Mani Pulite: cosa è stata e cosa ci ha lasciato - Parte terza

Tra i tanti aspetti degni di nota della fenomenologia di Mani Pulite, un’attenzione speciale meritano le invenzioni linguistiche, l’incessante conio di nuovi modi di dire o di nuovi significati per vecchie parole che ne germinarono direttamente o indirettamente
mani pulite
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Mani Pulite: cosa è stata e cosa ci ha lasciato - Parte terza


Io stringo i pugni e mi dico

che tutto cambierà

Neffa, Cambierà


4.2 La neolingua

Tra i tanti aspetti degni di nota della fenomenologia di Mani Pulite, un’attenzione speciale meritano le invenzioni linguistiche, l’incessante conio di nuovi modi di dire o di nuovi significati per vecchie parole che ne germinarono direttamente o indirettamente.

Il posto d’onore spetta al “dipietrese”, nell’accezione proposta da Wikipedia nella voce dedicata all’ex PM milanese [1].

Lo stesso Dr. Di Pietro ha fatto propria l'idea del “dipietrese” e l’ha trasformata in una personale cifra distintiva [2].

L’esempio riportato in nota conferma che il linguaggio del principale protagonista di Mani Pulite non è mai puro esercizio di stile quanto piuttosto uno strumento posto al servizio di una narrazione che a sua volta tende a riconfigurare la storia o almeno le cronache in modo coerente alla visione del narratore.

Questa la sequenza logica prescelta: il processo breve serve a ottenere rapidamente un risultato; “loro” fanno però una riforma che lo snatura; si crea così il rischio che, decorso inutilmente un certo lasso di tempo, il processo non si faccia più; se questo accade, il processo crea schiere di cornuti e mazziati sia tra le vittime che tra gli accusati.

C’è dunque un conflitto: chi racconta è dalla parte di chi cerca giustizia in tempi brevi; “loro”, cioè la massa indistinta di chi ostacola la giustizia, si oppongono allo stremo; in mezzo stanno i cornuti e i mazziati che adesso sanno bene chi se ne prende cura e chi, come direbbe Camilleri, li vuole “catafottere” una volta di più.

Se Di Pietro è stato il capofila, anche altri protagonisti o comprimari di Mani Pulite, chi più chi meno, hanno dato un contributo significativo ad orientare le parole verso certi significati [3].

Una menzione speciale meritano poi gli aforismi che hanno accompagnato e seguito l'inchiesta milanese e che da essa hanno tratto spunto.

La palma d’oro per questo aspetto spetta indiscutibilmente al Dr. Davigo cui va riconosciuta la brutalità disinvolta dei battutisti doc [4].

Il link in nota permette di farsi un’idea del Davigo-pensiero. Qui si ci può quindi limitare a riportare due delle perle più fulgide: «noi magistrati siamo come i cornuti; siamo gli ultimi a sapere le cose»; «Invidio i professori universitari: sono pagati per fare domande a gente che non sa niente e che fa di tutto pur di dire qualcosa, mentre io interrogo persone che sanno tutto e fanno il possibile per non dire neanche una parola». Nessun commento: servirebbe solo a sciupare la perfezione espressiva di queste frasi.

Resta un’ultima considerazione prima di chiudere questa breve – ma si spera significativa – carrellata.

L’influenza orwelliana che ha ispirato titolo, coordinate ideologiche e contenuto di questo paragrafo è ugualmente visibile in altre ricostruzioni ma in un senso decisamente opposto.

Ci si riferisce a un interessante articolo di Francesca Scoleri la cui tesi centrale accredita l’esistenza di un filone cinematografico il cui comune denominatore sarebbe la volontà di alterare la realtà giudiziaria di cui Mani Pulite fu parte integrante all'insegna di un negazionismo tanto insopportabile quanto ingiusto [5].

Sarebbe ovviamente sbagliato mettere a confronto e in competizione le opinioni qui espresse con quelle dell’autrice dell’articolo.

E sarebbe anche improprio servirsi della significativa sconfessione in secondo grado del primo verdetto del processo Stato – mafia cui tanto peso aveva attribuito l’Autrice.

Perché, appunto, si tratta di opinioni e non di verità rivelate ed ancora perché ogni punto di vista è legittimato a concorrere alla ricostruzione di una stagione di straordinaria complessità che mal tollererebbe visioni unilaterali e che fu la genesi di genuini sentimenti popolari.

È invece degno di nota che ad un’inchiesta si possano associare, pur secondo prospettive opposte, immagini orwelliane come se i suoi artefici o i suoi oppositori l’abbiano usata o abusata come oppio dei popoli e strumento di narcosi delle coscienze.


4.3 La nuova etica con i suoi eroi e i suoi demoni

È indiscutibile che Mani Pulite fu un’epopea nel senso proprio del termine, cioè un insieme di eventi di natura eroica degni di essere celebrati come un poema.

Questa definizione richiede tuttavia di essere ulteriormente precisata.

L’eroismo degli eventi non ha nulla a che fare con le caratteristiche soggettive e le qualità positive o negative dei loro artefici dovendo invece essere inteso nel senso della straordinarietà delle gesta compiute, capaci di dar vita a un mondo diverso dal precedente.

La straordinarietà dipende a sua volta in misura determinante dalla narrazione di quelle gesta, dal registro e dal timbro scelti dai narratori, dall’enfasi posta sui personaggi chiave la cui identificazione deve essere agevolata da uno stile formulare [6] e dalla costruzione della storia come un conflitto titanico tra bene e male.

Occorre infine che la narrazione sia quanto più possibile corale, così che ne siano sottolineati il radicamento popolare e la larga condivisione sociale.

Mani Pulite fu descritta esattamente in questo modo e la sceneggiatura primigenia è rimasta intatta anche ai giorni nostri.

Certo, le si sono affiancate altre narrazioni di segno critico ma pressoché nessuna di esse ha messo in dubbio che di epopea comunque si trattasse [7].

La raffigurazione sublimata di Mani Pulite produsse dunque eroi ma può essere tale solo chi si oppone al male e quest’ultimo deve camminare sulle gambe di qualcuno: se ci sono eroi devono necessariamente esserci anche gli agenti del male, i demoni.

Gli eroi, va da sé, devono essere pochi perché se fossero tanti le loro gesta e la loro stessa esistenza scolorirebbero in una grigia ordinarietà.

Il pool dei PM milanesi, fatto di pochi individui, si prestava perfettamente allo scopo con l'ulteriore vantaggio della riconoscibile differenza di ognuno di essi da tutti gli altri, sia pure al servizio della causa comune.

Quasi una riedizione del mito dei cavalieri della Tavola rotonda: un manipolo di brave hearts guidati da Re Artù e devoti alla più nobile delle cause, nel loro caso la ricerca del Santo Graal oltre al più rutinario mantenimento della pace nel regno.

Al contrario, i demoni devono essere tanti. Più sono meglio è, più è squilibrato il rapporto di forze con gli eroi tanto più valore avrà la resistenza di questi ultimi [8].

I demoni, in ultima analisi, sono tutti gli altri, sono la massa indistinta, sono quei “loro” a cui accenna Di Pietro quando spiega a modo suo cos’è un processo breve e perché non funziona (vedi nota n. 2).

Infine, il risultato ultimo di un’epopea, quindi anche di Mani Pulite, è la creazione di un nuovo ordine fondato su una nuova etica.

La si può agevolmente identificare nella pulizia.

I comportamenti pubblici devono essere puliti e trasparenti e con le istituzioni possono dialogare solo i privati che assicurino pari requisiti.

Questa linea etica è il fine ultimo. Ancora da raggiungere e continuamente ostacolato dalle forze del male, da “loro”. Sorge da qui la necessità di un costante controllo di legalità da parte delle forze del bene come sopra identificate.

Una pulizia indotta e imposta dai pochi eletti a tutti gli altri: questa fu la nuova etica a partire da Mani Pulite.


4.4 La nuova giustizia penale

Tra le sue tante caratteristiche Mani Pulite annoverò anche la sua vocazione riformatrice.

Ebbe cioè la capacità di cambiare le regole della giustizia penale, in modo più efficace e duraturo di qualunque riforma legislativa.

Il primo di questi cambiamenti si risolse nella centralizzazione del controllo giurisdizionale.

Ne ha dato testimonianza di recente il magistrato Guido Salvini, giudice del tribunale di Milano oggi come ai tempi di Mani Pulite [9].

Anche il giudice Italo Ghitti, intervistato vent'anni fa dal cronista Luigi Ferrarella, accettò di rievocare la stagione di Mani Pulite, il ruolo che vi ebbe e i suoi rapporti con il pool dei PM [10].

Le testimonianze di Salvini e di Ghitti, pur diverse nelle prospettive anche “ideologiche” dei loro autori e nella distanza di tempo dagli eventi cui si riferiscono, offrono un contributo di straordinaria importanza per la comprensione di ciò che, parafrasando il titolo di un libro [11], si potrebbe definire “il senso di Mani Pulite per le regole”.

Ghitti, controllore unico della legalità dell’inchiesta nella fase delle indagini preliminari e detentore esclusivo delle chiavi del carcere per gli individui coinvolti nell’inchiesta, neanche prova a riflettere (e certo non aiuta l’assenza di domande sul punto da parte dell’intervistatore) sull’eccezionalità di una situazione che demandava a un unico giudice l’interlocuzione con i magistrati del pool e le loro incessanti richieste. Né ci aiuta a capire come abbia potuto smaltire senza ritardi e intoppi il carico esorbitante di lavoro che gliene derivò e se, per caso, abbia trovato un rimedio fidandosi della correttezza delle proposizioni e delle conseguenti richieste della Procura e quindi, per ciò stesso, diminuendo l’intensità del controllo che gli spettava.

Ammette qualche eccesso nell’uso del potere cautelare ma si rifugia dietro la cogenza del canone interpretativo della “convergenza del molteplice” senza concedere all’intervistato e ai lettori un minimo di riflessione sulla possibilità che le molteplici dichiarazioni confessorie raccolte dagli inquirenti potessero essere inquinate da convenienze o pressioni insopportabili o cos’altro ancora.

Sostiene che le indagini avrebbero dovuto spingersi assai più avanti nella ricerca di riscontri credibili a quelle stesse dichiarazioni ma non ne trae la conclusione che, stando così le cose, potrebbe egli stesso avere avallato l’esistenza di gravi indizi o addirittura di prove lì dove non c’erano né gli uni né le altre.

Riconosce di avere interloquito in modo eccentrico con il PM Di Pietro ma non scorge dove stia lo scandalo e si giustifica con considerazioni al limite dell’incomprensibilità.

Afferma di essersi infine accorto che qualcosa non andava ma l’unica sbavatura che indica è quella di una fuga di notizie che gli fece comprendere che far parte del pool non equivaleva ad essere uno dei quattro evangelisti.

Davvero deludente la rievocazione del Dr. Ghitti che tuttavia, come appena rilevato, è significativa per il non detto più che il detto.

Ben più centrata e riferita a fatti indiscutibili la testimonianza di Salvini.

Ci offre uno spaccato di quotidiana violazione delle regole attuative del principio costituzionale del giudice naturale precostituito per legge che, pur nella pacatezza del ricordo, impressiona per la sua carica trasgressiva.

Ci dice che quella violazione fu comunicata a chi, per posizione funzionale, avrebbe dovuto prevenirla e risolverla e tuttavia non lo fece.

Spiega che a quella violazione seguirono i risultati più graditi alla Procura e uno scranno di componente del CSM per colui che aveva nelle sue mani “le chiavi del carcere di Tangentopoli”.

Guido Salvini afferma in ultima analisi che accaddero cose gravi e che poterono accadere perché nessuno si oppose tra coloro che avevano il dovere di farlo.

Non fu solo questa la novità procedurale di Mani Pulite.

Un’altra trovata fu il cosiddetto “interrogatorio contestuale o multitasking[12].

Lo stesso Dr. Di Pietro ha offerto in più occasioni e con diversi mezzi comunicativi ricostruzioni dettagliate delle sue innovative tecniche investigative[13].

Nulla da dire sulla loro capacità di provocare confessioni di massa.

Ci sarebbero tuttavia alcuni piccoli ma non trascurabili dettagli.

L’art. 64, comma 2, cod. proc. pen., dispone (e disponeva anche ai tempi di Mani Pulite) che «Non possono essere utilizzati, neppure con il consenso della persona interrogata, metodi o tecniche idonei a influire sulla libertà di autodeterminazione o ad alterare la capacità di ricordare e di valutare i fatti».

Pare a chi scrive che convocare qualcuno in fretta e furia, interrogarlo in uno stanzone pieno di gente in divisa e di altri colleghi di sventura e fargli intendere surrettiziamente di essere già stato seppellito da una valanga di accuse non sia esattamente in linea con la disposizione normativa appena citata né con i non trascurabili principi costituzionali di cui è espressione né con altri principi sovranazionali che pure il nostro Paese si è impegnato a rispettare.

Pare ugualmente che l’ammasso in un unico luogo di più indagati e il loro interrogatorio contestuale, se da un lato risponde perfettamente alle strategie sceniche di un inquisitore che vuole ottenere il massimo attraverso lo spiegamento della potenza del suo ruolo e delle sue funzioni, dall’altro contribuisce anch’esso ad intaccare l’autodeterminazione degli interrogati [14].

Che passa per la mente di chi sente il suo vicino di sedia o divano rendere dichiarazioni auto-accusatorie o peggio etero-accusatorie che lo chiamano in ballo? Che tranquillità interiore può conservare chi, mentre attende il suo turno, sente con le sue orecchie la pressione formidabile esercitata su chi viene prima di lui? Quale genuinità può riconoscersi a dichiarazioni sovrapponibili rese da interrogati ognuno dei quali è a conoscenza di ciò che hanno detto gli altri e, soprattutto, da interrogati che hanno compreso all’unisono cosa chi ci si aspetta da loro e cosa gli accadrà se non soddisferanno quell’aspettativa? E sarebbe questa la convergenza del molteplice di cui si accontentò il GIP Ghitti per mandare in galera fiumi di indagati?

In altri termini, possono essere intese queste condizioni complessive coma una forma di dolus bonus che dovrebbe stare nel manuale del buon investigatore o danno vita piuttosto ad un albero avvelenato che può dare solo frutti altrettanto avvelenati?

Chi scrive propende per la seconda alternativa ma il dibattito è sempre aperto.

Resta ancora da dire del ricorso robusto a misure custodiali carcerarie che fu uno dei segni distintivi di Mani Pulite.

Più e più volte i componenti del pool, principalmente Di Pietro e Davigo, hanno respinto sdegnosamente qualunque critica al riguardo.

Non è vero – hanno sostenuto entrambi – che si mandasse la gente in galera per ottenere confessioni e dare sempre più slancio all’inchiesta. È vero invece che si scarceravano gli indagati dopo la confessione perché questa faceva cessare la loro possibilità di reiterazione dei reati che gli erano stati attribuiti come pure il pericolo di inquinamento probatorio.

Qui bisognerebbe ripetere tutto quello che si è già detto in questo stesso paragrafo e vivisezionare nuovamente le risposte date a Ferrarella dall’unico detentore delle chiavi del carcere (si veda nota n. 10). Lo si evita per non provocare noia nei lettori ma si osserva che l’uso del potere cautelare in Mani Pulite fu sotto vari aspetti censurabile.

Si chiude con un’ultima notazione.

La forza di spinta che il pool degli inquirenti milanesi fu in grado di esercitare, l’iconicità delle loro gesta, il grande consenso popolare coagulatosi rapidamente e profondamente attorno all’inchiesta e l’assenza di distinguo e reazioni di qualche rilievo nella magistratura giudicante provocarono una trasformazione che si sarebbe rivelata di lunga durata.

Da allora in avanti, le Procure, in testa quella di Milano, divennero l’incarnazione della “giustizia giusta” e le tesi dell’accusa acquisirono il crisma della verità al punto da dimenticare che si trattava in realtà di proposizioni provvisorie in attesa di plurime verifiche.

Gli indagati si trasformarono in rei e gli fu riservato lo stigma proprio dei criminali conclamati.

La presunzione costituzionale di non colpevolezza fu relegata sullo sfondo e chi si ostinava a ricordarla e difenderla fu considerato connivente col malaffare o, nella migliore delle ipotesi, uno sciocco nostalgico.

Molto cambiò allora e non fu mai più come prima.

***

[1] La consultazione della voce è possibile a questo link. Questa è la descrizione:

Il lessico “dipietrese”

Alcuni aspetti del linguaggio utilizzato da Antonio Di Pietro, dapprima come magistrato, e, in seguito, dopo l’abbandono dell’ordine giudiziario, nella sua azione politica, sono stati oggetto dell’attenzione dei media, che hanno coniato il neologismo “dipietrese”, entrato nel gergo giornalistico e usato dallo stesso Di Pietro. Il fenomeno ha attratto l’attenzione dei linguisti, con articoli e commenti, per le sue caratteristiche innovative nel tradizionale modo di esprimersi della comunicazione pubblica in Italia, riconosciutegli in gradi diversi dai vari studiosi.

Questo modo d’esprimersi è salito alla ribalta nelle aule giudiziarie, in occasione delle udienze pubbliche di processi della stagione di Mani Pulite, in cui Di Pietro, in qualità di pubblico ministero, sosteneva il ruolo della pubblica accusa. In particolare, è venuto all'attenzione di un vasto pubblico a seguito della messa in onda delle registrazioni delle udienze di quei processi.

Caratteristiche del dipietrese

Il dipietrese si caratterizza per un lessico e un registro linguistico coloriti e popolari, con uno stile comunicativo spesso scevro da tecnicismi e formalismi, condito da espressioni tipiche, esclamazioni, detti proverbiali, neologismi funzionali, come «dazione» e «dazione ambientale», «fuggitore di notizie» (autore delle fughe di notizie), «mosca cavallina», «zanzata», «benedettiddio!» o «Santa Madonna!», «che c’azzecca?» («cosa c’entra?»), «Non ho capito!», «Scusi, non ho capito!» (frasi ed esclamazioni rivolte a testimoni o imputati per sottolineare la contraddittorietà di quanto dichiarato), «O è zuppa, o è pan bagnato», e l’affermarsi di numerose altre polirematiche e neologismi divenute patrimonio del linguaggio comune, come “Mani pulite” e “Tangentopoli”.

L’eloquio tende a uno stile nominale, pur senza eccedere, come altri, in nominalismi. Un’altra cifra distintiva è l’ampio uso di sigle in funzione di «parole piene»: «il PG» (Procuratore generale), «il GIP» (Giudice per le indagini preliminari), «il PM» (pubblico ministero).

Innovatività del linguaggio di Di Pietro

Quando il linguaggio di Di Pietro si manifestò per le prime volte, offrendosi a una vasta platea giornalistica e televisiva, in esso fu immediatamente riconosciuto un carattere di novità, rispetto a formulazioni linguistiche retoriche e stereotipate del linguaggio settoriale normalmente associato all’ambiente giudiziario. La novità del linguaggio si accompagnava alla novità della condotta dibattimentale, anch’essa fuori dagli schemi per quanto riguarda il modo di porgere le prove agli interlocutori del pubblico ministero, anche con l’utilizzo, veramente innovativo per l’epoca, di risorse informatiche e multimediali. Il giudizio sull'innovatività linguistica del dipietrese, assume toni diversi nelle opinioni dei linguisti: Michele Cortelazzo, ad esempio, senza negarne gli aspetti di novità, considera il linguaggio di Antonio Di Pietro ancora troppo vincolato ai paludamenti del tecnicismo giudiziario. Più severo è il giudizio di Raffaele Simone, che invece riconosce nel dipietrese i vizi perduranti del linguaggio della comunicazione pubblica italiana, «enigmaticità ed equivocità», accostate, nel suo caso, a una dose di «scombinatezza».

[2] Se ne fornisce un esempio tratto dal sito internet dell’interessato e rilanciato il 9 febbraio 2011 da Il Sussidiario.net, a questo link. Nell’occasione l’ex magistrato si propone di spiegare cos’è il processo breve. Ecco la summa del suo pensiero al riguardo: «Si dovrebbe partire, dice, dal presupposto che entro un certo tempo si deve avere un risultato. Invece la loro riforma prevede che entro un certo tempo o c’ho un risultato o il processo non si fa più». Il che significa che dopo un tot di tempo, potrebbe capitare che coloro che dovessero trovarsi dalla parte della ragione, potrebbero rimanere «cornuti e mazziati». Si tratta di «tutte le vittime dei reati» che «non potranno più avere giustizia», cui si aggiunge il fatto che per «le persone imputate rimarrà per sempre l’alone del dubbio perché non hanno potuto scagionarsi».

[3] Ne parla G. Vitiello, Neolingua della politica italiana, in Il Sole 24 ore, 21 novembre 2013, a questo link. Questa è la sua tesi a proposito della parola “legalità”: «Qualche anno fa Feltrinelli pubblicò un libro illustrato per l'infanzia, Le regole raccontate ai bambini, firmato da Gherardo Colombo, ex magistrato di Mani pulite, e da Marina Morpurgo. Tra le illustrazioni di Ilaria Faccioli ce n’erano un paio che vale la pena descrivere: nella prima, dallo spiccato gusto maoista, un gruppo di bambini in festa mostra cartelli con scritto «Viva la legalità! Vogliamo legalità!»; nella seconda, un signore cattivo (guarda caso bruno, semicalvo e dal sorriso smagliante) è circondato da tv, radio e giornali che intonano all’unisono: «Vota lui!». Tanto basta per capire che legalità non è più una parola neutra e innocente, e si presta agli usi ideologici più vari. Specie quando circola in aggregati come «cultura della legalità» (formula vaga su cui prospera tutta un’antimafia khomeinista) o «controllo di legalità», l’idea che i magistrati siano non già applicatori della legge ma guardiani del gregge, preposti a vegliare perpetuamente sulla Nazione. Capita così che un Gian Carlo Caselli chiami «assalti alla legalità» quelli che sono, tutt'al più, assalti a Gian Carlo Caselli. Occorre quindi affinare l’udito quando si sente inneggiare alla legalità: sembrano inviti al rispetto della legge, e spesso sono appelli al tifo incondizionato per la magistratura inquirente. Le due cose, direbbe il santo Milarepa, «paiono uguali, ma sta attento a non confondere».

[4] Per un florilegio ragionato delle frasi celebri del magistrato, si rinvia all’apposita voce di Wikiquote, a questo link.

[5] Ci si riferisce a F. Scoleri, Il cinema orwelliano che vuole annullare la storia giudiziaria, in Themis e Metis, 10 gennaio 2020, a questo link. Se ne riporta un passaggio testuale (i neretti sono dell’autore di questo scritto): «Vorrei rivolgere a ciascun lettore l’invito a vedere due film, il primo è Il traditore, uscito nelle sale nel 2019, il secondo è Hammamet che potete trovare al cinema in questi giorni. Sottolineo “vorrei” perché c’è una premessa da considerare: vedete questi film solo se conoscete la vita giudiziaria di due soggetti: Giulio Andreotti e Bettino Craxi, altrimenti rischiate di essere presi dall’ira garantista che spopola negli ambienti peggiori che questo Paese comprenda. Un anno prima del film di Bellocchio, la sentenza del processo trattativa Stato mafia che a differenza della magistrale interpretazione di Pierfrancesco Favino, non ha potuto contare né su maxi schermi, né su piccoli schermi. La conclusione del processo più importante sul piano storico politico – insieme a tangentopoli – non interessava a nessuna trasmissione di approfondimento. E i quotidiani? Sul Corriere della sera, la prima pagina era occupata dall’ira di Berlusconi che minacciava di denunciare i pm, La Repubblica annunciava la condanna di Dell’Utri ma dimenticava di dire che se l’è beccata perché mediava con Cosa nostra per conto di Berlusconi, La Stampa annunciava i tentativi di formare il governo da parte di Salvini e Di Maio, Il Messaggero annunciava “il divorzio tra Salvini e Berlusconi” (poi è tornato l’amore), Il Tempo titolava con un gigantesco “Onore a Mori” fresco di condanna proprio in quel processo».

[6] Perfetti esempi omerici di stile formulare sono gli epiteti “Achille piè veloce”, “l’astuto Odisseo”, “Atena glaucopide”. È agevole trovare assonanze in Mani Pulite. Dal lato dei “buoni” spiccano “il dottor sottile” (Piercamillo Davigo e il suo acume giuridico), “il contadino” e “lo zanzone” (Antonio Di Pietro e le sue origini sociali ma anche la sua furbizia bertoldesca e la disinvoltura nelle tecniche investigative), “zio Gerry” (Gerardo D’Ambrosio e la sua bonomia), “il grinta” (il capitano dei carabinieri Roberto Zuliani). Dal lato dei “cattivi” emergono “il mariuolo” (Mario Chiesa), “il cinghialone” (Bettino Craxi) e tanti altri. Per una rassegna di parte degli epiteti si rinvia a T. Maiolo, Da chi era composto il pool di Mani Pulite, i paladini del bene contro i politici corrotti, in Il Riformista,16 febbraio 2022, consultabile a questo link.

[7] Per un esempio tra i tanti possibili si rinvia a F. Ceccarelli, Mani Pulite e il mito del pool: la fine di un’epopea con l’uscita di scena di Davigo, in La Repubblica, 20 ottobre 2020, a questo link. Se ne riporta un passaggio eloquente (i neretti sono dell’autore di questo scritto) e: «Per esercitare il suo potere, di solito il Mito deve mostrarsi lasciando possibilmente delle tracce. Così, per quanto riguarda i primi anni ‘90 gli archivi sono pieni di immagini del Pool di Mani Pulite. Foto di gruppo, posate e in movimento, sulle scale e lungo i corridoi del Palazzo di giustizia di Milano; anche se l’immagine più famosa, scattata nel luglio del 1993, ritrae il Procuratore Borrelli, Tonino Di Pietro e Gherardo Colombo che camminano all'interno della Galleria, luogo simbolo di Milano. Ripresi dall’alto e allineati in inquadratura frontale, i magistrati erano di ritorno dal funerale delle vittime dell'attentato – tuttora oscuro – di via Palestro; ma ciò che rese simbolica quella foto è la folla che dietro e intorno sembra spingerli e insieme li protegge e li sostiene. Una folla, a ripensarci dopo tanti anni, che di miti in quel momento aveva un dannatissimo bisogno. Nella storica immagine non compare Pierluigi Davigo, di tutti i Pm il più serio e di aspetto anonimo nell’iconografia di Mani Pulite. Sarà lui poco più di un anno dopo, nel settembre del 1994, a pronunciare una frase che dà l’idea dell’arduo compito che quel gruppo di uomini si era assunto: “Sì, vogliamo rivoltare questo Paese come un calzino”. Non esistono comunque mitologie che durino per sempre. La leggenda del Pool si espresse principalmente a furor di popolo, ma anche come risorsa narrativa e simbolica, quindi con il contributo determinante del sistema mediatico, che fino a un certo punto comprendeva – eccome! – le tv berlusconiane. Al mondo dell’informazione piaceva senz’altro il fatto che si trattasse di un’entità non solo collettiva, ma anche variegata; la sottigliezza di Borrelli, il suo amore per la musica classica; il linguaggio rustico e l’energia di Di Pietro; l’affidabilità democratica di D’Ambrosio; la capigliatura arruffata e le precedenti inchieste di Colombo contro la corruzione; ma anche la chiarezza cristallina con cui Davigo mostrava di essere un uomo d’ordine, o di destra, per dirla con i criteri di allora. È difficile rileggere il passato prossimo, ma ancora di più a partire dal presente, cioè dai risultati delle inchieste. Ma al netto delle promesse e della retorica dell’eroismo è indubbio che in quel momento cruciale il Pool condizionò più di ogni altra forza il processo politico, i codici ideologici e le aspettative di un sistema – la Repubblica dei partiti – in balia della più inesorabile e prolungata rovina. Nel senso che dopo Mani Pulite il Paese non fu rivoltato come un calzino, ma tutto fu comunque diverso, sebbene – tocca aggiungere con il dovuto smarrimento – uguale e perfino peggiore di prima. E questo anche perché, come ogni mito che gorgoglia nell’immaginario di un Paese di calde passioni, la Grande Inchiesta contro i Cattivi non fu vissuta solo come una giusta vendetta (si pensi a Falcone e Borsellino) o una salutare inquisizione, ma anche come un iroso esorcismo e una purificazione fin troppo utile a evitare qualsiasi esame di coscienza. Ma queste forse sono vane elucubrazioni. Sta di fatto che una volta tanto in Italia la giustizia, dea con la bilancia e la spada, non apparve in veste di operetta o di commedia, ma di dramma e in qualche caso addirittura di tragedia».

[8] Qui il ricordo va al celeberrimo invito a “resistere, resistere, resistere, come sulla linea del Piave” di Francesco Saverio Borrelli. Il magistrato pronunciò questa frase nel suo intervento quale Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Milano all’inaugurazione dell'anno giudiziario 2002. Si rinvia a un trafiletto di La Repubblica del 12 gennaio 2002, a questo link.

[9] Si veda G. Salvini, A trent’anni da Mani pulite, vi spiego cosa accadeva a Milano, Il Dubbio, 8 dicembre 2021, a questo link. Ecco il testo integrale dell'articolo (i neretti sono quelli dell'edizione originaria; le sottolineature sono dell'autore di questo scritto): «Ho appena letto un ampio articolo di Fabrizio Cicchitto nel trentennale di Mani pulite e quindi dell’origine del giustizialismo e, per alcuni, dell’idea di un socialismo per via giudiziaria. L’autore fa un breve accenno al ruolo svolto a Milano dall’ufficio Gip. Anche allora, negli anni ’90, vi prestavo servizio e quindi posso dare un contributo raccontando meglio una storia che pochi conoscono. È solo un aspetto tra i tanti di un fenomeno giudiziario con molte angolazioni, ma non è secondario, vale la pena di ricordarlo e posso narrarlo in prima persona. Cicchitto parla di un unico Gip che accentrò, indebitamente, tutti i filoni di quell’indagine rivolta pressoché all’intero mondo politico e imprenditoriale. Non sbaglia e spiego meglio cosa è successo. L’ufficio Gip in quel momento era un passaggio decisivo perché era chiamato ad accogliere o respingere la richiesta di cattura presentate dal Pool e poi le istanze di scarcerazione o di arresti domiciliari, un meccanismo da cui in pratica dipendeva il funzionamento e lo sviluppo di quell’inchiesta “sistemica”. Era comodo per la Procura avere un unico Gip già sperimentato, per alcuni già “direzionato”, e non doversi confrontare con una varietà di posizioni e di scelte che potevano incontrare all’interno dell’ufficio Gip, formato da una ventina di magistrati. Andava evitata e prevenuta una possibile variabilità di decisioni dei giudici che potesse in qualche modo creare “difficoltà” alle indagini o comunque costringere chi le conduceva a confrontarsi con punti di vista diversi. Così il Pool escogitò un semplice ma efficace trucco costituendo, a partire dall’arresto di Mario Chiesa, un fascicolo che in realtà non era tale ma era un “registro” che riguardava centinaia e centinaia di indagati che nemmeno si conoscevano tra loro e vicende tra loro completamente diverse unificate solo dall’essere gestite dal Pool. Il numero con cui iscrivevano qualsiasi novità che riguardasse tangenti in tutti i settori della Pubblica amministrazione era sempre lo stesso, il 865592, quello del Pio Albergo Trivulzio, un fascicolo estensibile a piacere, tra l’altro anche a vicende per cui la competenza territoriale dell’autorità giudiziaria di Milano non esisteva. Invece le regole nella sostanza volevano che ad ogni notizia di reato fosse attribuito un numero e ad ogni numero seguisse la competenza di un Gip non individuabile a priori. Ma questo espediente dell’unico numero impediva la rotazione e consentiva di mantenere quell’unico Gip iniziale, quello dell’indagine sul Trivulzio, Italo Ghitti, che evidentemente soddisfaceva le aspettative del Pool. Un paio di anni dopo, nel 1994, vale la pena di ricordarlo, Ghitti divenne consigliere del Csm: un’elezione e un prestigioso incarico propiziati quasi esclusivamente dall’essere stato appunto il “Gip di Mani pulite”. I principi dell’Ufficio furono quindi sovvertiti radicalmente e non si trattava di regole puramente organizzative o statistiche ma che dovevano presiedere al principio del giudice naturale e cioè che il giudice fosse del tutto indipendente e non fosse scelto da altri, soprattutto non dalla Procura. Ci fu anche un episodio che mi riguardò. Nel maggio 1993 un filone arrivò a me per “sbaglio”. Si trattava di quello relativo ad alcune presunte tangenti, peraltro romane, pagate nella Asst l’Azienda dei Telefoni, una storia che nulla aveva a che fare ovviamente con il Trivulzio. Ma portava scritto sulla copertina quel famoso numero. Nel giro di pochi giorni, prima ancora che potessi decidere su alcune richieste del Pool, il fascicolo mi fu sottratto senza tanti complimenti e passò al Gip Ghitti, evitando così che non solo io, questo non è affatto importante, ma che qualsiasi altro Gip dell’ufficio “interferisse” nella macchina di Mani pulite. Questa abnormità fu più che tollerata, e tollerata forse è dir poco, dai capi dell’ufficio Gip. Feci loro notare con una nota documentata la situazione del tutto illegittima che si era creata. Le mie osservazioni furono semplicemente cestinate. Non era il tempo di seguire le strada giusta ma di adeguarsi al mainstream. È andata così. Conservo ancora a distanza di tanti anni una cartellina con quegli atti e la lettera che avevo inviato al capo Ufficio. Del tutto inutile. L’ufficio Gip si inchinò e fece una triste figura».

[10] L. Ferrarella, Arresti necessari per impedire i depistaggi, Il Corriere della Sera, 16 febbraio 2002, a questo link. Segue il testo integrale dell'intervista (neretti di Ferrarella):

Italo Ghitti, come giudice delle indagini preliminari di Mani pulite dal 1992 al 1994 (quando lasciò e fu eletto al Csm) era lei ad avere le chiavi del carcere di Tangentopoli: ne ha mai abusato?

«Dico di no».

Mai un dubbio?

«Credo di aver mantenuto la paura di sbagliare. Anche se posso aver commesso errori».

Ne dica almeno uno.

«Ho sempre avuto l’idea di salvaguardare il processo: forse oggi non lo rifarei più».

In che senso?

«Faccio un esempio: ho negato almeno 90 arresti chiesti dai pm. Ma, salvo pochi casi, non lo si è mai saputo: forse oggi diffonderei io la notizia».

Perché?

«Anche per ridimensionare le cavalcate delle valchirie al quarto piano» (quello dei pm, ndr). Ma soprattutto per evitare l’accusa d’essere giudice appiattito sui pm».

Alt: non fu suo il bigliettino che al pm Di Pietro spiegava come riformulare l’accusa a un indagato? Ancora oggi, i fautori della separazione delle carriere tra pm e giudici vivono di rendita su questo episodio.

«In quel bigliettino io esponevo al pm le ragioni giuridiche per cui non gli davo un arresto (il manager Maddaloni, ndr)».

Per questo si scrivono le ordinanze formali di rigetto, non i bigliettini.

«Non lo feci perché, nelle more, mi arrivò una lettera di Di Pietro con scritto “ecco perché Maddaloni deve andare dentro”, e allegato un anonimo. Non sapevo più che farne: me lo mangiavo? Se avessi fatto l’ordinanza formale di rigetto, avrei dovuto depositare agli atti anche quell’anonimo».

Forse avrebbe dovuto. Non lo fece per tutelare il pm?

«No, per salvaguardare il processo. Era il 4 gennaio 1994, primo giorno in cui Cusani sarebbe comparso da libero in tribunale: immagina cosa sarebbe accaduto?».

Cosa risponde a chi le ricorda i dc Adamoli, Generoso o Darida, arrestati, assolti e risarciti per «ingiusta detenzione»?

«Che il problema sta tutto nella differenza tra indizi e prove. Per arrestare ci vogliono i gravi indizi: e vengono dall’accusa, senza contradditorio con la difesa fino all’udienza di convalida. Per condannare ci vogliono prove. E non sempre i gravi indizi sono sviluppati in prove: in uno dei processi che cita, neppure fu convocato il teste d’accusa».

Non c’erano soluzioni alternative alla cattura?

«No. Gli arresti avvenivano soprattutto all’inizio di ogni nuova indagine, quando massimo era il pericolo di inquinamento delle prove, che cessava o si attenuava solo dopo le ammissioni dell’indagato. Un pericolo che ho verificato più di una volta, di fronte a patti tra indagati per ridimensionare responsabilità o addossarle ad altri».

Tipo?

«Inchiesta Aem: ci fu un accordo tra amministratori per scaricare su un solo indagato, Lizzeri, tutte le responsabilità dei soldi alla Dc, che invece erano per lo più di un altro, Prada».

Questo resta il vero dubbio su Mani pulite: e cioè che i vostri indagati, specie nelle grandi aziende, attraverso le loro politiche difensive possano avervi di volta in volta saziato con porzioni di verità per proteggere il resto. O per combattere, tramite voi, guerre per bande.

«Guerre per bande, non so. Da parte mia vi era la certezza che gli imprenditori non dicessero tutto e fossero loro a scegliere il campo nel quale ammettere responsabilità. D’altro canto li interrogavamo su fatti specifici e senza disporre di altri elementi, non si poteva fare diversamente. Per le grandi imprese che scelsero di cooperare, aggiungo che vi fu non solo la sensazione, ma persino la certezza che avessero fatto una specifica scelta dei terreni da offrire agli inquirenti: basta leggere l’interrogatorio nel febbraio ’94 di Mosconi (il top manager Fiat che raccontò di riunioni a Vaduz per distruggere carte bancarie, ndr)».

Potevate smarcarvi?

«Io come gip non facevo indagini, ma avvertii più di una volta Di Pietro che probabilmente bisognava compiere verifiche ulteriori rispetto alle ammissioni degli indagati».

Un caso?

«Lo stesso Mario Chiesa, visto che l’ammontare dei contratti appariva ben superiore a quello per il quale venivano ammesse tangenti. O il caso Pacini Battaglia: prospettai a Di Pietro l’opportunità di verificare direttamente la documentazione proveniente dalla sua banca».

I pm rispondono: il mulino delle confessioni lavorava a pieno regime, può essere sfuggito qualcosa.

«In realtà si sarebbe dovuto sviluppare un lavoro investigativo diverso da quello praticato, cercare elementi oggettivi di riscontro che prescindessero o avvalorassero le pur molteplici ammissioni».

E perché non fu fatto?

«Uno degli elementi più nocivi per il consolidarsi della prassi di fermarsi alle ammissioni venne dalla Cassazione, che proprio in quegli anni affermò il valore della “convergenza del molteplice”, solo più tardi abbandonato».

Via libera.

«Ma questo appiattirsi ha comportato una oggettiva incapacità di adeguare il metodo di indagine ai fatti di corruzione che emergevano. Incapacità divenuta palese di fronte ai cosiddetti “uomini della Siberia”».

Allora lei, a chi vi accusa di non aver incalzato anche il Pci-Pds, non risponde con la medesima tesi dei pm del pool, secondo i quali la differenza con gli altri partiti l’avrebbero fatta la minore voracità dell’apparato «rosso», la rocciosa fibra degli indagati, e l’amnistia del 1989.

«No, la penso diversamente. Posso dire che non c’è stata una scelta di tenere fuori dalle indagini un qualche partito politico. Ma dico anche che c’è stata l’incapacità di adeguare il metodo delle ammissioni, che non avrebbe mai potuto funzionare con gli “uomini della Siberia”».

La storia di Mani pulite avrebbe potuto essere diversa?

«La storia di Mani pulite non ha esaurito e non esaurisce la storia: qualcuno si sarà anche potuto salvare da accuse di corruzione, ma magari ha dovuto lasciare la sede di partito, vendere il giornale, chiudere l’azienda... E di fatto, il tempo ha evidenziato come, al di là dei fatti penalmente rilevanti, vi fossero altre realtà che adottavano praticamente lo stesso metodo dei partiti più coinvolti».

Chi vi osannava, oggi vi crocifigge: quando si è rotto l’incantesimo?

«Per me la fine del consenso a Mani pulite ha due date precise. La prima: 3 settembre 1993, arresto del giudice Diego Curtò, la gente comincia a pensare che la corruzione non è solo tra i partiti ma può esistere persino tra i magistrati. La seconda: 4 ottobre 1993, richiesta di archiviazione per il tesoriere pds (lo scomparso Marcello Stefanini, ndr), la gente comincia a pensare che allora non c’è imparzialità».

A torto o a ragione?

«Non lo so dire. Ho già esposto la mia idea».

Lei, però, è stato il primo ad abbandonare la scialuppa di Mani pulite.

«Ricordo anche l’ora in cui decisi di terminare il lavoro, cercando soluzioni alternative (la candidatura al Csm, ndr): le 15.57 dell’8 marzo 1993».

Fu il giorno in cui Dell’Utri, avendo appreso da una «fuga di notizie» del Tg5 che per lui il pool aveva chiesto l’arresto, si presentò davanti al giudice competente. Lei che c’entra?

«Mi resi conto che non riponevo più fiducia nella correttezza di alcuni pm, perché in quella circostanza ebbi la certezza che determinate notizie uscivano dagli uffici dei pubblici ministeri».

Cosa o chi glielo fece ritenere?

«No, basta. Su questo non voglio dire di più».

[11] Il riferimento è al libro “Il senso di Smilla per la neve” di Peter Høeg dal quale è stato tratto l'omonimo film di Bille August, interpretato da Julia Ormond, Gabriel Byrne e Richard Harris.

[12] Si rinvia a G. M. Jacobazzi, Davigo, Di Pietro e Colombo, la reunion di Mani Pulite, Il Dubbio, 21 dicembre 2017, a questo link. Il redattore dell’articolo descrive un incontro tenutosi a Merate per celebrare il venticinquennale di Mani Pulite al quale hanno preso parte Piercamillo Davigo, Antonio Di Pietro e Gherardo Colombo. Questo è il testo integrale (i neretti sono dell’autore di questo scritto): «Ricorda molto i festeggiamenti per i 150 anni dell’Unità d’Italia. Durarono un anno intero. Soltanto che invece di celebrare l’Anniversario della proclamazione ufficiale della nascita del Regno d’Italia, si celebra il venticinquennale delle manette ai polsi di Mario Chiesa, il “mariuolo”, come disse Bettino Craxi, il cui arresto, avvenuto il 17 febbraio del 1992 mentre stava intascando una tangente di sette milioni di lire al Pio Albergo Trivulzio, diede il via a Tangentopoli. Dal mese scorso, infatti, si susseguono i dibattiti, le tavole rotonde, gli incontri pubblici per commemorare, come avviene per le nozze, le “manette d’argento”. Numerosi, poi, gli articoli di giornale e i servizi in televisione con le immagini d’epoca in cui si vedono sfilare i tangentisti, o presunti tali, con i ferri al cospetto del Pool di Milano. Ma i veri protagonisti sono loro: Piercamillo Davigo, Gherardo Colombo e Antonio Di Pietro. Come una vecchia rock band che propone da sempre lo stesso repertorio, da settimane girano l’Italia per raccontare come alcuni pubblici ministeri della Procura di Milano, un quarto di secolo fa, riuscirono nell’impresa di spazzare via la Prima Repubblica. Uno degli ultimi incontri è avvenuto a Merate (Lc), nell’auditorium del collegio Villoresi. Ospiti delle suore della congregazione di Maria Consolatrice, i tre – Gerardo D’Ambrosio è mancato nel 2014 dopo essere stato anche parlamentare del Pd – hanno raccontato l’età dell’oro della custodia cautelare. A supportarli, Piero Colaprico, giornalista di giudiziaria di Repubblica e, per altro, colui che coniò il termine Tangentopoli. Davanti a un folto ed eterogeneo pubblico, moderatore l’ex magistrato Piero Calabrò, già presidente facente funzione del Tribunale di Lecco e fondatore della Nazionale italiana magistrati di calcio, i reduci del Pool di Milano hanno descritto un’Italia dove si rubava su tutto e dove le tangenti erano ugualmente distribuite fra i vari partiti dell’arco costituzionale. Tranne Democrazia Proletaria e il Movimento sociale italiano. Antonio Di Pietro si è lasciato andare all’aneddotica. Due episodi meritano di essere ricordati. Il primo: gli interrogatori “multitasking”. Per evitare che gli indagati comunicassero fra loro, anche tramite i loro avvocati, Di Pietro era solito convocarli tutti insieme in una stanza del Palazzo di giustizia di Milano dove erano presenti 11 postazioni con dei computer. Alla tastiera e al mouse personale delle Forze di polizia, carabinieri, finanzieri, vigili urbani. Un gioioso mix di divise al servizio di Tonino da Montenero di Bisaccia. Qui, come Garri Kasparov senza gli scacchi ma con la toga, si alternava di postazione in postazione interrogando i vari malcapitati. Spesso membri di consigli di amministrazione di società sospettate di pagare le mazzette. Questo stratagemma serviva ad impedire che venissero concordate le varie deposizioni, inchiodando in tal modo i rei alle loro responsabilità. Il secondo aneddoto è degno dei migliori film polizieschi degli anni 70. In un’occasione, infatti, Di Pietro prese dei faldoni, li fece riempire con carta di giornale per fare spessore e li posizionò sulla scrivania. Quando entrò l’imputato, il pm disse: «Queste sono le contestazioni alle quali deve rispondere. Da dove cominciamo? Ne prendo una a caso?». Così facendo terrorizzò l’indagato che confessò tutto».

[13] Si veda A. Di Pietro (a cura di G. Valentini), Intervista su Tangentopoli, Laterza editore, 2000. Si veda anche l’intervista, pubblicata su YouTube e consultabile a questo link, che l’ex PM concesse ad Angelo Zappalà nel corso della terza edizione del festival della criminologia tenutasi a Torino tra il 23 e il 28 ottobre 2018. Si veda infine l’intervista concessa dallo stesso Dr. Di Pietro alla redazione di Bergamo News, pubblicata il 16 febbraio 2017 su YouTube a questo link.

[14] È di particolare interesse al riguardo il ricordo personale di E. Amodio, Mani Pulite: una giustizia con l’elmetto, in Discrimen, 7 marzo 2022, a questo link. Eccone uno stralcio significativo: «Ricordo una mattina in Procura, in uno stanzone pieno di una decina di persone accorse spontaneamente per confessare le modalità e gli importi delle tangenti versate a funzionari pubblici. Ciascuno sedeva davanti ad un esponente della polizia giudiziaria che verbalizzava il racconto di imprenditori tremanti e manager ansiosi di vuotare il sacco per scampare alla galera. Un magistrato si muoveva tra i diversi punti di ascolto e verificava gli importi delle mazzette costitutive di reato. E in qualche caso il magistrato esplicitava la sua censura: «Solo duecento milioni di mazzette con il fatturato enorme che ha la sua azienda? Non è credibile: a San Vittore». Ho visto un anziano inquisito invocare stralunato un po' di pietà: «Il carcere no, dottore, ho detto tutta la verità, mi creda!». Era questa la pratica della territio di medievale memoria. L’indagato doveva capire che collaborare con la giustizia era un dovere sanzionato con il carcere quando la bocca rimaneva troppo cucita. Mi è capitato di assistere un indagato che non riusciva a soddisfare l’esigenza del pubblico ministero. Ed ecco la reazione, come un colpo di frusta: «Lei non sta raccontando tutto quello che sa, se va avanti così sa dove va a finire? A San Vittore, perché il giudice ha già firmato un ordine di custodia in carcere che ora spetta a me eseguire». Una frase pronunciata sventolando un atto che confermava la decisione del giudice».