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Luigi Einaudi: Guerre e Pace e l’unità Europea

Luigi Einaudi
Luigi Einaudi

Nel 1918, quando infuriava la guerra, Luigi Einaudi pubblicò sul “Corriere della Sera” un memorabile articolo per mettere in guardia i fautori della Società delle Nazioni che essa sarebbe stata non uno strumento di pace, come tutti pensavano, bensì un paravento dietro il quale potevano agire indisturbati i fautori della guerra.

In poche pagine di rara chiarezza, criticò aspramente il progetto lanciato dal presidente degli Stati Uniti Wilson. Appellandosi all’esperienza storica, Einaudi poté facilmente dimostrare che tutte le coalizioni di stati – e tale era la “Società delle Nazioni” – create nei secoli si erano dissolte non appena era insorto qualche contrasto, e che la loro esistenza non era riuscita ad evitare neppure una guerra.

Nessuno lo ascoltò, ma Einaudi mantenne fermo il suo punto di vista che trovò una tragica conferma nella corsa agli armamenti scatenatesi fra le due guerre e nello scoppio del secondo conflitto mondiale.

Mentre l’Europa era devastata dagli eserciti di Hitler, Einaudi maturò la convinzione che, una volta cessate le ostilità, sarebbe stato necessario creare una Federazione europea per garantire la pace e la prosperità degli abitanti del vecchio continente.

Lo scoppio della bomba atomica lo indusse a trent’anni di distanza, a riprendere il profetico articolo del 1918 concludendo il suo scritto “Chi vuole la pace?” con queste parole ammonitrici: “Quando noi dobbiamo distinguere gli amici dai nemici della pace, non fermiamoci perciò alle professioni di fede, tanto più clamorose quanto più mendaci. Chiediamo invece: volete voi conservare la piena sovranità dello Stato nel quale vivere? Se sì, costui è nemico acerrimo della pace. Siete invece decisi a dare il vostro voto, il vostro appoggio soltanto a chi prometta di dar opera alla trasmissione di una parte della sovranità nazionale ad un nuovo organo detto degli Stati Uniti d’Europa? Se la risposta è affermativa e se alle parole seguono i fatti, voi potrete veramente, ma allora soltanto, dirvi fautori della pace. Il resto è menzogna”.

Proponiamo per i lettori di Filodiritto un estratto dell’articolo pubblicato sul Corriere della sera il 4 aprile 1948.

Avv. Riccardo Radi

 

Chi vuole la pace? *

Il grido: “Vogliamo la pace!” è troppo umano, troppo bello, troppo naturale per una umanità uscita da due spaventose guerre mondiali e minacciata da una terza guerra sterminatrice, perché ad esso non debbano far eco e dar plauso gli uomini i quali non abbiano cuor di belva feroce.

Ma, subito, all’intelletto dell’uomo ragionante si presenta l’ovvia domanda: “Come attuare l’umano, il cristiano proposito?”.

Non giova far appello ad ideali nuovi, a trasformazioni religiose o sociali. Unica guida sono l’esperienza storica e il ragionamento. Questo ci dice che non può essere reputato mezzo sicuro per impedire le guerre quello che, pur esistendo, non le ha sinora impedite.

[...] Contro le carneficine ed i latrocini all’ingrosso compiuti col nome di guerre da un popolo contro un altro popolo, non esiste rimedio diverso da quello di cui l’esperienza antichissima ed universale ha dimostrato l’efficacia contro gli assassini ed i furti compiuti ad uno ad uno dall’uomo contro l’uomo: la forza. Come lo Stato con i poliziotti, i giudici ed i carcerieri fa stare a segno ladri ed assassini, così è necessario che una forza superiore allo Stato, un super Stato faccia stare a segno gli Stati intesi ad aggredire, violentare e depredare altrui.

Chi vuole la pace deve volere la federazione degli Stati, la creazione di un potere superiore a quello dei singoli Stati sovrani. Tutto il resto è pura chiacchiera, talvolta vana, e non di rado volta a mascherare le intenzioni di guerra e di conquista degli Stati che si dichiarano pacifici. Giungiamo quindi alla medesima conclusione alla quale dobbiamo giungere a proposito della bomba atomica. Non basta gridare: abbasso la bomba atomica, viva la pace! per volere sul serio l’abbasso ed il viva. Fa d’uopo volere o perlomeno conoscere qual è la condizione necessaria bastevole perché l’una e l’altra volontà non restino parole gettate al vento. Siffatta condizione si chiama forza superiore a quella degli Stati sovrani, si chiama federazione di Stati, si chiama super Stato. Se un giudice delle malefatte deve esistere, se l’aggressore deve essere preso per il collo e costretto a desistere dalla rapina, deve esistere una forza, uno Stato superiore agli altri il quale possa farsi ubbidire dagli Stati singoli, devono anzi gli Stati singoli essere privati del diritto e della possibilità della guerra e della pace.

E, badasi, il super Stato non può essere una qualunque Società delle Nazioni od anche una Organizzazione delle Nazioni Unite. Il 18 gennaio 1918, su queste stesse colonne, sostenevo la tesi che l’idea della Società delle Nazioni allora non ancora fondata, ma già rumorosamente propugnata da molti fantasiosi idealisti, tra i quali s’era cacciato, più rumoroso di tutti, quel Benito Mussolini che poi tanto la svillaneggiò e contribuì a distruggerla era idea vana e destinata al fallimento. Non v’ha ragione di pensare oggi diversamente rispetto alla organizzazione che l’ha sostituita.

Come i fatti mi hanno dato ragione per la Società delle Nazioni, così oggi tutti si avvedono che l’O.N.U. non è efficace strumento di pace per il mondo. A che cosa serve una lega, una associazione, la quale deve ricorrere al buon volere di ognuno degli Stati associati per mettere a posto lo Stato malfattore recalcitrante al volere comune? Priva di forza propria militare, una società di Stati è fatalmente oggetto di ludibrio e di scherno. Sinché la Svizzera fu una semplice lega di cantoni sovrani, ognuno dei quali aveva un proprio esercito, proprie dogane e propria rappresentanza diplomatica con le potenze straniere, essa rimase soggetta ad influenze dal di fuori e non possedeva vera unità nazionale. Solo nel 1848, creato finalmente dopo le tristi esperienze della guerra intestina un governo federale, abolite le dogane interne e passati dai cantoni alla Confederazione il diritto di stabilire dazi al confine federale, il diritto di battere moneta, quello di mantenere un esercito e di avere rapporti con l’estero, sorse la Svizzera unita e federale.

Una esperienza analoga s’era fatta due terzi di secolo innanzi in quelli che diventarono poi gli Stati Uniti D’America. Se gli Stati Uniti odierni nacquero e grandeggiarono, se nessuno minaccia la pace nel territorio della repubblica stellata, ciò è dovuto soltanto al genio di Washington e dei suoi collaboratori i quali videro che lo Stato che essi avevano fondato nella guerra di liberazione era perduto se non si faceva il gran passo; se i singoli Stati non rinunciavano al diritto di circondarsi di dogane, al diritto di battere moneta, a quello di mantenere un esercito proprio e di inviare all’estero una propria rappresentanza diplomatica. Rinunciando ad una parte della sovranità, i 13 Stati confederati serbano ed ancora posseggono il resto; che è il più, che riguarda i beni morali e spirituali del popolo. Il gran passo fu fatto quando la costituzione del 26 luglio 1788 ebbe cominciamento con le famose parole: We the people of the United States, noi popolo degli Stati Uniti, e cioè non noi tredici Stati ma noi «il popolo intero degli Stati Uniti», abbiamo deciso di fondare una più perfetta unione.

Con quelle parole, e solo con quelle parole, gli Stati Uniti d’America soppressero la guerra nell’interno del loro immenso territorio: creando un nuovo Stato non composto di Stati sovrani, ma costruito direttamente da tutto il popolo degli Stati Uniti; e superiore perciò agli Stati creati dalle frazioni dello stesso popolo viventi nei territori degli Stati singoli. Vano è immaginare e farneticare soluzioni intermedie.

Il solo mezzo per sopprimere le guerre entro il territorio dell’Europa è di imitare l’esempio della costituzione americana del 1788, rinunciando totalmente alle sovranità militari ed al diritto di rappresentanza verso l’estero ed a parte della sovranità finanziaria. Se su questa via si deve e si potrà procedere gradatamente, siano benedette la unione doganale stipulata fra l’Olanda, il Belgio, ed il Lussemburgo (Benelux) e quella firmata fra l’Italia e la Francia. Ma sia ben chiaro che si tratta appena di un cominciamento, oltre il quale dovrà farsi ben presto deciso e lungo cammino.
Quando noi dobbiamo distinguere gli amici dai nemici della pace, non fermiamoci perciò alle professioni di fede, tanto più clamorose quanto più mendaci. Chiediamo invece: volete voi conservare la piena sovranità dello Stato nel quale vivere? Se sì, costui è nemico acerrimo della pace. Siete invece decisi a dare il vostro voto, il vostro appoggio soltanto a chi prometta di dar opera alla trasmissione di una parte della sovranità nazionale ad un nuovo organo detto degli Stati Uniti d’Europa? Se la risposta è affermativa e se alle parole seguono i fatti, voi potrete veramente, ma allora soltanto, dirvi fautori della pace.

Il resto è menzogna

 

* «Corriere della Sera», 4 aprile 1948.