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L’opera misteriosa di Mozart scritta da Italo Calvino

Madame de Pompadour ritratta in abiti turchi nel 1747 da Charles-André van Loo
Madame de Pompadour ritratta in abiti turchi nel 1747 da Charles-André van Loo

C’è una bellissima e poco nota opera di Wolfgang Amadeus Mozart, meglio, uno Singspiel (ovvero un’opera in lingua tedesca composta di parti parlate e di parti cantate) incompiuto del maestro, che è stata recentemente riproposta al Costanzi, teatro dell’Opera di Roma, in un clima spettrale da pandemia in atto, nella versione realizzata quarant’anni fa con il testo ideato da Italo Calvino, che, con il suo lavoro ha riempito i vuoti lasciati dal salisburghese proponendo diverse ipotesi di sviluppo della della vicenda.

La storia della nascita dell’opera è molto bizzarra. Mozart inizia a scriverla dopo pochi mesi dal tentativo di musicare “Semiramide” e dalla ripresa del dramma eroico “Thamos, re d’Egitto”. Siamo alla fine degli anni settanta del millesettecento, e Mozart decide di lavorare a un’opera per la compagnia teatrale Böhm, su un libretto realizzato dall'amico di famiglia Johann Andreas Schachtner, trombettista della corte di Salisburgo, ispirato al dramma “Zaira” di Voltaire. Il compositore inizia il lavoro, ma in una lettera si lamenta con il padre perché l’operetta (è proprio Amadeus a definirla così) gli pare inadatta a Vienna, dove il pubblico preferisce i pezzi comodi. Nonostante questo, va avanti col lavoro. Dopo poco, però,  abbandona il progetto, iniziando a comporre un’opera commissionata dal principe elettore di Monaco. Si tratta di “Idomeneo”. I lavori dell’opera vanno per le lunghe e Mozart dopo qualche anno riprende a lavorare su “Zaide”, per poi abbandonarla definitivamente nel 1783. Mozart in tutto questo tempo riesce a scrivere soltanto quindici brani musicati (parlati con accompagnamento musicale, cioè melologhi, o cantati). Non ci sono i dialoghi esclusivamente parlati che avrebbero dovuto alternarsi ai brani, manca l’ouverture, la scena finale del secondo atto e tutto il terzo atto (nell’ipotesi, avvalorata da alcuni studiosi, che “Zaide” fosse un lavoro strutturato su tre atti distinti).

L’opera resta così incompiuta e sconosciuta a tutti, anche dopo la morte del musicista, avvenuta nel 1791. Soltanto nel 1799 la moglie di Wolfgang, Costanze, ritrova lo spartito e lo vende all'editore Johann Anton André che imbastì un ‘ouverture e un finale, e diede all'opera il titolo definitivo, “Zaide” (Das Serail), per l’appunto, che verrà classificata, poi, da Ludwig Ritter von Köchel nel 1862 come K 344.

A questo punto l’opera scompare e finisce per quasi 67 anni nell’oblio più assoluto, finché non  viene riesumata e portata in scena a Francoforte il 27 gennaio 1866, in un adattamento ridotto comprendente le aggiunte del compositore ed editore Johann Anton André che rappresenta la prima assoluta dell’opera, a più di ottant’anni dalla sua, seppur parziale, composizione.

Dopodiché, l’opera verrà ripresa pochissime volte (nel 1903 a Karlsruhe, nel 1930 a Monte Carlo, a Londra nel 1953, a Lenox nel 1965) fino alla prima italiana al festival di Batignano (Grosseto), nel Convento di Santa Croce, nel 1981. Festival bellissimo, più unico che raro, tenuto in piedi da un gruppo di giovani e volenterosi artisti e intellettuali inglesi all’interno di un suggestivo ed abbandonato convento presso Batignano, nella Maremma toscana, che d’estate organizzava nel chiostro un piccolo festival, di opere rare, noto come il “Festival dei geni”, che per trent’anni, dal 1974 al 2004, ha  illuminato le menti dei fortunati che hanno potuto assistere a quelle rappresentazioni. I finanziamenti del festival provenivano dapprima da un cospicuo assegno staccato dalla regina d’Olanda, che trascorreva le vacanze nella sua villa sul mare a Porto Ercole, a pochi chilometri dal convento, e poi dalla Cassa di Risparmio di Firenze (dall’amministrazione pubblica, invece, pochissimo, troppo poco per farlo continuare a vivere).

Tra le opere che intendono riproporre c’è proprio la rarissima “Zaide”, ma serve un finale e tutte le parti parlate che facciano da raccordo alle quindici scene disponibili. Così chiedono a Calvino, e lo fanno senza grandi speranze. Invece, dopo qualche mese, arriva un dattiloscritto di ventuno pagine con i testi reinventati dallo scrittore e la “Zaide” riesce ad andare in scena con la regia di un giovanissimo Graham Vick.

La trama del Singspiel è semplice e rocambolesca al contempo, e si basa sul legame amoroso nato in carcere tra due giovani: Zaide, che era la favorita del sultano turco Soliman, e Gomatz, cristiano arrestato dagli ottomani. I due però, grazie all'aiuto di Allazim, ministro e servo fedele del sultano, riescono a fuggire; ma vengono in seguito traditi e catturati di nuovo. Il sultano Soliman, furioso, non vuole concedere loro la grazia, ma lascia aperto uno spiraglio. Difatti, l’aria che canta “Ichbin so bös’als gut", ovvero “sono tanto cattivo quanto buono”, non lascia intendere se voglia vendicarsi o perdonare la ragazza e liberarla all’amore per Gomatz. Purtroppo a questo punto la vicenda si interrompe, lasciano spazio alla fantasia del grande scrittore italiano.

Come ha lavorato Calvino sull’opera? Lo ha fatto con la fantasia, sulla scia dei suoi lavori più visionari e complessi, come “Se una notte d’inverno un viaggiatore” oppure “Le Città invisibili”o, soprattutto, “Il Castello dei destini incrociati”, testo in cui la struttura combinatoria di storie collegano un certo numero d’elementi dati per un risultato nuovo e, comunque, sempre plausibile.

Quando Calvino prende in mano l’opera, la prima cosa che pensa è la seguente: si tratta di un’opera, non può che finire bene. Tutte le opere di Mozart hanno un finale positivo, questa constatazione rafforza il pensiero di Calvino, che su questa idea ha lavorato, usando la fantasia, immaginando non una storia soltanto, ma tante trame, introducendo soluzioni senza cercare di convincere lo spettatore che una di queste sia quella vera e corretta. Come ebbe modo di scrivere lo stesso Calvino, ha cercato «di mettere in valore quello stato d’animo di sospensione che ogni opera incompiuta comunica».

Ecco allora le molteplici ipotesi avanzate da Calvino.

Nella prima Allazim aiuta i ragazzi per puro disinteresse, alimentato dal desiderio di far trionfare l’amore, in quella che possiamo considerare la versione più “tradizionale”.

Nella seconda ipotesi, invece, Calvino azzarda: e se Allazim fosse stato innamorato della bella Zaide?

La terza versione, invece, è quella più “progressista” e di certo impossibile da mettere in scena 250 anni fa. Se Allazim, invece, fosse stato attratto da Gomatz? Se avesse riconosciuto in lui sé stesso, e avesse cercato di distoglierlo dall’amore sbagliato di e per Zaide?

Infine, nel secondo atto, la quarta e ultima ipotesi avanzata da Calvino, quella più cupa e amara: ad Allazim non interessa né il bene di Zaide, né il bene di Gomatz, né quello del mondo che lo circonda, ma soltanto il bene del suo sultano e del suo regno. Da vero politico cerca di allontanare dal regno ciò che può minare la tranquillità e serenità dei sudditi e dei governanti.

Quattro idee, quattro ipotesi alternative che fanno volare l’ascoltatore in un gioco meta letterario e teatrale che lascia divertiti e stupefatti per leggerezza e acume scenico, non senza ironia e istinto drammatico, snocciolate da un narratore che ha il compito di farcele conoscere senza propendere per nessuna di esse.

Il narratore, alla fine, terminerà il racconto in questo modo: “Così rimangono sospesi, in un’opera che sembra stia per finire immediatamente e che invece non finisce, tra parti cantate che sono come lapislazzuli e ametiste incastonati in un mosaico azzurro, indaco e pervinca. Le gemme scintillano in mezzo agli aggrovigliati arabeschi sul muro in fondo a un patio sussurrante di zampilli. Il palazzo va in rovina, le erbacce invadono il patio, il mosaico è percorso da crepe e si sgretola. Ma i tasselli verranno inseriti in un altro mosaico, sulla volta di una moschea. I mongoli di Gengis Khan invadono il paese e incendiano la moschea. I lapislazzuli e le ametiste salvati dalle fiamme serviranno per altri mosaici, lungo le scale d’un bazar, nel cortile d’un caravanserraglio, nella reggia d’un califfo, in una fortezza sul deserto, in cima alla cuspide d’un minareto, nel fondo di una vasca dove le odalische fanno il bagno...”.

Per chi fosse interessato, ricordo che il testo originale di Calvino è stato pubblicato da Mondadori nel 1994: I. CALVINO, Romanzi e racconti, edizione diretta da C. Milanini, a cura di M. Barenghi e B. Falcetto, vol. III (Racconti sparsi e altri scritti d’invenzione).

Dopo questa bellissima interpretazione del 1981 ci saranno altre messe in scena del lavoro: a Venezia, nel 1982, a Montpellier nel 1986, nel 1987 al teatro dei Rassicurati di Montecarlo (Italia), nel 1995 a Firenze e l’anno dopo ad Edimburgo.

Fino alla bellissima messa in scena della fine di ottobre di questo derelitto 2020, all’Opera di Roma, presente uno sparuto e impaurito pubblico (ridotto a meno di un terzo della capienza del teatro), che ha applaudito un lavoro eccellente, con Daniele Gatti sul podio e le magnifiche voci di Chen Reiss nel ruolo di Zaide, Juan Francisco Gatell quale Gomatz e Markus Werba nei panni del ministro Allazim, e l’esperta quanto efficace voce narrante di Remo Girone.

La regia era sempre quella dell’edizione storica del 1981 di Graham Vick.
Di questa rappresentazione sono state messe in scena solo cinque delle sei recite previste, l’ultima delle quali si è svolta il 25 ottobre (quella di martedì 27 è stata annullata, per i noti motivi sanitari).

Aspettiamo di nuovo l’opera di Mozart-Calvino quando tutto questo delirio sanitario si sarà placato (perché, prima o poi, accadrà).

Viva la musica, viva la fantasia, viva Italo Calvino!