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231 - Cassazione Penale: confiscabile solo il profitto immediato e diretto del reato al netto dell’eventuale utilità conseguita dal danneggiato

231 - Cassazione Penale: confiscabile solo il profitto immediato e diretto del reato al netto dell’eventuale utilità conseguita dal danneggiato
231 - Cassazione Penale: confiscabile solo il profitto immediato e diretto del reato al netto dell’eventuale utilità conseguita dal danneggiato

La Corte di Cassazione ha stabilito che, in tema di responsabilità amministrativa degli enti, il profitto del reato oggetto della confisca si identifica con il vantaggio economico di diretta e immediata derivazione causale dal reato presupposto, e, nel caso in cui questo venga consumato nell’ambito di un rapporto sinallagmatico, non può ricomprendere l’utilità eventualmente conseguita dal danneggiato in ragione dell’esecuzione delle prestazioni contrattuali da parte dell’ente.

 

Il caso di specie

Il Giudice per le Indagini Preliminari aveva disposto - nei confronti di una società accusata dell’illecito di cui agli articoli 5, comma 1, lett. a) e 24, commi 1 e 2, del Decreto Legislativo n. 231/2001 in relazione al delitto di cui agli articoli 640 e 640-bis del Codice Penale, per avere il rappresentante legale della stessa presentato false attestazioni al fine di ottenere un finanziamento da parte dell’Unione Europea - il sequestro preventivo finalizzato alla confisca ai sensi dell’articolo 19, commi 1 e 2, del citato Decreto Legislativo di beni fungibili, ovvero in subordine e per equivalente, di beni di natura diversa intestati o nella disponibilità della società per un importo pari al finanziamento ottenuto.

Con ordinanza il Tribunale del Riesame aveva rigettato l’istanza ex articolo 324 del Codice di Procedura Penale avverso la decisione di cui sopra.

Impugnando quest’ultima pronuncia, la società, in persona del legale rappresentante, proponeva ricorso per cassazione, deducendo l’erronea applicazione della legge penale e la mancata o mera apparenza della motivazione in ordine all’individuazione del profitto da sottoporre a vincolo ablativo.

In particolare, il ricorrente lamentava la mancata applicazione da parte del giudicante dei principi di diritto fissati dalla pronuncia della Corte di Cassazione a Sezioni Unite (Fisia Italimpianti) che, operando una distinzione tra reati contratto e reati in contratto, “prevede solo nel primo caso la confiscabilità integrale del profitto mentre nel secondo il vantaggio economico di diretta derivazione dal reato deve essere determinato al netto dell’effettiva utilità eventualmente conseguita dal danneggiato”.

A parer del ricorrente, nel caso di specie (truffa ai danni di un ente pubblico) si versava in un’ipotesi di reato in contratto, come più volte affermato dalla giurisprudenza di legittimità, con conseguente necessaria applicazione, ai fini dell’individuazione del profitto confiscabile, del criterio dell’utile netto. Al contrario, l’ordinanza impugnata non aveva proceduto ad alcun accertamento sull’eventuale utilità conseguita dall’Amministrazione dal servizio prestato dalla società ricorrente, che doveva essere scomputata dal profitto confiscabile, anche allo scopo di evitare un ingiusto arricchimento dell’Amministrazione danneggiata.

 

La decisione della Suprema Corte

La Corte di Cassazione ha ritenuto il ricorso fondato nei termini che seguono.

Preliminarmente, i giudici di legittimità hanno osservato come nel caso di specie dovessero trovare applicazione i principi individuati dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite nella sentenza n. 26654 del 27 marzo 2008, Fisia Italimpianti Spa e altri, secondo cui: “in tema di responsabilità da reato degli enti collettivi il profitto del reato oggetto della confisca di cui all’art. 19 del D.Lgs. n. 231 del 2001 si identifica con il vantaggio economico di diretta e immediata derivazione causale dal reato presupposto, ma, nel caso in cui questo venga consumato nell’ambito di un rapporto sinallagmatico, non può essere considerato tale anche l’utilità eventualmente conseguita dal danneggiato in ragione dell’esecuzione da parte dell’ente delle prestazioni che il contratto gli impone”.

In particolare, nella citata sentenza la Suprema Corte ha affermato che: “a) il contratto stipulato in violazione di norme penali è nullo se la norma violata ha ad oggetto la stessa stipula del contratto (reato contratto), mentre è efficace, ancorché annullabile, se la norma violata è sì imperativa ma attiene al comportamento dei contraenti, che può al più essere fonte di responsabilità (reato in contratto); b) nel caso di reato-contratto il profitto confiscabile è costituito dal ricavo lordo; c) nel caso di reati in contratto a prestazioni corrispettive, il profitto viene identificato con il vantaggio economico derivato dal reato al netto dell’effettiva utilità eventualmente conseguita dal danneggiato, nell’ambito del rapporto sinallagmatico con l’ente”.

Pertanto, osserva la Corte, ai fini della distinzione tra reati-contratto e reati in contratto, da cui discendono poi rilevanti conseguenze in tema di individuazione del profitto da sottoporre a vincolo ablativo, “ciò che rileva […] è l’incidenza dell’artifizio e raggiro nella fase genetica della procedura d’ammissione alle agevolazioni economiche ovvero nella fase esecutiva”.

Se, nel caso di reati-contratto, la confisca per equivalente ed il relativo sequestro preventivo, possono avere ad oggetto l’intero prezzo del reato, senza necessità di distinzione tra questo ed il profitto e, nel caso di cui all’articolo 640-bis del Codice Penale, quest’ultimo coincide con l’intero ammontare del finanziamento qualora il rapporto contrattuale non si sarebbe perfezionato ed il progetto non sarebbe stato approvato senza le caratteristiche falsamente attestate dal percettore, “nel caso in cui il reato presupposto sia riconducibile ad un’ipotesi di cd. reato in contratto, il profitto confiscabile ex art. 19 del D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, deve essere determinato da un lato, assoggettando ad ablazione i vantaggi di natura economico-patrimoniale costituenti diretta derivazione causale dell’illecito così da aver riguardo esclusivamente dell’effettivo incremento del patrimonio dell’ente conseguito attraverso l’agire illegale e, dall’altro, escludendo i proventi eventualmente conseguiti per effetto di prestazioni lecite effettivamente svolte in favore del contraente nell’ambito del rapporto sinallagmatico, pari alla “utilitas” di cui si sia giovata la controparte”.

Rievocati i principi di cui sopra, la Suprema Corte ha rilevato come il giudice cautelare avesse omesso di valutare se la condotta contestata al rappresentante legale della società, consistente nella presentazione di false attestazioni per l’ammissione al finanziamento dell’Unione Europea, fosse già espressiva di un intento fraudolento tale da condizionare l’erogazione del contributo – e, in questo caso, configurandosi un reato-contratto, il vantaggio ingiusto doveva identificarsi nell’intero contributo lucrato – ovvero se l’illiceità aveva investito la sola esecuzione del progetto finanziato, attraverso l’elusione degli impegni assunti, con conseguente definizione della condotta illecita in una fattispecie di reato in contratto e necessità di limitare il vincolo cautelare al profitto effettivamente conseguito dall’ente al netto dell’utilità consolidata in capo all’Amministrazione erogante.

Per le ragioni di cui sopra, la Corte di Cassazione ha annullato l’ordinanza impugnata, con rinvio al Tribunale del Riesame per un nuovo esame dei provvedimenti cautelari reali.

(Corte di Cassazione - Sezione Seconda Penale, Sentenza 7 giugno 2018, n. 25980)