanti dal rapporto di lavoro”.
Neutralizzazione dei termini di impugnazione in costanza di rapporto
Tale circostanza costituisce il riconoscimento giuridico di uno stato di soggezione del lavoratore, quello stesso stato in relazione al quale la giurisprudenza ante-codice riteneva che il consenso del lavoratore in costanza di rapporto potesse essere viziato da una sorta di metus assai vicino alla violenza morale.
È per tale ragione che usualmente si esclude la rilevanza di rinunce tacite ai diritti del lavoratore.
Si è detto che “il sistema è diretto a garantire la tutela inderogabile, anche attraverso la certezza della concreta individualità dell’atto di dismisssione” (PERA).
Piena validità delle rinunce e transazioni che hanno luogo in talune sedi privilegiate (conciliazioni in sede amministrativa, sindacale o davanti al giudice).
La norma prevede peraltro un meccanismo che consente la legittima disposizione di diritti di diritti dei lavoratore, in circostanze nelle quali la sua volontà è assistita e sorretta dalla presenza di soggetti o organi istituzionali che siano in qualche modo in grado di rendere edotto il lavoratore delle conseguenze delle sue scelte.
Il legislatore talvolta configura la norma bensì come imperativa, ma derogabile ove le parti siano assistite dalle associazioni di categorie. Così, ad esempio, nel contratto di affitto, le parti possono inserire patti speciali con disciplina parzialmente diversa da quella inderogabile (articolo 45, Legge 203/1982 sui contratti agrari).
Si è in presenza pertanto di un tertium genus di norme a fianco a quelle inderogabili-imperative e a quelle derogabili-dispositive.
La volontà dei singoli non è infatti sufficiente ai fini della deroga, come avviene invece nel caso di norme dispositive, dovendo, essa essere <<assistita>>, nel senso che deve formarsi e manifestarsi con il consiglio e quindi alla presenza di rappresentanti di categoria, a tutela del contraente più debole (l’affittuario, il dipendente).
La ratio dell’assistenza è dunque analoga a quella che presiede alla forma ad substantiam.
Tale assistenza poi, non incide di certo, nemmeno nel senso di una integrazione, sulla capacità di agire dei contraenti, trattandosi, oltre tutto, di onere e non di obbligo, ma la sua assenza determina la nullità delle pattuizioni derogatorie, con sostituzione ex articolo 1339 di quelle legali derogate.
La tecnica dell’assistenza è poi alla base stessa della contrattazione collettiva e delle rinunzie e delle transazioni ex articolo 2113 coma 4 in materia di rapporto di lavoro subordinato. Essa legittima infatti di volta in volta l’attenuazione della tutela inderogabile dei diritti dei lavoratori e la sostituzione di un garantismo flessibile ad uno rigido.
In questo quadro sono valide le rinunce o le transazioni intervenute:
Davanti al giudice nel corso del processo ex articolo 185 c.p.c.
Davanti alle commissione di conciliazione istituita presso la direzione territoriale del lavoro ex artt. 410 e 411 c.p.c.
Nell’ambito delle ulteriori sedi conciliative e arbitrali previste dai contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative, di cui gli artt, 412 ter e 412 quatte cpc
Il d.lgs. N. 276 del 2003 all’articolo 82 ha previsto inoltre che la certificazione delle rinunzie e transazioni può essere effettuata anche presso le sedi di certificazione dagli organi relativi, prefigurati dall’articolo 76 del medesimo decreto.
5. Le transazioni collettive
Acuta dottrina ha rilevato come sotto l’espressione di transazione collettiva si nasconda in realtà il vero e proprio contratto collettivo aziendale, che in quanto tale, è diretto alla regolamentazione dei rapporti di lavoro futuri all’interno di una determinata impresa.
È facile osservare che questo fenomeno non possa essere assoggettato alla regolamentazione limitativa delle rinunce e delle transazioni.
Il sindacato, infatti, non dispone di diritti dei lavoratori già sorti, contribuendo invece alla regolamentazione collettiva delle condizioni cui deve (o dovrà) essere resa la prestazione di lavoro.
Quid iuris: e se le intese contrattuali, stipulate dal sindacato, riguardassero una pluralità di lavoratori ed avessero ad oggetto atti di disposizione su diritti già acquisiti al loro patrimonio?
La giurisprudenza, intervenuta sul punto, è orientata a ritenere che tali atti siano suscettibili di impugnazione da parte dei singoli dal momento che le associazioni sindacali, nell’attuale ordinamento, non hanno poteri di rappresentanza istituzionale dei lavoratori.
Ne deriva che l’eventuale dismissione di diritti vada specificamente autorizzata dai singoli, anche se iscritti al sindacato.