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Necessità della colpa e sacrificio dell’innocenza: tre storie italiane

Castello degli Estensi, Piazza Castello, Ferrara
Castello degli Estensi, Piazza Castello, Ferrara

II Parte

Indice

4. La traslazione della colpa

5. La colpa e la ragion di Stato

6. Considerazioni finali

 

4. La traslazione della colpa

 

La vicenda descritta in questo paragrafo riguarda la morte di FA, avvenuta a Ferrara il 25 settembre 2005 alle ore 6.15.

Al pari di quella commentata nel paragrafo precedente, è stata oggetto di un giudizio penale le cui statuizioni sono state conformi dal primo grado alla fase di legittimità.

Non sono però le sentenze l’oggetto del mio interesse.

Non è mio compito comprendere cosa sia avvenuto in mezzo a quei due fotogrammi, cosa abbia trasformato un ragazzo sorridente con l’intera vita davanti a sé in un cadavere segnato da un’immane violenza.

L’hanno già fatto coloro cui spettava e la verità che hanno proclamato non è più discutibile.

Desidero invece evidenziare la coesistenza in questa vicenda di due opposte narrazioni.

La prima è quella asseverata da uomini e donne della Polizia di Stato, con l’ulteriore caratteristica di avere agito in gruppo e in modo coeso e condiviso.

La seconda è quella proposta da altri, ai quali i giudici, tutti i giudici, hanno creduto.

Ci si potrebbe consolare constatando che allo sciupio insensato di una vita umana non è seguito l’ulteriore oltraggio della strumentalizzazione della morte sull’altare della colpa.

Ma sarebbe una consolazione tutt’altro che risolutiva se solo si considera quanta profondità abbia raggiunto il tentativo di segno opposto, quali ambienti lo abbiano concepito e condotto, quanta forza esso abbia mantenuto anche dopo che la giustizia aveva pronunciato le parole finali.

Non trovo quindi granché di confortante in questa storia e ritengo che le condanne che pure sono state inflitte a conclusione di un giudizio non facile non abbiano ripristinato, non certo per colpa di chi le ha emesse, l’equilibrio sociale travolto da quel tentativo di mistificazione.

Pongo adesso a confronto le due storie raccontate.

Mi servo a questo fine della motivazione della sentenza di primo grado il cui testo integrale è facilmente reperibile in numerosi siti web.

Uso come fonte esclusiva il testo giudiziario per evitare il rischio che mie proiezioni mentali si inseriscano inconsciamente nel lavoro descrittivo che intendo compiere e ne inquinino l’oggettività[6].

Quelle riportate in nota sono le proposizioni essenziali del giudizio di primo grado.

Mi fermo ad esse perché le decisioni successive, fatta eccezione per distinguo non essenziali, ne hanno largamente confermato la validità.

Tutto ciò che conta è adesso esposto e si offre alla valutazione di ognuno.

Da un lato la versione dei poliziotti chiamati a rispondere della morte di FA: si trovarono a fronteggiare un individuo pericoloso e temibile, ne furono aggrediti, furono costretti all’uso della forza, in quell’esatto grado con cui la usarono, non fecero che obbedire alle regole dettate dai manuali operativi, non ebbero altro scopo che proteggere la comunità dai rischi cui poteva esporla un energumeno tossico e infuriato.

Dall’altro la verità dichiarata dai giudici: gli accusati agirono non come tutori dell’ordine ma come persone infuriate per l’asserita ma indimostrata reattività di FA, si vendicarono al pari di bulli di strada, lo pestarono brutalmente al punto di rompergli addosso due manganelli, lo ridussero a una totale immobilità, gli inflissero lesioni innumerevoli, gli provocarono un’asfissia, rimasero indifferenti alla sua agonia, ostacolarono e depistarono le indagini, mentirono ripetutamente, non mostrarono mai, in nessuna occasione, alcun segno di pentimento e autocritica, nessuno di loro ebbe dubbi e ripensamenti mentre si consumavano i fatti, nessuno di loro tentò di fermare gli altri o di richiamarli alla ragione.

Ritengo a questo punto dimostrata la pertinenza del titolo di questo paragrafo.

FA non aveva colpa se non quella di avere assunto sostanze stupefacenti e di trovarsi ancora esposto ai loro effetti.

Era quindi, a tutti gli effetti, un innocente.

Alcuni rappresentanti dello Stato, per ragioni che, quand’anche comprese non aggiungono nulla alla storia, ignorarono quella condizione di innocenza e le sostituirono artificialmente la colpa.

Diedero poi seguito all’artificio iniziale e trattarono FA come ritenevano che andasse trattato un colpevole, punendolo, infierendo prima sul suo corpo e poi, a morte avvenuta, sulla sua anima, continuando a negargli l’innocenza che non avevano saputo scorgere, attribuendogli caratteristiche che ne alteravano la reale identità.

La colpa degli uni venne trasferita all’altro, secondo un meccanismo psicologico tutt’altro che nuovo nella storia umana: siamo violenti ma siete voi che ci costringete ad esserlo.

Basterebbe e avanzerebbe ma la vicenda non finisce qui.

Al processo per la morte di FA se ne è affiancato un altro che ha esplorato il comportamento di altri poliziotti le cui funzioni operative all’epoca dei fatti si incrociarono con quelle dei colleghi condannati per l’omicidio colposo.

Anzitutto MP, ispettore della Polizia di Stato in servizio a Ferrara, accusato e condannato in via definitiva per non avere inserito nel fascicolo del PM il registro delle telefonate arrivate al 113 in occasione del controllo, del pestaggio e della morte di FA.

Poi MB, addetto alla centrale operativa e accusato di avere interrotto a richiesta di un collega la registrazione in cui questi, la mattina del 25 settembre 2005, gli spiegava cosa era successo in occasione del contatto con FA.

Condannato nella fase di merito, MB ha poi ottenuto l’annullamento senza rinvio della sentenza essendo maturato nelle more il termine prescrizionale.

MP e MB non avevano partecipato ai fatti principali, non si erano macchiati le mani del sangue di FA ma, secondo quando ritenuto nel giudizio di merito, non fecero quel che potevano e dovevano fare per evitare quell’artificio di cui ho detto.

Si schierarono ma non dalla parte di FA.

Lo stesso, più di recente, è avvenuto in una sede ben diversa[7].

L’occasione è il congresso del SAP (Sindacato autonomo di Polizia) del 2014.

I quattro poliziotti vengono invitati (una di essi non compare tuttavia) e la loro presenza provoca un’ovazione da parte degli astanti che si alzano in piedi e tributano cinque minuti di applausi ai loro colleghi.

Lo stesso era successo al congresso del 2013.

Merita poi una speciale segnalazione la campagna “#Vialamenzogna” che il segretario nazionale del SAP lancia proprio a Ferrara sul presupposto che vi era stato “accanimento contro gli operatori delle forze di polizia” e che aveva operato “una pelosa macchina del fango che mistifica la realtà dei fatti trasformando, spesso, i violenti in eroi e i poliziotti in delinquenti”.

Dal canto suo, il Capo della Polizia di Stato, in sede disciplinare, ha ritenuto sufficiente irrogare alle quattro vittime di questa “macchina del fango” la sanzione della sospensione dal servizio per sei mesi cui è seguita la riammissione in servizio con l’unico accorgimento di assegnarli a funzioni che non comportano alcun rapporto col pubblico.

Chiudo questo paragrafo con un’ultima osservazione.

Nella titolazione mediatica standard di alcuni gesti violenti purtroppo ricorrenti non si lesinano parole come branco o banda o sistema criminale.

Così avviene per gli stupri collettivi o per le gesta di gruppi di ladri o rapinatori (più facilmente se si tratta di immigrati) o per le attività riconducibili ad organizzazioni mafiose o per contesti ambientali in cui sono diffuse pratiche corruttive.

In questo caso no.

Nessun accostamento tra il comportamento dei poliziotti e quello di un branco di feroci predatori.

Pochi intravedono un sistema di solidarietà castale negli applausi sgangherati del sindacato e nell’indulgenza dell’organo disciplinare.

Pochi si chiedono perché non abbia funzionato non solo l’operato della squadra volante ma anche il controllo che altre unità avrebbero dovuto esercitare su quell’operato.

Mi vedo costretto a concludere che in questo caso l’inesistente colpa privata è stata seguita dalla sanzione massima, la perdita della vita, mentre la reale colpa pubblica non ha intaccato il futuro e lo status di coloro che se ne sono macchiati.

 

5. La colpa e la ragion di Stato

Immagine rimossa.

Ho selezionato per questo paragrafo una vicenda di particolare complessità.

È anch’essa oggetto di attenzione giudiziaria ma nessuna decisione è ancora intervenuta, se non su aspetti collaterali.

Vi svolgono un ruolo numerosi attori pubblici e si manifestano interessi ben più estesi di quelli tipici delle ordinarie relazioni interindividuali.

Si stagliano sullo sfondo connessioni di rilievo pubblico di difficile inquadramento che potrebbero risultare improprie se trovassero conferma alcune delle chiavi di lettura proposte a livello giornalistico.

 

-I fatti iniziali

Uno dei più importanti protagonisti di questa storia è MA, cittadino kazako, imprenditore e leader di un’importante formazione politica nazionale.

L’iniziale feeling con il presidente kazako si tramuta rapidamente in aperto dissidio e nel 2002 MA viene arrestato e condannato per abusi asseritamente commessi nell’esercizio delle funzioni di ministro.

Vari osservatori e istituzioni internazionali (tra queste il Parlamento europeo) commentano tale vicenda giudiziaria e la considerano conseguenza di dissidi politici più che comportamenti criminali.

Nel 2003 MA viene scarcerato e si trasferisce inizialmente a Mosca.

Anni più tardi, nel 2009, si stabilisce nel Regno Unito.

Sul finire del 2012 Russia, Ucraina e Kazakistan emettono nei suoi confronti un mandato di cattura internazionale e MA abbandona precipitosamente il territorio britannico.

La seconda protagonista è AS, moglie di MA e madre dei suoi figli, di cui una in tenerissima età.

È il maggio 2013 e AS risiede da qualche tempo a Casal Palocco, in una villa di proprietà di suoi congiunti.

 

-La versione del ministro dell’interno

Negli ultimi giorni del mese si verificano gli eventi centrali della storia.

Mi servo per una loro prima descrizione (prima perché altre, piuttosto diverse, seguiranno nel tempo) della relazione redatta a luglio del 2013 da AP, Capo della Polizia di Stato.

Il documento, reperibile agli atti del Senato della Repubblica, è stato compilato su richiesta di AA, ministro dell’Interno, il quale se ne serve il 16 luglio 2013 allorchè si presenta in Senato per riferire su quegli eventi.

È utile ricordare che l’audizione del ministro avviene in un clima rovente e non certo per il periodo estivo.

La stampa ha già divulgato in toni non esattamente elogiativi la notizia dell’espulsione di AS e della figlioletta e da più parti è stato osservato che la procedura seguita pare avere violato essenziali diritti umani delle due interessate.

La ricostruzione offerta dal ministro risponde dunque non solo a esigenze informative ma anche alla sua personale necessità di difendersi da accuse politiche che gli addebitano gravi negligenze nella conduzione dell’affaire e la sua incapacità di sottrarsi alle pesanti ingerenze del regime kazako che esige a tutti i costi la consegna di MA.

Più forze politiche chiedono con forza le sue dimissioni.

In questo quadro si inserisce la difesa di AA che sintetizzo di seguito.

L’intervento delle autorità italiane non è spontaneo ma avviene su input dell’ambasciatore kazako il quale chiede esplicitamente la cattura e la consegna al suo Paese di MA, sul presupposto che costui abbia lo status di latitante e si nasconda nella villa di Casal Palocco.

L’input inizia a manifestarsi la mattina del 28 maggio 2013 allorchè l’ambasciatore tenta inutilmente di mettersi in contatto con il ministro dell’interno.

Il diplomatico non si fa scoraggiare dall’insuccesso e si presenta alla squadra mobile della Questura di Roma, fornendo agli addetti le indicazioni necessarie per la cattura di MA che dipinge come un soggetto di estrema pericolosità.

La sera del 28 maggio l’ambasciatore torna alla carica col ministero dell’interno, colloquia col capo di gabinetto e il capo della segreteria del dipartimento di pubblica sicurezza e dà loro le stesse informazioni fornite alla squadra mobile.

Il capo della segreteria contatta a sua volta il capo della squadra mobile e ne apprende che sono già state avviate le attività necessarie.

MA, nella comune considerazione di tutti gli attori pubblici italiani coinvolti nella gestione della vicenda, è un semplice latitante e nessuno di essi sospetta minimamente che possa invece trattarsi di un oppositore politico del regime kazako e che la sua condizione di ricercato possa in qualche modo derivare da ritorsioni del regime piuttosto che da effettive attività criminali.

Questa assenza di consapevolezza non è scalfita dall’intenso attivismo delle autorità kazake.

Si mette quindi in moto la fase di competenza della polizia giudiziaria.

Un consistente numero di funzionari e agenti della Polizia di Stato si reca presso la villa di Casal Palocco e la perquisisce due volte.

Le perquisizioni hanno esito positivo e portano al sequestro di denaro contante, materiale elettronico non meglio precisato e un passaporto ritenuto falso.

MA non viene trovato ma sono presenti sua moglie AS e sua figlia AA.

L’operazione di polizia, pur mancando l’obiettivo iniziale, porta all’avvio di una procedura amministrativa che si conclude con l’allontanamento coatto delle due dal territorio italiano.

Né durante l’operazione di perquisizione e sequestro né successivamente AS o i suoi difensori hanno mai presentato o preannunciato domanda di asilo, pur avendone ogni possibilità.

Mai, in nessun momento, AS ha esibito o comunque dichiarato di avere un permesso di soggiorno rilasciato da Paesi dell’area Schengen.

Si spiega così l’esito della procedura amministrativa che, senza intoppi di sorta e con la convalida del giudice competente, porta al provvedimento espulsivo.

È vero che le autorità kazake hanno partecipato in modo solerte alla procedura stessa (fornendo tutte le indicazioni necessarie e rilasciando i documenti necessari per l’espatrio) ma il loro coinvolgimento è corretto.

È vero anche che i kazaki hanno messo a disposizione un volo privato per il rientro in patria di AS e di sua figlia.

Il dirigente dell’ufficio immigrazione della Questura di Roma non ha informato nessun suo superiore di questa specifica circostanza perché non gli era stato rappresentato che si trattava non di un volo di linea ma di un volo appositamente predisposto per il rimpatrio delle due.

Il medesimo dirigente, a convalida avvenuta, chiese alla squadra mobile e alla DIGOS di sovrintendere al trasferimento di AS e della figlia all’aeroporto di Ciampino.

Va da sé che neanche in quest’ultima fase la donna, pur essendo accompagnata da personale che parlava sia la lingua inglese che quella russa, chiese asilo in Italia.

L’avvenuta espulsione non fu comunicata al ministro dell’interno perché si trattava di “un’espulsione ordinaria” e non si disponeva di alcuna notizia che mettesse in dubbio quell’ordinarietà.

Fin qui il ministro AA e la versione ufficiale della Polizia di Stato.

 

-La versione del ministro degli esteri

Gli evidenti riflessi internazionali della vicenda e i suoi effetti sulle relazioni diplomatiche del nostro Paese chiamano tuttavia in ballo anche le competenze di EB, ministro degli esteri, che si presenta per le opportune comunicazioni presso le Commissioni esteri e diritti umani del Senato nella seduta del 24 luglio 2013, dunque a distanza di una settimana dalla precedente audizione del ministro dell’interno.

La lettura del resoconto dell’intervento del ministro degli esteri evidenzia una prima e generale preoccupazione, quella di chi non tollera che l’azione sua personale e del suo dicastero corrano anche solo il rischio di essere confuse con le attività imputabili al titolare del Viminale.

Il ministro attesta di avere appreso del trattamento riservato ad AS e alla figlia solo il 31 maggio ad operazione avvenuta e non per canali istituzionali ma telefonicamente da parte di esponenti della società civile.

A partire da allora – assicura il ministro – la sua azione è stata incessante e si è mossa lungo tre direttrici essenziali: tutelare nel miglior modo possibile i diritti di AS e della figlioletta; sensibilizzare il Governo e promuovere la raccolta di tutte le informazioni necessarie; attivare tutti i canali e i contatti esterni per gestire la delicata fase conseguente al rimpatrio delle due interessate in Kazakistan.

Il ministro tiene peraltro a precisare di non possedere alcuna competenza istituzionale nella gestione della procedura di espulsione e delle attività di polizia.

Ometto i dettagli sulle specifiche attività descritte.

Evidenzio invece alcuni passaggi che mi sembrano particolarmente espressivi dell’opinione di EB riguardo all’operato del dicastero dell’interno.

Definisce “inaccettabile”, tanto per cominciare, l’atteggiamento tenuto dall’ambasciatore kazako in Italia e comunica di avere convocato l’incaricato di affari per esprimergli personalmente il disappunto del governo per le sue indebite “intrusioni” nella conduzione di affari interni italiani.

Qualifica come “scarne” le ricostruzioni precedenti del Viminale.

Auspica “una maggiore condivisione delle informazioni” e la giudica “essenziale” per fronteggiare situazioni come quella che ha portato all’espulsione di AS.

Rivela di avere comunicato quest’esigenza al presidente del consiglio che l’ha condivisa.

E questo è il contributo del ministro degli esteri.

 

-I fatti successivi

Pochi giorni dopo MA viene arrestato in Francia, in esecuzione del medesimo mandato di cattura che aveva portato all’operazione di Casal Palocco.

Tutti gli Stati emittenti chiedono l’estradizione dell’arrestato.

A gennaio del 2014 il tribunale di Aix en Provence accoglie la richiesta della Russia e dell’Ucraina, attribuendo priorità esecutiva alla prima.

MA ricorre alla Corte di Cassazione francese e ottiene il blocco dell’estradizione.

La richiesta viene riproposta dinanzi il Tribunale di Lione che la deliba positivamente.

Nuovo ricorso alla Cassazione ma questa, diversamente che in precedenza, lo rigetta e riconosce la legittimità della richiesta.

La questione passa quindi alla competenza del governo francese.

Il primo ministro in carica firma il decreto di estradizione di MA verso la Russia.

MA si rivolge a questo punto al Consiglio di Stato francese il quale, sul finire del 2016, accoglie la sua impugnativa ritenendo che la richiesta di estradizione sia stata ispirata esclusivamente da ragioni politiche.

Il kazako torna così libero dopo oltre tre anni di detenzione (ai quali si aggiunge il periodo di carcere patito nel suo paese nel 2002) e può finalmente ricongiungersi con i suoi familiari.

Dal canto loro AS e la figlia, dopo un’intensa attività diplomatica italiana, erano già rientrate in Italia il 27 dicembre 2013 e avevano ottenuto lo status di rifugiate pochi mesi dopo, precisamente il 18 aprile 2014.

 

-Gli altri fatti

Penso sia adesso il momento di raccontare il resto della storia, cioè il complesso di eventi che introducono dubbi sulla perfetta attendibilità della versione ufficiale.

Il 15 marzo 2012 il Parlamento europeo approva una risoluzione sul Kazakistan che stigmatizza duramente la condotta oppressiva del regime verso gli antagonisti politici e i movimenti di protesta popolari[8].

Il 25 giugno 2013 il collegio del Riesame del Tribunale di Roma annulla il decreto di convalida del sequestro di materiale elettronico e di denaro contante fatto dalla Polizia di Stato in esito alla perquisizione della villa di Casal Palocco[9].

Il 5 luglio 2013 MA rivolge un pubblico appello al premier italiano[10], chiedendogli di fare luce sulla “deportazione” della moglie e della figlia in Kazakistan “dove ora sono in ostaggio” del regime.

Racconta che le due erano venute in Italia provenienti dalla Lettonia per sfuggire alle minacce del presidente kazako che da tempo progettava la sua eliminazione e faceva sorvegliare l’intera famiglia.

Dichiara che la perquisizione a Casal Palocco fu fatta da numerosi agenti italiani armati e senza divisa, non accompagnati da alcun interprete.

All’alba portarono via sua moglie e sua figlia senza consentirgli di capire cosa stesse avvenendo, neanche se fossero banditi o agenti.

Sua moglie non aveva passaporti falsi. Aveva invece un permesso di residenza valido per il Regno Unito e la Lettonia.

La donna chiese asilo politico in Italia mentre veniva obbligata a salire sul jet privato che l’avrebbe rimpatriata.

Ritiene che la deportazione sia avvenuta per volontà del regime kazako e con la collaborazione del ministero dell’interno italiano e che si sia svolta con rapidità straordinaria per evitare il rischio che magistrati e mass media scoprissero il blitz.

Il 9 luglio 2013 il Financial Times pubblica un memoriale di AS[11].

Comincia così: “Pensavo volessero uccidermi e quando ho chiesto chi fossero mi hanno risposto “Io sono la mafia”.

La donna racconta che l’irruzione iniziò di notte ad opera di una cinquantina di uomini, armati e in borghese. Nessuno di loro mostra documenti o mandati.

Pensa addirittura che si trattasse di un commando di killer.

A un certo punto, dopo essere stata costretta a sedersi su una sedia, tenta di alzarsi per andare a controllare i bambini ma uno degli uomini la prende per le spalle e la costringe a rimanere seduta.

Nell’incertezza su chi fossero quelle persone, nega di conoscere MA e mostra loro non il suo passaporto kazako ma un altro, rilasciato dalla Repubblica Centroafricana.

Circa quattro ore dopo AS e il cognato sono accompagnati in Questura e le viene contestata la falsità del passaporto che aveva esibito.

Chiede di poter contattare l’ambasciata centroafricana ma le viene negato.

Sia AS che il cognato, intimiditi dal clima violento, accettano di firmare dei documenti senza conoscere il loro contenuto.

Passano altre ore e AS si risolve a svelare la sua identità.

Racconta la sua storia, descrive la situazione kazaka, dice che lei e il marito hanno ottenuto lo status di rifugiati politici in Gran Bretagna in quanto oppositori del regime kazako.

La sera del 29 maggio viene trasferita al CIE (Centro di identificazione ed espulsione) di Ponte Galeria e lì le viene notificato un decreto di espulsione.

AS chiede più volte e inutilmente di potersi consultare con un avvocato.

Di lì a poco viene trasferita all’aeroporto di Ciampino e imbarcata su un aereo lussuoso assieme alla figlioletta.

Dopo sei ore di viaggio l’aereo atterra ad Astana, capitale del Kazakistan.

Una volta sbarcata, un funzionario locale la informa dell’avvio di un procedimento a suo carico, essendo state raccolte le prove del suo concorso in un’attività di falsificazione di passaporti nazionali in cambio di tangenti.

Le viene comunque imposto l’obbligo di dimora.

Nell’articolo di Da Rold e Rinaldi, la storia di AS e del marito viene posta in connessione con la natura dittatoriale del regime kazako e la sua intolleranza verso ogni forma di dissidenza.

I due giornalisti accreditano la possibilità che MA finanzi dall’estero le rivolte sindacali nel suo Paese, rendendosi così massimamente inviso al presidente kazako.

In effetti, nel suo memoriale AS dichiara, una volta presa la decisione di svelare la sua identità agli uomini che fecero irruzione a Cala Palocco, di avergli raccontato la storia del massacro di Zhanaozen[12], località petrolifera kazaka in cui operai per lo più appartenenti alla compagnia OZENMUNAIGAS scioperarono per rivendicare migliori condizioni di lavoro e salari più alti, riuscendo ad ottenere soltanto una feroce repressione che provocò decine di morti e feriti.

Tra le compagnie operanti nella regione di Zhanaozen – è utile segnalarlo fin d’ora – è compresa l’ENI (anche attraverso la sua controllata SAIPEM) alla quale fin dai primi anni Novanta il regime attualmente al potere ha attribuito una posizione privilegiata, culminata nell’acquisizione dell’operatorship (il ruolo operativo guida) nello sfruttamento del gigantesco giacimento kazako di Kashagan, nelle acque del Mar Caspio[13].

Il 12 luglio 2013 EL, presidente del consiglio dei ministri, emette un comunicato che ammette il funzionamento critico della catena informativa del Ministero dell’Interno e ne fa derivare gli erronei provvedimenti assunti per AS[14].

Il 16 luglio 2013 si dimette il prefetto GP, capo di gabinetto del ministero dell’interno.

Il 17 luglio 2013 GP viene intervistato telefonicamente[15].

Dichiara che il suo gesto è quello tipico di un civil servant, interessato più al bene dell’amministrazione che al suo personale.

Non ha nulla da rimproverarsi e la sua coscienza è serena.

Racconta di avere ricevuto, su esplicito mandato del ministro dell’interno, l’ambasciatore kazako nel tardo pomeriggio del 28 maggio 2013, apprendendone che un suo connazionale pericoloso e latitante si nascondeva in una villa di Casal Palocco e ricevendone la richiesta di provvedere tempestivamente al suo arresto.

Informa immediatamente il titolare del dipartimento di pubblica sicurezza e il giorno dopo aggiorna verbalmente il ministro sul contenuto del colloquio col diplomatico kazako e sulle richieste che questi aveva presentato al governo italiano.

Chiarisce che non possedeva alcun’altra informazione sulla figura del ricercato kazako e aggiunge di non essere neanche stato informato, se non dai giornali a cose fatte, che fossero state fermate la moglie e la figlia.

Il 18 luglio 2013 l’Alto Commissariato dei diritti umani dell’ONU (UNHR) emette un comunicato ufficiale, stilato da tre suoi esperti, in cui esprime un giudizio di irregolarità sulla procedura di espulsione seguita per AS e la figlia e invita Italia e Kazakistan ad assicurare un rapido ritorno delle interessate nel nostro Paese[16].

Il 25 novembre 2013 il programma televisivo Report si occupa della vicenda dei coniugi MA e AS, dando spazio, all’interno di un servizio intitolato “L’ostaggio” e curato dal giornalista Paolo Mondani, alle rivelazioni di un anonimo dirigente ENI[17].

La tesi sostenuta è che il presidente kazako avrebbe chiesto pressantemente alla compagnia italiana di agevolare il rientro di marito e moglie nel loro Paese.

L’Eni avrebbe accolto la richiesta, scoperto che i due vivono a Casal Palocco e passato l’informazione all’intelligence italiana.

Secondo questa versione, i servizi non avrebbero inteso che l’arresto del dissidente avvenisse sul territorio italiano e lo avrebbero quindi avvertito del rischio di un blitz, consentendogli così di fuggire.

Le autorità kazake sarebbero venute a conoscenza di questa manovra sotterranea.

L’ambasciatore kazako in Italia, avrebbe quindi convocato PS, amministratore delegato di ENI, e gli avrebbe ingiunto di risolvere la questione.

PS si sarebbe a quel punto rivolto a VV, cioè l’uomo delegato agli affari esteri dall’ex premier italiano SB.

Da quest’intervento sarebbe derivata la sequenza che portò all’espulsione di AS e della figlia.

Il 16 dicembre 2013 PS smentisce qualsiasi coinvolgimento di ENI nella vicenda, dichiarando nel corso di una conferenza stampa[18] che “Di questa vicenda sappiamo zero. È stata proprio ENI a valle della trasmissione Report a depositare un esposto in procura di Roma perchè accettasse i fatti e le asserzioni rese nella trasmissione. ENI si ritiene estranea alla vicenda”.

Il PM titolare del procedimento acquisisce il servizio di Report e mette in moto vari accertamenti.

Dall’articolo di Alberto Magnani citato in nota si ricava anche che la Procura di Roma procede nei confronti di tre diplomatici kazaki, tra i quali l’ambasciatore in Italia, per un’ipotesi di sequestro di persona.

Il 13 gennaio 2014 AS torna in Italia. Nell’occasione Marco Lillo, cronista de Il Fatto Quotidiano, intervista GP[19], ormai ex capo di gabinetto del ministero dell’interno, il quale ne approfitta per ribadire la versione resa all’indomani delle dimissioni, dando tuttavia qualche ulteriore chiarimento.

Conferma che il ministro AA gli chiese di ricevere l’ambasciatore kazako dicendogli testualmente: “io non so come fare, c’è l’ambasciatore kazako che mi vuole vedere per una vicenda che può interessare, per la sua pericolosità, la pubblica sicurezza”.

Aggiunge che il capo della segreteria del dipartimento di pubblica sicurezza, prefetto AV, gli inviò un messaggio con cui lo informò che l’intervento di polizia era stato fatto con esito negativo. Nulla AV gli disse del coinvolgimento delle due donne.

Il 30 luglio 2014 la sesta sezione civile della Corte di Cassazione emette l’ordinanza n. 17407/2014 con la quale, su richiesta del difensore di AS, annulla senza rinvio il decreto, depositato il 31 maggio 2013, con cui il giudice di pace di Roma aveva convalidato il trattenimento di AS presso il CIE romano di Ponte Galeria.

Dall’esposizione del fatto si ricavano varie circostanze interessanti.

Già nell’udienza di convalida erano stati addotti motivi umanitari che avrebbero impedito l’espulsione.

Il 13 luglio 2013 il Prefetto di Roma, a seguito dell’opposizione alla convalida, aveva revocato l’espulsione, riconoscendo che, contrariamente a quanto opinato dal giudice di pace, AS disponeva di due validi permessi di soggiorno rilasciati dal Regno Unito e dalla Lettonia.

Forte di tale revoca, AS si era rivolta al giudice di pace chiedendo la declaratoria di invalidità ex tunc dell’espulsione ma il giudice si era limitato a dichiarare la cessazione della materia del contendere.

Il difensore di AS proponeva quindi ricorso per cassazione al quale si opponeva con un controricorso l’Avvocatura dello Stato in rappresentanza del ministero dell’interno, della prefettura di Roma e del questore di Roma.

La Cassazione ha accolto pressochè integralmente le argomentazioni del ricorrente[20].

Nel marzo 2015 MI, all’epoca dei fatti dirigente dell’ufficio immigrazione della Questura di Roma, viene promosso e nominato questore di Rimini.

Il 27 novembre 2015 vari organi di stampa danno notizie dettagliate sui risultati delle indagini giudiziarie condotte dalla Procura di Perugia[21] alla quale la Procura di Roma ha trasmesso gli atti per competenza, spettando all’ufficio giudiziario umbro i procedimenti in cui siano coinvolti magistrati del distretto romano, presupposto che, come si vedrà, ricorre effettivamente nella vicenda.

Si apprende anzitutto che la Procura di Roma, quando ancora disponeva dell’indagine, ha chiesto l’archiviazione per i tre diplomatici kazaki inizialmente accusati di sequestro di persona, richiesta cui AS si è opposta.

Nell’opinione dei PM capitolini non erano emerse prove di pressioni e interferenze dei kazaki sui funzionari italiani mentre invece esistevano le condizioni per l’iscrizione nel registro degli indagati di alcuni di tali funzionari.

Nell’inchiesta perugina, per contro, i tre diplomatici risultano indagati unitamente a dirigenti, funzionari e agenti tutti in servizio alla Questura di Roma all’epoca dei fatti e precisamente RC (capo della squadra mobile), MI (capo dell’ufficio immigrazione), LA (funzionario responsabile della sezione criminalità organizzata), FS (funzionario della squadra mobile) e ancora VT, LS e SL (agenti addetti all’ufficio immigrazione).

Assieme a loro è indagata SL, il giudice di pace che convalidò l’espulsione di AS e della figlia.

Le ipotesi di reato contestate a Perugia sono sequestro di persona, falso e omissione di atti di ufficio[22].

Il 4 dicembre 2015 il sottosegretario di Stato GB si presenta alla Camera dei Deputati per rispondere a un’interpellanza urgente del deputato MDS.

Asserisce che nella gestione della vicenda di AS il governo ha sempre tenuto una linea trasparente e ribadisce la correttezza della relazione presentata due anni e mezzo prima da AP, capo della Polizia di Stato.

Nel maggio del 2016 LA, all’epoca dei fatti responsabile della sezione criminalità organizzata della squadra mobile di Roma, viene nominato capo della squadra mobile di Bologna.

Il 25 novembre 2016 la Procura di Perugia emette un corposo avviso di conclusione delle indagini nei confronti di tutti gli indagati.

In un articolo di pochi giorni dopo[23] si afferma quanto segue: “Si scopre ora, infatti, che, il 28 maggio 2013, il ministro dell’Interno non si limitò a segnalare l’urgenza della cattura di MA al suo capo di gabinetto di allora, GP, consegnando di fatto alla piena disponibilità dei diplomatici kazaki la nostra Polizia. Fece di più. Chiese di essere informato ad horas degli esiti di quella caccia, a dimostrazione di quanto la faccenda fosse in cima alla sua agenda. Il che, evidentemente, spiegherebbe il movente della catena di abusi e illegittimità di cui si sarebbero resi responsabili i 7 tra dirigenti e funzionari di Polizia.

Sono due verbali di testimonianza ai pm di Perugia, quello dell’allora capo di gabinetto GP (il 13 maggio 2015) e dell’allora capo segreteria del Dipartimento di Pubblica sicurezza AV (il 3 febbraio di quest’anno) a documentare di quale frenesia, su input di AA, vennero caricati i nostri apparati. GP conferma ai magistrati quanto svelato in un’intervista a Repubblica nel gennaio 2014. «Non fu una decisione che presi di mia iniziativa — dice, riferendosi al blitz nella villa di Casal Palocco dove si voleva si nascondesse MA e dove, al contrario, venne trovata e fermata soltanto la moglie AS — La sera del 28 maggio 2013, AA mi informò che l’ambasciatore kazako lo aveva cercato perché aveva urgenza di comunicare con il ministero. Aggiunse che era una questione di grave minaccia alla pubblica sicurezza». Circostanza confermata da AV che, sempre quella sera, convocato a sua volta nell’ufficio di GP, inciampa in un singolare siparietto. «Trovai due signori che mi furono presentati come l’ambasciatore del Kazakistan e un suo funzionario, che dovevano riferire notizie di sicurezza nazionale. Dissi all’ambasciatore che il loro referente avrebbe dovuto essere il ministero degli Esteri e non l’Interno. E mi sembra di ricordare che GP mi disse di aver ricevuto l’ambasciatore su input del Viminale». C’è di più. All’alba del 29 maggio, dopo che Valeri, nella notte, ha messo in movimento «il prefetto AM, Capo della Polizia facente funzioni, C., direttore centrale della Criminalpol, e C., direttore centrale dell’Anticrimine», e dopo che il blitz nella villa di Casal Palocco non ha dato gli esiti sperati dai kazaki, Valeri si rimette al telefono. «Comunicai a AM e a GP l’esito negativo della ricerca del latitante. E ricordo che GP mi chiese di trasmettergli un sms con la notizia, in modo che lui potesse informarne il ministro dell’Interno. Io lo mandai».

AA, dunque, voleva sapere. Ma fino a un certo punto. Sia GP che AV escludono infatti di averlo informato e anche solo di aver saputo che, al posto di MA, fosse stata fermata la moglie. Circostanza curiosa. Non fosse altro per un dettaglio. La sera del 28 maggio, al Viminale, nell’ufficio di GP, i diplomatici kazaki avrebbero mostrato documenti su MA e un appunto Interpol sulla moglie, con un’annotazione, " to deport her", da espellere. I pm di Perugia ne chiedono conto all’ex capo di gabinetto. Che risponde: «Visionai solo sommariamente le carte che mi sottopose l’ambasciatore e non lessi quell’atto Interpol, non sono in grado di dire se contenesse le generalità della AS e la richiesta alle nostre autorità di consegnarla».

Il 17 febbraio 2017 RC, capo della squadra mobile romana all’epoca dei fatti, viene nominato Questore di Palermo.

Il 28 febbraio 2017 la Procura di Perugia chiede il rinvio a giudizio per tutti gli indagati. L’udienza preliminare è prevista in data successiva all’estate di quest’anno.

Il 23 marzo 2017 viene approvato in Parlamento un emendamento che di fatto blocca la proposta di istituire una commissione di inchiesta sull’espulsione e il rimpatrio di AS e della figlia.

 

-Qualche riflessione sulla vicenda di MA e AS

Mi sono sforzato di esporre i fatti, o quelli che allo stato mi sembrano tali, con la massima oggettività e completezza.

Non ho aggiunto – almeno non credo – nulla di mio se non lo stile espositivo.

Penso quindi di avere rispettato il mio primo impegno, quello di evitare confusioni tra fatti e opinioni.

Adesso però intendo trarre da questa complessa storia le conclusioni che mi sembrano plausibili.

Non ho bisogno di sottolineare che, così facendo, abbandono il terreno dell’oggettività e mi inoltro in quello dell’opinabilità.

Tento comunque anche per questa parte di attestarmi sulle prospettive meno arbitrarie e le individuo così:

  • erano disponibili, ben prima dell’espulsione di AS e della figlia, segnali precisi e inequivocabili sull’esistenza in Kazakistan di un regime scarsamente rispettoso dei diritti umani e propenso a reprimere con forza le manifestazioni di dissenso politico;
  • questi segnali provenivano non solo da osservatori privati ma da plurime organizzazioni internazionali di cui l’Italia è componente sicchè si deve per ciò stesso prendere atto che la particolare natura del regime kazako dovesse essere nota da tempo alle istituzioni italiane;
  • la procedura di espulsione di AS e di sua figlia è stata condotta in violazione di legge; non esistevano i presupposti di fatto e diritto che potessero renderla conforme al vigente assetto normativo;
  • la violazione è stata in primo luogo propiziata da manifeste e ripetute irregolarità dell’operazione di polizia in senso stretto;
  • quelle irregolarità non sono state rilevate, benché non mancassero segnali importanti in tal senso, dal giudice di pace cui è stata affidata la convalida del decreto espulsivo;
  • ad espulsione avvenuta il governo italiano ha mostrato consapevolezza delle violazioni e si è attivato per ovviarvi, soprattutto attraverso l’azione del dicastero degli esteri;
  • tuttavia, a questa consapevolezza non sempre è seguito un atteggiamento coerente se si considera che a seguito del ricorso per cassazione della AS contro il provvedimento di convalida dell’espulsione, tutte le istituzioni pubbliche coinvolte hanno dato mandato all’Avvocatura di Stato di resistere con argomentazioni decisamente contrastanti con le precedenti ammissioni dell’errore compiuto;
  • nessuno dei protagonisti della vicenda ha ricevuto alcun rilievo formale; l’unico ad abbandonare la sua postazione è stato GP, capo di gabinetto del ministro degli interni, ma solo in conseguenza delle sue volontarie dimissioni;
  • questo stato di cose non è mai mutato, neanche quando vi è stata pubblica consapevolezza dell’esistenza di indagini giudiziarie che ipotizzavano pesantissime responsabilità di vari attori pubblici e nemmeno quando costoro, a seguito della richiesta di rinvio a giudizio, si sono trasformati da accusati in imputati;
  • non solo non vi sono stati provvedimenti negativi ma addirittura vari imputati hanno ottenuto prestigiosi avanzamenti in carriera; RC, capo della squadra mobile di Roma, è stato dapprima nominato dirigente centrale dello SCO (Servizio criminalità organizzata) e poi questore di Palermo; MI, dirigente dell’ufficio immigrazione, è stato nominato Questore di Rimini; LA, funzionario responsabile della sezione criminalità organizzata, è stato trasferito a Bologna per assumere l’incarico di dirigente della locale squadra mobile;
  • il principale sindacato della Polizia di Stato, pur manifestando piena fiducia nell’operato della magistratura, ha comunque espresso forte preoccupazione per il rischio di delegittimazione che incombe su chi opera per la repressione del terrorismo (ma, francamente, non vedo a che titolo la storia di AS possa essere iscritta in un contesto terroristico;
  • lo stesso è avvenuto sul versante politico; AA, ministro dell’interno pro tempore, non si è dimesso, non è stato chiamato a rispondere di alcuna responsabilità politica, è rimasto al suo posto e più tardi, nella subentrante compagine governativa, è transitato al dicastero degli esteri;
  • in più occasioni istituzionali le autorità governative, chiamate a dar conto del loro operato sulla base delle progressive acquisizioni investigative, delle divulgazioni mediatiche e dei giudizi espressi da vari osservatori internazionali, non hanno mai abbandonato la linea scelta inizialmente, cioè quella di attestarsi sulla ricostruzione fatta dal capo della Polizia di Stato nella sua relazione del luglio 2013.

Credo di potermi fermare qui.

Un fatto è certo, qualunque sia il giudizio che ci si voglia formare sulla vicenda.

AS e sua figlia non avevano alcuna colpa ed erano quindi innocenti.

Avevano diritto di rimanere sul suolo italiano e di essere protette dalle nostre autorità.

Questa loro innocenza non è stata però riconosciuta e il trattamento di cui sono state vittime è stato quello tipicamente riservato ai criminali o agli indesiderati.

Una donna e la sua figlioletta sono state travolte da un’ondata ingiustificata che le ha allontanate dal nostro territorio e spinte verso un luogo in cui la loro incolumità era a fortissimo rischio.

Non mi serve altro per affermare che la loro vicenda racconta una storia di colpa creata artificialmente.

Si agita peraltro sullo sfondo – sarebbe irragionevole e ipocrita negarlo – una sorta di ragion di Stato, collegata all’esigenza italiana di non compromettere le relazioni diplomatiche da cui dipende la possibilità nazionale di accedere alle fonti di energia e di consolidare l’importanza della principale compagnia energetica nazionale.

Diranno comunque i giudici se questa sia davvero una brutta storia e, in caso affermativo, chi vi abbia partecipato e perché lo abbia fatto.

 

6. Considerazioni finali

Non saprei rispondere a chi mi chiedesse che operazione ho inteso compiere con questo scritto.

Mi viene più facile dire cosa non ho fatto.

Non certo uno scritto giuridico propriamente inteso.

Non cito dottrina e giurisprudenza, non mi riferisco a nessuna particolare corrente di pensiero che mi dia legittimazione.

Non ho tracciato una teoria generale.

Non ne ho la capacità e per di più sono propenso a partire dal basso, cioè dai fatti della vita, piuttosto che da idee e concetti di portata universale.

Non ho redatto un articolo di stampa.

Ho esposto singoli fatti e intere vicende ma non ho resistito alla tentazione di inserirli in un contesto più ampio che gli desse un significato unitario e aggiungere mie elaborazioni personali. Senza contare che nessun giornale pubblicherebbe così tante parole tutte insieme.

Quindi, davvero non so cosa ho fatto.

So solo che mi pareva necessario riflettere sui meccanismi della costruzione sociale della colpa e sulle complesse relazioni tra individui e istituzioni che ne sono alla base.

Sono giunto a pensare che in più occasioni, sicuramente tutte quelle che ho descritto, si manifesti una sorta di necessità di quella costruzione che, senza per forza negare la tensione verso la verità, la sopravanza di gran lunga e la relega sullo sfondo.

Penso anche che questa necessità - non saprei dire se deliberatamente o in risposta ad un impulso inconscio proprio degli esseri umani - sia il frutto di un’altra e più cogente necessità, quella di disporre di un criterio selettivo etico e sociale che si avverte come irrinunciabile.

Qui mi fermo, perché ogni altra considerazione aggiuntiva non farebbe che dilatare l’opinabilità delle mie idee - e questo sono in grado di sopportarlo – ma soprattutto potrebbe indurre a ritenere inattendibili e strumentali le mie ricostruzioni fattuali – e questo invece mi dispiacerebbe.

 

I Parte

 

[6] Parto dalle conclusioni: “Possiamo in conclusione affermare la responsabilità degli imputati per avere cagionato per colpa la morte del giovane FA (…).

Le approfondite verifiche tecniche hanno consentito di appurare che la morte del ragazzo fu conseguenza della violenta colluttazione con i quattro agenti, armati di manganelli, decisi a immobilizzarlo e ad arrestarlo ad ogni costo, per fargli scontare le conseguenze di una precedente fase di conflitto, con reciproci atti di violenza, nel corso della quale venne danneggiata l’autovettura di servizio dalla pattuglia alfa2 (…).

Il nesso causale tra l’azione degli agenti (percosse, colluttazione, immobilizzazione al suolo con il peso del corpo di almeno uno degli agenti, violenta compressione della cassa toracica, per annullare ogni possibilità di movimento) e la morte è dimostrato dalle consulenze offerte dalla difesa di parte civile e dall’eminente cardiopatologo prof. T. (…).

Non vi è dubbio che l’evento debba essere oggettivamente imputato ad una condotta colposa per violazione di fondamentali regole cautelari che presiedono all’uso della forza da parte degli organi di polizia. L’intervento armato della polizia, in assenza di pericolo per beni fondamentali, in assenza di gravi comportamenti criminosi, in assenza di pericolo per la sicurezza e l’ordine pubblico non può in nessun caso mettere a rischio la vita e l’incolumità del cittadino, tanto più quando si tratta di persona che manifesta con tutta evidenza di trovarsi in uno stato di parziale alterazione di mente, richiedente l’immediato intervento dei sanitari e non un’immobilizzazione effettuata senza precauzioni e senza assoluta necessità, ben potendosi gli agenti limitare a controllare il soggetto, a ricercarne la collaborazione, ad attendere la riduzione dell’agitazione e, se necessario, a porre in essere una situazione nella quale l’immobilizzazione potesse avvenire in pochi secondi, senza violenza fisica e con l’assistenza di personale sanitario competente e attrezzato (…).

Sicchè in sintesi può dirsi che:

a) FA non era in stato di excited delirium syndrome, essendo ciò smentito non solo dalla ricostruzione in fatto degli eventi intercorsi tra le 5,30 e le 6,10. Dal complesso degli elementi disponibili per il giudizio si desume che la condizione di eccitazione delirante non risulta da alcuna prova oggettiva, è contraddetta dalle testimonianze dei testi che l’avrebbero dovuta supportare, è fondata sulle sole dichiarazioni degli imputati, la cui falsità è stata ampiamente dimostrata, è esclusa dall’assenza dei riscontri che l’avrebbero dovuta sostenere (‘bad trip’, qualità e quantità delle sostanze stupefacenti e alcoliche rilevate in sede di analisi clinico - tossicologica);

b) FA presentava tutti i segni di un’asfissia da restrizione a carattere meccanico e posizionale e non è dato rilevare nel contesto storico-circostanziale alcun fattore causale alternativo all’asfittico - traumatico;

c) Rispetto ad un soggetto in stato di grave alterazione psicomotoria, insorta da pochi minuti e, oltretutto, con andamento ciclico, essendosi rilevato un periodo di alcuni minuti di riduzione se non di remissione della condizione di agitazione, una colluttazione prolungata e senza le dovute cautele e una restrizione senza il sussidio medico è fattore di incremento dello stato di agitazione, di incremento della produzione di catecolamine e quindi concausa dell’eventuale decesso ascrivibile ad insufficienza cardiorespiratoria;

d) Ne segue che gli imputati dovrebbero ritenersi responsabili della morte di FA anche se, in ipotesi, la loro ricostruzione dei fatti fosse risultata accertata;

e) La condizione di asfissia colpevolmente non rilevata, malgrado le comprovate richieste di soccorso della vittima, in ragione dell’errata valutazione delle circostanze che fece ritenere agli agenti come manifestazione di resistenza attiva all’immobilizzazione e all’ammanettamento quella che era soltanto una disperata ricerca di aria in uno stato di ipoventilazione, colposamente ignorato per la foga aggressiva e incontinente con la quale i quattro agenti affrontarono, in evidente superiorità numerica, lo scontro con un individuo disarmato e non pericoloso, contribuì a provocare la rottura dei vasi sanguigni e la formazione di un ematoma che, colpendo il fascio di His, produsse una morte improvvisa ed irreversibile prima che si potesse compiere alcun tentativo di rianimazione.

f) La condotta degli imputati nelle circostanze date fu largamente dissonante dagli standard dell’agente di polizia modello, come ricostruito sulla base di fondamentali testimonianze e dei documenti provenienti dall’interno della Polizia di Stato stessa, dalle vigenti linee guida di intervento per casi analoghi, dalle regole cautelari imposte dalla stessa organizzazione della Polizia, tra le quali primeggia l’obbligo di garantire in ogni caso l’incolumità personale del cittadino, salvo la ricorrenza di uno stato di necessità o di una legittima difesa, o, genericamente, la necessità di tutela di interessi di rango manifestamente più elevato. A questo fine gli agenti devono essere capaci di avvalersi di tecniche di immobilizzazione efficaci e innocue, la mancata applicazione delle quali, così come l’uso offensivo e nei confronti di un singolo individuo dell’arma dello sfollagente, costituiscono errore tecnico e professionale grave. In questo senso l’azione degli imputati, lungi dal costituire adempimento di fondamentali doveri d’ufficio, si caratterizza come errore professionale macroscopico, censurabile in primo luogo alla stregua delle stesse regole interne della polizia di Stato; il che esclude, nel caso in esame, la sussistenza di alcun conflitto tra esigenze di sicurezza e tutela dei diritti fondamentali”.

Fin qui le ragioni che hanno indotto il giudice di primo grado ad affermare la responsabilità dei poliziotti tratti a giudizio con l’accusa di avere provocato colposamente la morte di FA.

La successiva parte della motivazione destinata a dar conto del trattamento sanzionatorio ci dice come lo stesso giudice abbia considerato in senso più complessivo la condotta degli imputati, non solo al momento dei fatti ma anche nelle fasi successive e nello stesso giudizio: “Sul trattamento sanzionatorio non possono non influire tutti gli elementi rilevati nella condotta degli imputati, già più volte negativamente valutati nel corso delle varie parti della precedente esposizione.

Alla gravità della colpa si associano gli aspetti negativi più propriamente processuali con l’assenza di concreti segni di pentimento e di consapevolezza degli errori commessi, tradottisi in palesi menzogne e in ostacoli frapposti all’accertamento della verità.

Sotto il profilo oggettivo deve considerarsi la gravità obbiettiva dell’episodio per essere la vittima un giovane diciottenne, incensurato che non aveva creato nessuna situazione di obbiettivo allarme sociale, se non, forse, avere affrontato gli agenti nel corso della prima colluttazione in modo non ortodosso e ribelle. La sproporzione tra la presumibile condotta della vittima e quella degli imputati colora in modo negativo il fatto. Ma anche se il ragazzo fosse stato effettivamente molto agitato, la mancanza di senso della funzione sociale della polizia, l’inaffidabilità degli imputati,la loro oggettiva “pericolosità” per la manifesta inadeguatezza nell’autodisciplinarsi nell’esercizio delle delicatissime funzioni e nell’autocontrollo nell’uso dello straordinario potere di esercizio autorizzato della forza, giocano nel senso di attribuire al fatto un’obbiettiva elevata gravità, inevitabilmente confermato non solo dal decesso della vittima ma anche dalle innumerevoli lesioni provocate, nel dolore e nelle sofferenze arrecate alla vittima con la condizione di asfissia nella quale venne posta e l’incapacità di rendersi conto dello stato del soggetto e dell’invocazione di aiuto e soccorso. Quest’insieme di circostanza connotano come assai grave il fatto dal punto di vista oggettivo. Aggiungasi l’impiego assolutamente fuori di luogo e sproporzionato di strumenti assai lesivi e dolorosi come gli sfollagente, ogni colpo dei quali è idoneo a produrre ematomi e ferite, usati con cinica indifferenza e colpevole imprudenza, sul presupposto del tutto erroneo che avendo la vittima manifestato energica attività di resistenza, fosse legittima una ritorsione violenta, incongrua, non necessaria per gli scopi prefissi.

Più in generale dal punto di vista soggettivo la personalità degli imputati appare negativamente connotata dalle specifiche modalità soggettive della condotta, caratterizzata da profili di violenza gratuita e dalla noncuranza per gli effetti di essa, da una violazione clamorosa di una molteplicità di norme cautelari.

A tali elementi oggettivi si associano non solo le bugie e le falsità ma anche la spregiudicata strumentalizzazione dell’ambigua posizione iniziale di unici testimoni dei fatti, accreditati pregiudizialmente di attendibilità, che permise agli imputati di fornire una versione a loro favorevole e quindi di concordare una versione difensiva postuma di comodo, approfittando della conoscenza degli atti processuali e degli esiti di un’indagine effettuata nell’immediatezza, non orientata specificamente alla ricerca di elementi di responsabilità.

Ambiguità, reticenze e menzogne che non depongono in favore degli imputati che hanno concordemente agito nel senso di coprire le proprie responsabilità anche a costo di descrivere uno stato della vittima a tinte fosche ed eccessive, dimostratesi poi false”.

[7] Marco Zavagli, Caso A., applausi per gli agenti condannati al congresso SAP, IlFattoQuotidiano.it/Emilia Romagna, edizione web del 29 aprile 2014

[8] Il testo è disponibile sul portale web del PE.

[9] La notizia è riportata e commentata da Carlo Bonini in un articolo pubblicato sull’edizione web de La Repubblica del 28 luglio 2013 dal titolo “La Polizia sapeva chi era A. Ecco l’ordinanza che smonta la versione del Viminale sul blitz”.

Nel provvedimento si dà atto di un’attestazione del ministro della giustizia della Repubblica Centroafricana che conferma l’autenticità del passaporto mostrato da AS ai poliziotti durante la perquisizione.

Viene così a mancare l’elemento di fatto che aveva sostenuto l’accusa di falso e giustificato la successiva espulsione.

L’estensore fa poi un’altra considerazione di particolare interesse: «L’ intestazione del passaporto ad AA, anziché ad AS - si legge infatti nell’ ordinanza - appare riferibile non a falsità, non risultando che l’indagata si sia presentata con falso nome alle autorità centroafricane, ma alla necessità dell’indagata di sottrarsi ai nemici politici del marito».

E ancora: «lascia perplessi la velocità con cui si è proceduto al rimpatrio in Kazakistan dell’indagata e della bambina, congiunti di un rifugiato politico, in presenza di atti dai quali emergevano quantomeno seri dubbi sulla falsità del documento».

Di più: «La Polizia ha manifestato dubbi sull’ identità della donna e, tuttavia, la figlia che si trovava con la madre viene identificata in AA, figlia di AS e del ricercato. Non come AA».

Così Bonini commenta questo passaggio: “Insomma, la nostra polizia tanto era consapevole che quella bimba di sei anni e la donna che era con lei fossero la moglie e la figlia di MA che identifica la piccola per quello che è, mantenendo al contrario un artificioso dubbio sulla madre utile solo a creare il presupposto necessario all’espulsione”.

Prosegue così: “Ebbene, quel che vide M. (l’estensore dell’ordinanza qui commentata) il 25 giugno poteva essere visto o quantomeno compreso dal giudice di pace SL la mattina del 31 maggio, quando decise di convalidare il trattenimento della AS presso il CIE? Il Presidente del Tribunale di Roma MB, tre giorni fa, nella relazione a chiusura della sua indagine interna sulle decisioni prese dal giudice di pace ha evidenziato “gravi omissioni” da parte della Polizia. E, tra queste, aver taciuto la vera identità della donna kazaka. Un’ accusa che la Polizia continua a respingere, sostenendo che durante l’udienza di convalida del fermo, l’identità kazaka della donna venne rivelata dai suoi avvocati e che nel fascicolo processuale erano comunque presenti i certificati consolari delle autorità centrafricane che attestavano l’autenticità del passaporto centroafricano. Insomma, a dire del Dipartimento, la SL avrebbe avuto tutti gli elementi di accusa e difesa per valutare. Un fatto è certo, quel 31 maggio, la fretta indiavolata della Questura di mettere su un aereo per Astana la AS certamente venne taciuta alla SL, peraltro ignara che l’espulsione sarebbe arrivata addirittura ad horas. E in qualche modo quella fretta mise sull’avviso anche la Procura che chiese, tra le 3 e le 5 del pomeriggio, un supplemento di istruttoria per concedere il nullaosta all’espulsione. Anche la Procura venne ingannata? «No», è la risposta che si raccoglie da fonti qualificate del Palazzo di giustizia. Paradossalmente, l’informazione con cui la Questura documentava la sua vera identità kazaka e la dichiarazione di falso del suo passaporto diplomatico (l’una e l’altra comunicate alle 3 del pomeriggio) convinsero il Procuratore GP e il sostituto EA che non esistevano “ostacoli processuali” alla sua espulsione. È a ben vedere il nodo cui è impiccata la coda giudiziaria di questa faccenda che vede Procura e Questura legati indissolubilmente a una decisione che hanno condiviso ed che è diventata la trincea in cui la Polizia si difende dalle accuse del Tribunale e del giudice di pace”.

[10] Ne dà notizia l’edizione web de La Stampa, sezione Mondo, dello stesso giorno nell’articolo “L’appello di A. a L: “Faccia luce su questa storia” a firma di Maurizio Molinari

[11] La notizia è ripresa e commentata lo stesso giorno da Alessandro Da Rold e Luca Rinaldi sul sito linkiesta.it nell’articolo “L’irruzione nel racconto della moglie di A

[12] Rimando, per una più accurata descrizione della vicenda, all’articolo intitolato “Strage di regime contro gli operai di Zhanaozen” pubblicato il 20 dicembre 2011 su East Journal a firma di Pietro Acquistapace che rilancia a sua volta un reportage di Astrit Dakli.

[13] Si possono consultare al riguardo “Maxicontratto per Saipem in Kazakistan”, pubblicato il 6 febbraio 2015 sul magazine di economia marittima Ship2shore e “La parabola dell’ENI (e della diplomazia italiana) vista attraverso il Kashagan”, pubblicato il 20 ottobre 2016 a firma di Gabriele Moccia su Il Foglio.

Rinvio inoltre a “Interessi economici tra Italia e Kazakistan: ecco cosa c’è dietro il caso A.” pubblicato il 6 luglio 2013 su Il Fatto Quotidiano, a firma di Orlando Cecini, in cui si analizzano le possibili connessioni tra il caso di MA e della moglie AS e i comuni interessi economici dei due Paesi.

[14] Questo il testo integrale: “Il Presidente del Consiglio dei Ministri, EL, il 5 luglio scorso ha annunciato un’indagine sulla vicenda che ha interessato l’espulsione della signora di nazionalità kazaka, AS, confermando tale impegno al question time che si e’ svolto alla Camera dei Deputati mercoledì 9 luglio.

Tale indagine ha accertato quanto segue.

Risulta inequivocabilmente che l’esistenza e l’andamento delle procedure di espulsione non erano state comunicate ai vertici del governo: nè al Presidente del Consiglio, nè al Ministro dell’interno e neanche al Ministro degli affari esteri o al Ministro della giustizia.

La regolarità formale del procedimento e la sua base legale sono state accertate e convalidate da quattro distinti provvedimenti di autorità giudiziarie di Roma (Procura della Repubblica del Tribunale dei minorenni il 30 maggio, Giudice di Pace il 31 maggio, Procura della Repubblica presso il Tribunale e Procura della Repubblica per i minorenni il 31 maggio).

A questi provvedimenti è da aggiungere l’indagine avviata dalla Procura di Roma nei confronti della signora AS, al cui ambito appartiene il provvedimento di dissequestro del giudice del riesame concernente il denaro e la memory card sequestrati alla signora.

Tuttavia, resta grave la mancata informativa al governo sull’intera vicenda, che comunque presentava sin dall’inizio elementi e caratteri non ordinari. Tale aspetto sarà oggetto di apposita indagine affidata dal Ministro dell’interno al Capo della Polizia, al fine di accertare responsabilità connesse alla mancata informativa.

E’ importante sottolineare che il governo, colti i profili di protezione internazionale che il caso ha sollevato, si è immediatamente attivato, attraverso sia il Ministero dell’interno sia il Ministero degli affari esteri, per verificare le condizioni di soggiorno in Kazakistan della signora e della figlia, nonché a garantirle il pieno esercizio del diritto di difesa in Italia avverso il provvedimento di espulsione convalidato dal giudice di pace.

All’esito della presentazione del ricorso avverso tale provvedimento, sono stati acquisiti in giudizio e conseguentemente dalla pubblica autorità italiana, documenti, sconosciuti all’atto dell’espulsione, dai quali sono emersi nuovi elementi di fatto e di diritto che, unitariamente considerati, hanno consentito di riesaminare i presupposti alla base del provvedimento di espulsione pur convalidato dall’autorità giudiziaria. In considerazione di ciò, il Ministero dell’interno, acquisite anche le valutazioni legali previste per legge, provvederà ad attivare la revoca in autotutela del provvedimento di espulsione sulla base delle circostanze e della documentazione sopravvenute, che consentono ora, e anzi impongono, una rivalutazione dei relativi presupposti.

A seguito della revoca del provvedimento di espulsione, che verrà immediatamente resa nota alle autorità kazake attraverso i canali diplomatici, la signora AS potrà rientrare in Italia, dove potrà chiarire la propria posizione.

[15] Repubblica.it, “Caso A., GP: “A sapeva. Nessuno mi disse dell’espulsione”, pubblicato sull’edizione web di pari data a firma di Carlo Bonini.

[16] La notizia è riportata da Il Fatto Quotidiano, edizione del 18 luglio 2013, Luca Pisapia, “A., per l’ONU è una extraordinary rendition”.

Il testo ufficiale del comunicato è reperibile sul sito www.unric.org dal quale si ricava che i tre esperti sono Francois Crépeau, Juan Méndez e Gabriela Knaul i quali concordano sul fatto che AS corre rischi a causa dell’attività politica del marito.

[17] Un resoconto del servizio è rintracciabile su notiziario.ossigeno, edizione del 18 dicembre 2013, nell’articolo redazionale “Querele ENI contro report dopo puntata caso S.”.

[18] Il resoconto è reperibile su Il Sole 24 ore, edizione web del 16 dicembre 2013, Alberto Magnani, “Caso S. La procura indaga dopo un esposto ENI”.

[19] Il Fatto Quotidiano, edizione del 13 gennaio 2014, Marco Lillo, “S., G.P. al Fatto: A. mi disse “Caso che interessa pubblica sicurezza”.

[20] Riporto i passaggi motivazionali più rilevanti: “L’adozione del criterio indicato dalla Corte EDU determina l’inclusione del provvedimento espulsivo emesso nei confronti della ricorrente nella categoria della manifesta illegittimità originaria del medesimo. Le stesse modalità fattuali (l’irruzione notturna avente, secondo la prospettazione della stessa parte controricorrente, una finalità diversa dalla generica prevenzione e repressione dell’immigrazione irregolare), la conoscenza dell’effettiva identità della ricorrente, la validità ed efficacia anche del passaporto diplomatico centroafricano oltre al possesso di ben due titoli di soggiorno in corso di validità, uniti all’oggettiva mancanza delle condizioni temporali e linguistiche per poter chiarire in modo inequivoco effettiva condizione di soggiorno in Italia da parte della ricorrente, inducono a ritenere del tutto privo delle condizioni di legittimità il titolo espulsivo ab origine e, conseguentemente il successivo ordine di accompagnamento coattivo e trattenimento presso il C.I.E., ancorché di molto breve durata. Peraltro, non può non rilevarsi, l’anomalia e la contraddittorietà tra, le indicate ragioni dell’accompagnamento coattivo (ritenute ostative all’alternativa modalità della partenza volontaria) unite alla necessità del trattenimento, ed il successivo, quasi immediato reperimento del vettore aereo. La contrazione dei tempi del rimpatrio e lo stato di detenzione e sostanziale isolamento della ricorrente, dall’irruzione alla partenza, hanno determinato nella specie un irreparabile vulnus al diritto di richiedere asilo e di esercitare adeguatamente il diritto di difesa. Peraltro il controllo della sussistenza di due titoli validi di soggiorno intestate ad AS sarebbe stata operazione non disagevole, attesa la conoscenza preventiva dell’identità della ricorrente che ha costituito una delle ragioni determinanti il sospetto (rivelatosi errato) dell’alterazione del passaporto diplomatico in quanto intestato non ad AS ma ad AA.

Il provvedimento di convalida, pertanto, in accoglimento del primo motivo è radicalmente nullo, per invalidità derivate dall’atto presupposto, in quanto manifestamente illegittimo ab origine.

L’accoglimento del primo motivo determina l’assorbimento del secondo”.

[21] Ampi reportage sono contenuti in tutti i principali quotidiani nazionali. Si segnalano tra gli altri (tutti pubblicati sulle edizioni web degli ultimi giorni del novembre 2015): Corriere della Sera, “Caso S., falsi lasciapassare con le foto fornite da funzionari di polizia”; L’Espresso, Luca Sappino, “Caso S. Per i PM fu sequestro di persona ma A. resta sereno”; La Stampa, “Caso S., il capo dello Sco e il questore di Rimini indagati per sequestro di persona”; Il Sole 24 Ore, “S.: Fiducia in giustizia Italia, svolto lavoro serio”; Rai Report (che a sua volta riporta notizie tratte da Il Velino), “S., la Procura di Perugia indaga anche su alti dirigenti dell’ENI”; La Repubblica, Daniele Autieri e Carlo Bonini, “Caso S., la nuova verità. La giudice intercettata: hanno pagato il mio silenzio”; La Repubblica, Daniele Autieri e Andrea Greco, “Caso S. nuove ombre sull’ENI, coinvolte due ditte di security private”; Il Manifesto, Andrea Colombo, “I poliziotti lo dicono: il caso S. “era deciso in alto”.

[22] Questa la sintesi delle proposizioni accusatorie curata dai giornalisti Daniele Autieri e Carlo Bonini di La Repubblica: “è una verità che, ridotta all’osso, suona così. Fu un’impressionante catena di falsi e “condotte consapevolmente commissive e omissive”, una sistematica dissimulazione della verità, a consentire che AS venisse illegittimamente espulsa dal nostro Paese insieme alla figlia di 6 anni, AA. Di più. A quel frenetico maquillage della realtà che doveva necessariamente elidere il presupposto che avrebbe reso impossibile l’espulsione (la vera identità della donna, la sua condizione di madre e il suo status di moglie di un dissidente e rifugiato politico) tutti contribuirono nella piena consapevolezza dell’abuso che si stava consumando.

Dirigenti, funzionari e agenti di Polizia (che di quell’identità erano al corrente prima ancora del suo fermo), nonché il giudice di pace che a quello scempio giuridico diede avallo, SL. Che, si scopre ora, intercettata telefonicamente dal ROS dei carabinieri, si lascia andare a una confessione che, con lei, non solo travolge i protagonisti “in chiaro” di questa storia, ma apre uno squarcio anche sugli innominati dell’inchiesta. “Mi avrebbero schiacciato - confida il giudice a un interlocutore di cui, dall’informazione di garanzia, non è dato conoscere l’identità - ho fatto pippa... Non ho sputtanato nessuno... Hanno pagato il mio silenzio... I panni sporchi si lavano in famiglia”.

PANNI SPORCHI. Di chi aveva paura la SL? Chi l’avrebbe schiacciata? Il ministro dell’Interno AA? Quello della Giustizia? Il capo della Polizia AP? Gli uffici giudiziari di Roma? L’Eni, che  -  viene documentato ora dall’indagine  -  avrebbe messo a disposizione dei kazaki, attraverso una sua società, aereo e pilota per questa “extraordinary rendition”? O l’allora capo della Mobile (e oggi direttore dello Sco) RC insieme all’allora capo dell’ufficio immigrazione (e oggi questore di Rimini) MI? E poi: come sarebbe e da chi sarebbe stato “pagato” il suo silenzio? Infine: a quale “famiglia” in cui lavare i panni sporchi si fa riferimento?

Raggiunta al telefono, la SL farfuglia spaventata di ritenere che la magistratura debba fare il suo lavoro. Né si ha più fortuna con gli altri indagati. “No comment “. “Serenità negli accertamenti in corso” (gli indagati cominceranno ad essere sentiti a Perugia nei prossimi giorni).

Dunque, sono solo le carte a parlare. E non è un bel leggere. Perché, a quanto pare, sulla scena non c’è un solo protagonista che dica la verità. Qualcuno alza anche le mani. Su BS, presente al momento del fermo della S. nella villa di Casal Palocco e picchiato due volte. Nella casa, quando il commissario FS lo “colpisce al volto con uno zaino su rotelle”. E quindi in questura (“con pugni alla schiena “), quando si scopre che il disgraziato ha scritto in russo sul verbale che gli è stato fatto siglare, “Non capisco cosa sto firmando”.

L’IDENTITA’ ERA NOTA. L’inchiesta di Perugia afferra tre nuove circostanze ignote alle cronache e alla prima indagine condotta dalla Procura di Roma. La prima. “I dirigenti RC e MI, il capo della sezione della Mobile LA e il commissario FS  -  scrivono il procuratore LDF, l’aggiunto AD e il sostituto MC - omisero di attestare e comunicare che la donna fermata a Casal Palocco il 29 maggio 2013 si identificava in AS, moglie del dissidente ricercato MA, pur conoscendo la squadra Mobile le reali generalità della donna e disponendo della fotografia della medesima fin dal primo pomeriggio del 28 maggio, quando ebbe a ricevere la “nota verbale” kazaka con 21 allegati”. Di più: “Omisero di riferire che la donna era madre di minore con lei convivente e che aveva ampie disponibilità patrimoniali, pur avendo sequestrato 50mila euro in contanti presso la sua abitazione”.

La prova è appunto in quella “nota verbale” con cui Astana detta la linea al governo di Roma, al suo ministro dell’Interno (che, per 48 ore, tollera che funzionari kazaki bivacchino nella sua anticamera neanche fosse casa loro e ottengano che la polizia italiana si metta a servizio), all’intero Dipartimento di pubblica sicurezza. Si legge: “Informiamo che MA potrebbe essere accompagnato dalla moglie AS. Confermiamo che la donna è una cittadina del Kazakistan ed è in possesso di un passaporto falso di un altro Paese (presumibilmente la Repubblica Centrafricana)”.

Si indica quindi alle autorità italiane dove trovare la donna (la villa di via di Casal Palocco 3) e si conclude: “In caso di conferma delle false generalità di AS, chiediamo alle rispettive autorità di deportarla in Kazakistan”.

LE FOTO ESTRAPOLATE.  La seconda novità è nella scoperta del modo con cui vennero preparati in fretta e furia i documenti di identità che dovevano accompagnare l’espulsione della AS e di sua figlia.

Scrivono i pm: “La mattina del 30 maggio, prima dell’udienza di convalida del trattenimento presso il CIE della donna, MI consegnò a NK, consigliere dell’ambasciata del Kazakistan, le foto tratte dal passaporto della donna e della figlia perché venissero ritoccate e utilizzate per formare i “falsi documenti di ritorno”“. Nessuno obietta, tutti fingono di non vedere. A cominciare dalla SL, che nella sua convalida di fermo, prima “dimentica” di annotare tutto ciò che avrebbe reso impossibile l’espulsione (la reale identità della donna, “che le era nota”, “la sua richiesta di asilo”, la sua “condizione di madre di minore”, la bontà del passaporto). E quindi afferma “falsamente il contrario”.

LA DEPORTAZIONE. Del resto, in questa storia, non dice la verità neanche l’ENI. Ed è questa la terza “scoperta” dell’inchiesta di Perugia e del Ros. Ascoltato dai pm, il pilota dell’aereo messo a disposizione delle autorità kazake per la “deportazione” della AS avrebbe infatti spiegato di aver lavorato al tempo per una società ENI che, normalmente, trasferiva tecnici e dirigenti della società impegnati in Kazakistan. E avrebbe aggiunto della sua sorpresa e sconcerto per le grida di quella donna che, ancora al momento di salire sulla scaletta dell’aereo, avrebbe gridato la sua condizione di moglie di un dissidente e la sua richiesta di asilo politico.

Le carte dell’inchiesta documentano che le sarebbe stato risposto: “Ormai è stato tutto deciso ad alto livello”. “Alto livello”. Quale? Quello di RC e MI?

Segnalo, riguardo all’ipotizzato coinvolgimento dell’ENI, l’articolo pubblicato da Report che rilancia un reportage de Il Velino in cui si sostiene che “A riaprire l’ipotesi di un coinvolgimento dell’Eni ci sarebbe ora la deposizione fatta davanti ai pubblici ministeri di Perugia del pilota del jet privato che riportò la S. in Kazakistan. Sembra, infatti, che il pilota abbia dichiarato di essere alle dipendenze di una società dell’Eni per conto della quale più volte aveva operato voli in Kazakistan per trasferirci tecnici e dirigenti dell’Eni ivi impegnati. Avrebbe aggiunto che riteneva anche quello un normale volo di servizio e di aver scoperto solo davanti alle urla e alle resistenze della signora S. che si trattava, invece, di un anomalo trasferimento. Ai carabinieri del ROS, il pilota, a riscontro delle sue dichiarazioni, avrebbe anche consegnato un filmato che il suo assistente riuscì a girare nelle concitate fasi d’imbarco della S. e della sua figlioletta a Ciampino. Da qui il riscontro alle dichiarazioni anonime raccolte dalla trasmissione “Report” e la decisione di indagare sui vertici dell’Eni”.

Sulla medesima questione si intrattiene nuovamente La Repubblica, con un articolo di Daniele Autieri e Andrea Greco.

Questa è la loro ricostruzione: “La strada che porta da Perugia alla sede del colosso petrolifero, ai tempi guidato da PS, passa per due società di security, una israeliana e una italiana. Il 16 maggio del 2013 la israeliana Gadot Information Services incarica la Sira Investigazioni e il titolare, MT, “di individuare la presenza del signor MA, il quale dovrebbe essere in zona Casal Palocco di Roma”. Il contratto, depositato nelle carte di Perugia e di cui Repubblica è in possesso, prevede un compenso di 5mila euro per la durata di 20-25 giorni.

E oggi una fonte dell’intelligence privata molto vicina alla security ENI conferma che la Gadot sarebbe stata a sua volta incaricata da ENI di ricercare MA in Italia, circostanza già denunciata da Report nel corso di un’intervista fatta dal giornalista Paolo Mondani a un dirigente dell’azienda e finita in un fascicolo aperto dalla procura di Roma. Allora ENI rispose escludendo il suo coinvolgimento e anche oggi, raggiunto da Repubblica, il portavoce ribadisce: “Si ricorda che all’epoca dei fatti l’azienda comunicò la sua estraneità alla vicenda e per quanto noto a ENI non ci sono manager o ex-manager fra gli indagati”.

Non c’è dubbio però che, pochi giorni dopo l’assegnazione dell’incarico alla Sira Investigazioni, all’Interpol kazaka arrivi l’informazione che aspettava, seguita dall’invio di un cablo riservato ai colleghi italiani nel quale la polizia di Astana indica l’indirizzo di MA e detta ufficialmente la linea, richiedendo la cattura del ricercato e di sua moglie.

L’INTELLIGENCE PRIVATA

Dal 2005 al 2014 la security dell’azienda raggiunge il massimo della sua efficienza informativa. In quegli anni il Gruppo decuplica gli investimenti nella sicurezza che arrivano a sfiorare i venti milioni di euro, rendendola una direzione di controllo, raccolta e smistamento di informazioni, spesso riservate. Le stesse attività che, in molti casi, vengono esternalizzate a piccole società di fiducia, proprio come la Sira Investigazioni. Una prassi rivista con l’arrivo del nuovo ad, CD, che ha ridotto i costi e sostituito gli uomini chiave.

IL PILOTA DEL VOLO

Oltre alle agenzie di security che stazionavano fuori dalla villa di Casal Palocco, il secondo filo da tirare per fare chiarezza sul ruolo di ENI nella vicenda porta al pilota messo a disposizione dalle autorità kazake per la “deportazione” di AS. La Procura di Perugia ha intenzione di interrogare l’uomo, che attualmente è in Austria, e ha già richiesto da tempo una rogatoria internazionale. Secondo risultanze emerse a margine dell’inchiesta, il pilota avrebbe ammesso di aver lavorato al tempo per una società Eni che trasferiva tecnici e dirigenti dell’azienda impegnati in Kazakistan. E oggi una fonte vicina all’entourage di MA conferma che la chiave della vicenda può essere trovata andando a verificare chi veramente pagò l’affitto dell’aeromobile.

L’ULTIMO APPELLO

Chiunque sia stato a esercitare pressioni e ad agire materialmente in quelle tre frenetiche giornate, è un fatto che alle 19,03 del 31 maggio l’aereo della AV JET decolla per il Kazakistan. Fino a un attimo prima che si chiudesse il portellone dell’aeromobile, AS ha chiesto asilo politico. “Per sette volte  -  annota la procura di Perugia nell’informazione di garanzia  -  la donna ha implorato e chiesto asilo”. Ma nessuno le ha dato ascolto”.

Sulla vicenda – va da sé - interviene anche il sindacato di polizia SIULP che si dice fiducioso nell’operato della magistratura ma avverte “il rischio di demotivazione per gli agenti” perché “Dopo circa due anni dai fatti, nel leggere che questi colleghi sono indagati per sequestro di persona, il primo sentimento che suscita questa vicenda in ogni poliziotto, e soprattutto in quelli che conoscono le persone interessate, è stupore, per il gravissimo capo di imputazione che presupporrebbe un accordo tra gli indagati per raggiungere un profitto, e demotivazione soprattutto alla luce dell’attività che stiamo svolgendo in questi giorni per il contrasto al terrorismo». «Non vorremmo che, non appena passato l’allarme terrorismo, tutti quelli che hanno partecipato alla individuazione ed espulsione dei personaggi ritenuti pericolosi per l’ordine e la sicurezza pubblica del nostro Paese e per l’incolumità dei nostri cittadini possano ritrovarsi in situazioni analoghe».

[23] La Repubblica, Carlo Bonini e Fabio Tonacci, 3 dicembre 2016, “Caso S. Ecco le nuove prove che accusano A. e i vertici della polizia”.