Non siamo più tutti pubblici ufficiali
Sarà l’entropia crescente propria di tutti i sistemi, a cui quello giuridico non fa eccezione, ma sembra che anche le norme giuridiche abbiano perso la loro abituale ancorché relativa stabilità, per diventare una sorta di materia magmatica in costante e, purtroppo, scoordinata evoluzione. Infatti, come già lamentava l’illustre civilista Francesco Gazzoni in una delle introduzioni al suo fortunato “Manuale”, sono ormai davvero lontani i tempi delle Dodici tavole, in cui le norme venivano scolpite sulla pietra.
Il Codice dell’amministrazione digitale (c.d. CAD – D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82 e s.uccessive modifiche e integrazioni) in questo senso non fa eccezione e anzi, quasi fosse un prodotto di consumo, in pochi anni ha visto più versioni di quante non ne abbia avute Microsoft Windows, ufficiali e non ufficiali, intendendo con quest’ultime quelle non inserite nel CAD ma in altre norme, anche secondarie.
Non tutte le modifiche tuttavia vengono per nuocere, tanto che la novella qui in commento non può che essere valutata positivamente.
Rimangono irrisolti, tuttavia, alcuni problemi ai quali si cercherà di accennare e che risultano particolarmente importanti nella presente fase della storia documentale del sistema Italia. Stiamo infatti convivendo e dovremo convivere per un tempo indefinito con documenti ibridi, in parte analogici e in parte digitali. Né va tralasciato il fatto che il passaggio dalla fase analogica a quella digitale e viceversa rappresenta un viaggio di andata e ritorno costellato da alcuni punti deboli, considerato che in tale momento il documento rimane esposto a possibili alterazioni più o meno intenzionali con il rischio di comprometterne irrimediabilmente la caratteristica più importante: l’autenticità.
2. Un passo indietro: la vecchia norma
Per comprendere appieno la portata della riforma, è necessario fare un passo indietro e richiamare l’ormai vecchia formulazione di una delle norme cardine del CAD, a presidio di uno dei punti più critici che governano i processi documentali, vale a dire il momento in cui un documento cartaceo si trasforma in un documento informatico.
Nella prima formulazione del CAD – e in armonia con il nostro ordinamento, primo fra tutti il codice civile – la dichiarazione di conformità di un documento era correttamente uno dei compiti riservati a notai e a pubblici ufficiali.
L’art. 16, comma 12, della legge 28 gennaio 2009, n. 2, tuttavia, aveva introdotto l’ennesima modifica al CAD, riformulando così l’art. 23, comma 4, del D.Lgs. 82/2005:
Le copie su supporto informatico di qualsiasi tipologia di documenti analogici originali, formati in origine su supporto cartaceo o su altro supporto non informatico, sostituiscono ad ogni effetto di legge gli originali da cui sono tratte se la loro conformità all’originale è assicurata da chi lo detiene mediante l’utilizzo della propria firma digitale e nel rispetto delle regole tecniche di cui all’articolo 71.
A parte la sintassi perfettibile e la scarsa coordinazione tra plurali e singolari a cui tuttavia il legislatore moderno – costantemente in emergenza – ci ha purtroppo abituato, questa norma (fortunatamente ora modificata) si poneva come un potente grimaldello potenzialmente in grado di forzare alcuni dei cardini del diritto civile, amministrativo e processuale.
Tale modifica, proposta dal Ministero per lo Sviluppo economico, nelle intenzioni del legislatore mirava a “semplificare” (parola quest’ultima seducente, ma troppo spesso usata a sproposito) e a ridurre i costi segnatamente per gli archivi privati, com’era allora intuibile dalla rubrica del decreto cosiddetto “anti–crisi” (prima DL 185/2008, poi convertito nella legge 2/2009). Tuttavia, le buone intenzioni sono state scavalcate dalla improvvida modifica al CAD, che avrebbe aperto un baratro anche per le amministrazioni pubbliche in merito a possibili falsi e comportamenti quantomeno omissivi, anche – chiariamolo puntualmente – per gli archivi privati.
A causa di tale disposizione, infatti, chiunque – dal semplice cittadino financo al truffatore – avrebbe potuto dematerializzare (e forse purtroppo ha anche già prontamente provveduto) qualsiasi tipo di documento attestando poi lui stesso – e, si badi bene, lui stesso – la genuinità della procedura e la conformità di quanto acquisito digitalmente con l’originale a questo punto divenuto ormai eliminabile legalmente in ambito privato, mentre in ambito pubblico era rimasto vigente il potere autorizzatorio dell’amministrazione dei beni culturali ex D.Lgs. 42/2004, art. 21.
Più in concreto, la dematerializzazione avrebbe potuto riguardare la semplice ricevuta o l’intero archivio cartaceo, magari alterando fraudolentemente quanto acquisito e quindi associando la propria firma digitale per “santificare” il tutto. Quello che usciva da questa singolare procedura aveva pieno valore “ad ogni effetto di legge” e poteva quindi essere validamente prodotto in giudizio od utilizzato per i più fantasiosi disegni criminosi: dall’esigere un pagamento non dovuto, a nascondere prove fonte di responsabilità, a quant’altro. Chiunque in sostanza avrebbe potuto essere la “terza parte fidata” e pubblico ufficiale di se stesso. Tutti, come si era osservato, eravamo in sostanza pubblici ufficiali, con effetti – come è evidente ictu oculi – potenzialmente dirompenti[1].
3. La firma digitale non è una magia
Tutto questo si basava su un equivoco, ancor oggi difficile da estirpare, secondo il quale la firma digitale avesse arcani e santificanti poteri in grado di garantire sempre e comunque la correttezza delle procedure nelle quali viene impiegata e capaci di assicurare, in modo invero misterioso, l’autenticità dei documenti con essa sottoscritti[2].
A rigore invece, se volessimo mettere i “puntini sulle i”, la firma digitale se da un lato presenta indubbi vantaggi in quanto garantisce velocità e praticità di uso, oltre alla verifica di un’eventuale modifica del documento con essa sottoscritto, dall’altro lato rappresenta più che altro un sigillo a valle di un calcolo matematico.
La firma digitale, in altre parole, è una procedura separata e distante sia fisicamente, ma anche socialmente e psicologicamente, dalla persona fisica che la appone. È, infatti, svincolata da qualsiasi tipo di riferimento biometrico e fisico e, pertanto, garantisce in forma oggettivamente minore della firma autografa la sua supposta autenticità.
La firma olografa “apocrifa” infatti, è spesso agevolmente riconoscibile con una normale perizia grafica e con una semplice lente di ingrandimento. La carta inoltre su cui la firma olografa viene apposta, “racconta” una serie di informazioni che gli informatici e gli archivisti chiamerebbero “metadati”[3].
Si pensi al colore del foglio, alla presenza di pieghe o scolorimenti, alla presenza di timbri o filigrane, alla stessa modalità con cui la firma è stata apposta. Tutti questi metadati, che la carta offre spontaneamente, ci parlano, anche se con approssimazione, dell’età del documento, della sua autenticità, financo dell’età della persona che ha sottoscritto il documento o del suo stato psico–fisico e di salute. Si pensi alla scrittura leggera e tremante o ad un tratto deciso e veloce od alla scrittura normale di un adulto, o ancora a quella di un bambino.
La firma digitale invece, quale semplice operazione matematica, è sempre identica a se stessa e se apposta da persona diversa dal titolare del dispositivo di firma è assolutamente indistinguibile dalla firma “originale”. Nessuna perizia al mondo potrà mai accertare tale apposizione fraudolenta. In sintesi “la firma digitale non è una firma”[4] e forse più correttamente non si sarebbe nemmeno dovuto chiamarla “firma”, ma “sigillo”.
Tali osservazioni non sono affatto poste per criticare l’evoluzione, ma semplicemente per far rilevare che dopo millenni in cui l’uomo utilizza mezzi diretti (come il punctorium o la penna) per firmare è necessario un profondo rivolgimento culturale e di conoscenza per poter utilizzare con consapevolezza la firma digitale. Essa ha molti pregi ma deve essere utilizzata dal cittadino e soprattutto normata dal legislatore tenendo bene a mente le caratteristiche peculiari, senza attribuirle funzioni che essa non può avere.
4. La nuova norma
Preso atto di quanto sopra, il legislatore ha condivisibilmente emendato la norma appena commentata e l‘ha sostituita con la nuova formulazione dell’art. 22, comma 2 e 3, come introdotta dall’art. 15 del D.Lgs. 235/2010:
2. Le copie per immagine su supporto informatico di documenti originali formati in origine su supporto analogico hanno la stessa efficacia probatoria degli originali da cui sono estratte, se la loro conformità è attestata da un notaio o da altro pubblico ufficiale a ciò autorizzato, con dichiarazione allegata al documento informatico e asseverata secondo le regole tecniche stabilite ai sensi dell’articolo 71.
3. Le copie per immagine su supporto informatico di documenti originali formati in origine su supporto analogico nel rispetto delle regole tecniche di cui all’articolo 71 hanno la stessa efficacia probatoria degli originali da cui sono tratte se la loro conformità all’originale non è espressamente disconosciuta.
Tralasciando il primo comma qui non riportato, osserviamo che il secondo comma ripristina finalmente l’ordine già presente nella nostra legislazione per i tradizionali documenti cartacei, affermando che per ottenere copia di un documento cartaceo è necessario l’intervento di una terza parte fidata che certifichi la corrispondenza tra l’originale e la copia. Non sarà quindi più possibile l’autonoma acquisizione digitale e distruzione di documenti senza garanzie e sarà quindi necessario l’intervento del pubblico ufficiale che garantisca la correttezza del processo e la conformità tra originale analogico ed esemplare informatico[5].
È opportuno ora dedicarsi all’analisi del terzo comma, che può sembrare a prima vista una sorta di rivincita, anche se in tono minore, delle proprietà taumaturgiche della firma digitale. Infatti, se è vero che per acquisire digitalmente con pieno valore legale un documento è di regola necessario l’intervento del pubblico ufficiale, d’altra parte in forza del terzo comma anche l’acquisizione digitale autonoma senza pubblico ufficiale non è priva di valore, in quanto essa ha la stessa efficacia probatoria del documento originale, salvo che venga disconosciuta.
In realtà una norma analoga esiste già nel nostro ordinamento: è l’art. 2719 c.c. il quale, rubricato “Copie fotografiche di scritture”, recita in modo analogo che
Le copie fotografiche di scrittura hanno la stessa efficacia delle autentiche, se la loro conformità con l’originale è attestata da pubblico ufficiale competente ovvero non è espressamente disconosciuta.
Nessuna fuga in avanti quindi, ma semplice e corretta trasposizione di un principio già proprio del nostro ordinamento a confermare il fatto che il mondo digitale non è di per sé migliore o intrinsecamente più sicuro del mondo cartaceo, ma necessita delle medesime cautele e delle medesime attenzioni.
Il concetto per cui la conformità deve essere appannaggio del notaio e del pubblico ufficiale è stato correttamente ribadito anche nel nuovo art. 23–ter, comma 3, come introdotto dall’art. 15 del D.Lgs. 235/2010:
Le copie su supporto informatico di documenti formati dalla pubblica amministrazione in origine su supporto analogico ovvero da essa detenuti, hanno il medesimo valore giuridico, ad ogni effetto di legge, degli originali da cui sono tratte, se la loro conformità all’originale è assicurata dal funzionario a ciò delegato nell’ambito dell’ordinamento proprio dell’amministrazione di appartenenza, mediante l’utilizzo della firma digitale o di altra firma elettronica qualificata e nel rispetto delle regole tecniche stabilite ai sensi dell’articolo 71; in tale caso l’obbligo di conservazione dell’originale del documento è soddisfatto con la conservazione della copia su supporto informatico.
Qui brevemente commentiamo che da un lato sembra che lo scarto dei documenti sia implicitamente autorizzato in violazione dell’art. 21 del D.Lgs. 42/2004 che prevede un provvedimento espresso di autorizzazione da parte degli organi di vigilanza sulle amministrazioni non statali (Soprintendenze archivistiche) e di sorveglianza sulle amministrazioni statali (Archivi di Stato), dall’altro che il legislatore, riferendosi alla firma “qualificata”, si dimentica che ora – com’egli stesso ha novellato con il D.Lgs. 235/2010 – la firma digitale è un tipo di firma elettronica avanzata e non più qualificata[6].
5. Il viaggio di ritorno: dal digitale all’analogico
Se la norma appena commentata si fa carico di disciplinare quello che potremmo definire “il viaggio di andata” del documento, dall’analogico al digitale, è necessario ora soffermarsi sul successivo art. 23 del CAD, che disciplina in sostanza il “viaggio di ritorno” dal digitale all’analogico.
Al primo comma nessuna novità, in quanto coerentemente si recita:
1. Le copie su supporto analogico di documento informatico, anche sottoscritto con firma elettronica avanzata, qualificata o digitale, hanno la stessa efficacia probatoria dell’originale da cui sono tratte se la loro conformità all’originale in tutte le sue componenti è attestata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato.
Nulla di nuovo come si diceva, in quanto passando da documento informatico ad analogico si perde appunto la cosiddetta “catena del valore” della firma digitale, e pertanto è necessario l’intervento di una terza parte fidata che assicuri la correttezza del processo. Diverso, invece, è il secondo comma che introduce una vera e propria novità nel sistema. La norma, infatti, recita:
2. Le copie e gli estratti su supporto analogico del documento informatico, conformi alle vigenti regole tecniche, hanno la stessa efficacia probatoria dell’originale se la loro conformità non è espressamente disconosciuta.
Detta norma disciplina le modalità con le quali effettuare copie ed “estratti”, vale a dire copie parziali, o più esattamente copie parziali destinate ad un preciso utilizzo o più tecnicamente “teleologicamente orientate”[7].
Si pensi a registri contabili dai quali sia necessario estrarre un singolo dato al fine della sua produzione in giudizio, od una serie di dati che complessivamente siano indicativi di una determinata posizione economica, o ancora a un documento i cui i dati devono essere protetti in previsione di una diffusione erga omnes all’albo on–line.
La norma presenta un certo grado di novità perché non è chiarissima la portata del rinvio alle regole tecniche. Sembrerebbe potersi ipotizzare, secondo i primi e più attenti commenti, che tale rinvio possa riferirsi al cosiddetto “contrassegno digitale” nominato al comma 5 dell’art. 23–ter che disciplina in realtà i documenti informatici.
Tale contrassegno dovrebbe riportare in forma di cosiddetti “glifi”, vale a dire segni grafici variamente orientati, il documento in forma digitale e la sua firma. I glifi sarebbero apposti in calce o a margine del testo in chiaro, salvaguardando così in un certo senso la “catena del valore” della firma digitale. Purtroppo, ancora una volta va ribadito che l’attecchimento del digitale non può avvenire ricorrendo continuamente a forme promiscue di validità, ma tranciando quel cordone ombelicale che vede il legislatore in modo pervicace attaccato sincronicamente a forme digitali e a forme analogiche, quando invece è necessario scegliere una delle due in una condizione di diacronia ibrida. In una parola: o digitale o analogico.
Rimane quindi da seguire con attenzione l’emanazione delle regole tecniche, le quali – si badi – non potranno di per se stesse garantire l’autenticità in processi che non siano autonomamente corretti, non avendo nemmeno loro proprietà “magiche e santificanti” come non le ha la firma digitale.
[2] Un esempio di tale modo di considerare la firma digitale è il provvedimento di cui al Decreto Legge 25 giugno 2008, n. 112 – convertito in Legge 6 agosto 2008, n. 133 che ha introdotto la possibilità per alcuni soggetti fungere da intermediari e di depositare al Registro delle Imprese gli atti di cessione di quote di società a responsabilità limitata, a prescindere da qualsiasi controllo di legalità ed autenticità da parte del Pubblico Ufficiale. Tale procedura “semplificata” o meglio deregolamentata si badi bene è possibile solo laddove gli atti di trasferimento siano sottoscritti con firma digitale. Ora senza andare fuori tema non si può non osservare come tale norma sia un assoluto non senso e sia figlia di tale modo di considerare la firma digitale come qualche cosa di arcano che “di per sé” garantisca la bontà e l’autenticità del documento con essa sottoscritto. Delle due infatti una: o si consente il deposito di tutti gli atti – a prescindere dalla sottoscrizione con firma digitale – o non se ne consente nessuno. La firma digitale di per sé è solo una modalità di apposizione, ma di nuovo... non è una magia. Si veda Gaetano PETRELLI, Enrico MACCARONE, Le cessioni di quote di s.r.l. dopo la conversione del d.l. n.112 del 2008, in Notariato n. 5/2008, IPSOA, p. 535.
[3] L’acuta osservazione è di Ugo BECHINI, Sicurezza tra mondo reale e virtuale, intervento al Congresso Nazionale del Notariato, Roma, 3 dicembre 2004.
[4] Questo è l’incipit dell’autorevole monografia di Giusella FINOCCHIARO, La firma digitale. Formazione, archiviazione e trasmissione di documenti con strumenti informatici e telematici, Commentario del Codice Civile Scialoja–Branca, art. 2699–2720, Bologna, Zanichelli, Il foro italiano, Roma, 2000, p.1.
[5] Usiamo il sintagma esemplare informatico, in luogo delle nuove definizioni di copia informatica e di duplicato informatico presenti nel nuovo CAD, perché si tratta di un problema di concettualizzazione e di apparato definitorio sul quale gioverà riflettere a breve con rigore metodologico.
[6] G. Penzo Doria, Alcune disattenzioni redazionali sulle firme elettroniche, «Filodiritto», 2011.
[7] La differenza tra “copia parziale” ed “estratto” secondo i più attenti commentatori è che la “copia parziale” è oggettiva, mentre l’“estratto” più correttamente è una copia parziale teleologicamente orientata, vale a dire nella quale vengono ricompresi solo i dati necessari al suo preciso e concreto utilizzo ed omessi gli altri. Da un punto di vista diplomatistico si tratta perlopiù di una “copia corrotta in autotutela”.
Sarà l’entropia crescente propria di tutti i sistemi, a cui quello giuridico non fa eccezione, ma sembra che anche le norme giuridiche abbiano perso la loro abituale ancorché relativa stabilità, per diventare una sorta di materia magmatica in costante e, purtroppo, scoordinata evoluzione. Infatti, come già lamentava l’illustre civilista Francesco Gazzoni in una delle introduzioni al suo fortunato “Manuale”, sono ormai davvero lontani i tempi delle Dodici tavole, in cui le norme venivano scolpite sulla pietra.
Il Codice dell’amministrazione digitale (c.d. CAD – D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82 e s.uccessive modifiche e integrazioni) in questo senso non fa eccezione e anzi, quasi fosse un prodotto di consumo, in pochi anni ha visto più versioni di quante non ne abbia avute Microsoft Windows, ufficiali e non ufficiali, intendendo con quest’ultime quelle non inserite nel CAD ma in altre norme, anche secondarie.
Non tutte le modifiche tuttavia vengono per nuocere, tanto che la novella qui in commento non può che essere valutata positivamente.
Rimangono irrisolti, tuttavia, alcuni problemi ai quali si cercherà di accennare e che risultano particolarmente importanti nella presente fase della storia documentale del sistema Italia. Stiamo infatti convivendo e dovremo convivere per un tempo indefinito con documenti ibridi, in parte analogici e in parte digitali. Né va tralasciato il fatto che il passaggio dalla fase analogica a quella digitale e viceversa rappresenta un viaggio di andata e ritorno costellato da alcuni punti deboli, considerato che in tale momento il documento rimane esposto a possibili alterazioni più o meno intenzionali con il rischio di comprometterne irrimediabilmente la caratteristica più importante: l’autenticità.
2. Un passo indietro: la vecchia norma
Per comprendere appieno la portata della riforma, è necessario fare un passo indietro e richiamare l’ormai vecchia formulazione di una delle norme cardine del CAD, a presidio di uno dei punti più critici che governano i processi documentali, vale a dire il momento in cui un documento cartaceo si trasforma in un documento informatico.
Nella prima formulazione del CAD – e in armonia con il nostro ordinamento, primo fra tutti il codice civile – la dichiarazione di conformità di un documento era correttamente uno dei compiti riservati a notai e a pubblici ufficiali.
L’art. 16, comma 12, della legge 28 gennaio 2009, n. 2, tuttavia, aveva introdotto l’ennesima modifica al CAD, riformulando così l’art. 23, comma 4, del D.Lgs. 82/2005:
Le copie su supporto informatico di qualsiasi tipologia di documenti analogici originali, formati in origine su supporto cartaceo o su altro supporto non informatico, sostituiscono ad ogni effetto di legge gli originali da cui sono tratte se la loro conformità all’originale è assicurata da chi lo detiene mediante l’utilizzo della propria firma digitale e nel rispetto delle regole tecniche di cui all’articolo 71.
A parte la sintassi perfettibile e la scarsa coordinazione tra plurali e singolari a cui tuttavia il legislatore moderno – costantemente in emergenza – ci ha purtroppo abituato, questa norma (fortunatamente ora modificata) si poneva come un potente grimaldello potenzialmente in grado di forzare alcuni dei cardini del diritto civile, amministrativo e processuale.
Tale modifica, proposta dal Ministero per lo Sviluppo economico, nelle intenzioni del legislatore mirava a “semplificare” (parola quest’ultima seducente, ma troppo spesso usata a sproposito) e a ridurre i costi segnatamente per gli archivi privati, com’era allora intuibile dalla rubrica del decreto cosiddetto “anti–crisi” (prima DL 185/2008, poi convertito nella legge 2/2009). Tuttavia, le buone intenzioni sono state scavalcate dalla improvvida modifica al CAD, che avrebbe aperto un baratro anche per le amministrazioni pubbliche in merito a possibili falsi e comportamenti quantomeno omissivi, anche – chiariamolo puntualmente – per gli archivi privati.
A causa di tale disposizione, infatti, chiunque – dal semplice cittadino financo al truffatore – avrebbe potuto dematerializzare (e forse purtroppo ha anche già prontamente provveduto) qualsiasi tipo di documento attestando poi lui stesso – e, si badi bene, lui stesso – la genuinità della procedura e la conformità di quanto acquisito digitalmente con l’originale a questo punto divenuto ormai eliminabile legalmente in ambito privato, mentre in ambito pubblico era rimasto vigente il potere autorizzatorio dell’amministrazione dei beni culturali ex D.Lgs. 42/2004, art. 21.
Più in concreto, la dematerializzazione avrebbe potuto riguardare la semplice ricevuta o l’intero archivio cartaceo, magari alterando fraudolentemente quanto acquisito e quindi associando la propria firma digitale per “santificare” il tutto. Quello che usciva da questa singolare procedura aveva pieno valore “ad ogni effetto di legge” e poteva quindi essere validamente prodotto in giudizio od utilizzato per i più fantasiosi disegni criminosi: dall’esigere un pagamento non dovuto, a nascondere prove fonte di responsabilità, a quant’altro. Chiunque in sostanza avrebbe potuto essere la “terza parte fidata” e pubblico ufficiale di se stesso. Tutti, come si era osservato, eravamo in sostanza pubblici ufficiali, con effetti – come è evidente ictu oculi – potenzialmente dirompenti[1].
3. La firma digitale non è una magia
Tutto questo si basava su un equivoco, ancor oggi difficile da estirpare, secondo il quale la firma digitale avesse arcani e santificanti poteri in grado di garantire sempre e comunque la correttezza delle procedure nelle quali viene impiegata e capaci di assicurare, in modo invero misterioso, l’autenticità dei documenti con essa sottoscritti[2].
A rigore invece, se volessimo mettere i “puntini sulle i”, la firma digitale se da un lato presenta indubbi vantaggi in quanto garantisce velocità e praticità di uso, oltre alla verifica di un’eventuale modifica del documento con essa sottoscritto, dall’altro lato rappresenta più che altro un sigillo a valle di un calcolo matematico.
La firma digitale, in altre parole, è una procedura separata e distante sia fisicamente, ma anche socialmente e psicologicamente, dalla persona fisica che la appone. È, infatti, svincolata da qualsiasi tipo di riferimento biometrico e fisico e, pertanto, garantisce in forma oggettivamente minore della firma autografa la sua supposta autenticità.
La firma olografa “apocrifa” infatti, è spesso agevolmente riconoscibile con una normale perizia grafica e con una semplice lente di ingrandimento. La carta inoltre su cui la firma olografa viene apposta, “racconta” una serie di informazioni che gli informatici e gli archivisti chiamerebbero “metadati”[3].
Si pensi al colore del foglio, alla presenza di pieghe o scolorimenti, alla presenza di timbri o filigrane, alla stessa modalità con cui la firma è stata apposta. Tutti questi metadati, che la carta offre spontaneamente, ci parlano, anche se con approssimazione, dell’età del documento, della sua autenticità, financo dell’età della persona che ha sottoscritto il documento o del suo stato psico–fisico e di salute. Si pensi alla scrittura leggera e tremante o ad un tratto deciso e veloce od alla scrittura normale di un adulto, o ancora a quella di un bambino.
La firma digitale invece, quale semplice operazione matematica, è sempre identica a se stessa e se apposta da persona diversa dal titolare del dispositivo di firma è assolutamente indistinguibile dalla firma “originale”. Nessuna perizia al mondo potrà mai accertare tale apposizione fraudolenta. In sintesi “la firma digitale non è una firma”[4] e forse più correttamente non si sarebbe nemmeno dovuto chiamarla “firma”, ma “sigillo”.
Tali osservazioni non sono affatto poste per criticare l’evoluzione, ma semplicemente per far rilevare che dopo millenni in cui l’uomo utilizza mezzi diretti (come il punctorium o la penna) per firmare è necessario un profondo rivolgimento culturale e di conoscenza per poter utilizzare con consapevolezza la firma digitale. Essa ha molti pregi ma deve essere utilizzata dal cittadino e soprattutto normata dal legislatore tenendo bene a mente le caratteristiche peculiari, senza attribuirle funzioni che essa non può avere.
4. La nuova norma
Preso atto di quanto sopra, il legislatore ha condivisibilmente emendato la norma appena commentata e l‘ha sostituita con la nuova formulazione dell’art. 22, comma 2 e 3, come introdotta dall’art. 15 del D.Lgs. 235/2010:
2. Le copie per immagine su supporto informatico di documenti originali formati in origine su supporto analogico hanno la stessa efficacia probatoria degli originali da cui sono estratte, se la loro conformità è attestata da un notaio o da altro pubblico ufficiale a ciò autorizzato, con dichiarazione allegata al documento informatico e asseverata secondo le regole tecniche stabilite ai sensi dell’articolo 71.
3. Le copie per immagine su supporto informatico di documenti originali formati in origine su supporto analogico nel rispetto delle regole tecniche di cui all’articolo 71 hanno la stessa efficacia probatoria degli originali da cui sono tratte se la loro conformità all’originale non è espressamente disconosciuta.
Tralasciando il primo comma qui non riportato, osserviamo che il secondo comma ripristina finalmente l’ordine già presente nella nostra legislazione per i tradizionali documenti cartacei, affermando che per ottenere copia di un documento cartaceo è necessario l’intervento di una terza parte fidata che certifichi la corrispondenza tra l’originale e la copia. Non sarà quindi più possibile l’autonoma acquisizione digitale e distruzione di documenti senza garanzie e sarà quindi necessario l’intervento del pubblico ufficiale che garantisca la correttezza del processo e la conformità tra originale analogico ed esemplare informatico[5].
È opportuno ora dedicarsi all’analisi del terzo comma, che può sembrare a prima vista una sorta di rivincita, anche se in tono minore, delle proprietà taumaturgiche della firma digitale. Infatti, se è vero che per acquisire digitalmente con pieno valore legale un documento è di regola necessario l’intervento del pubblico ufficiale, d’altra parte in forza del terzo comma anche l’acquisizione digitale autonoma senza pubblico ufficiale non è priva di valore, in quanto essa ha la stessa efficacia probatoria del documento originale, salvo che venga disconosciuta.
In realtà una norma analoga esiste già nel nostro ordinamento: è l’art. 2719 c.c. il quale, rubricato “Copie fotografiche di scritture”, recita in modo analogo che
Le copie fotografiche di scrittura hanno la stessa efficacia delle autentiche, se la loro conformità con l’originale è attestata da pubblico ufficiale competente ovvero non è espressamente disconosciuta.
Nessuna fuga in avanti quindi, ma semplice e corretta trasposizione di un principio già proprio del nostro ordinamento a confermare il fatto che il mondo digitale non è di per sé migliore o intrinsecamente più sicuro del mondo cartaceo, ma necessita delle medesime cautele e delle medesime attenzioni.
Il concetto per cui la conformità deve essere appannaggio del notaio e del pubblico ufficiale è stato correttamente ribadito anche nel nuovo art. 23–ter, comma 3, come introdotto dall’art. 15 del D.Lgs. 235/2010:
Le copie su supporto informatico di documenti formati dalla pubblica amministrazione in origine su supporto analogico ovvero da essa detenuti, hanno il medesimo valore giuridico, ad ogni effetto di legge, degli originali da cui sono tratte, se la loro conformità all’originale è assicurata dal funzionario a ciò delegato nell’ambito dell’ordinamento proprio dell’amministrazione di appartenenza, mediante l’utilizzo della firma digitale o di altra firma elettronica qualificata e nel rispetto delle regole tecniche stabilite ai sensi dell’articolo 71; in tale caso l’obbligo di conservazione dell’originale del documento è soddisfatto con la conservazione della copia su supporto informatico.
Qui brevemente commentiamo che da un lato sembra che lo scarto dei documenti sia implicitamente autorizzato in violazione dell’art. 21 del D.Lgs. 42/2004 che prevede un provvedimento espresso di autorizzazione da parte degli organi di vigilanza sulle amministrazioni non statali (Soprintendenze archivistiche) e di sorveglianza sulle amministrazioni statali (Archivi di Stato), dall’altro che il legislatore, riferendosi alla firma “qualificata”, si dimentica che ora – com’egli stesso ha novellato con il D.Lgs. 235/2010 – la firma digitale è un tipo di firma elettronica avanzata e non più qualificata[6].
5. Il viaggio di ritorno: dal digitale all’analogico
Se la norma appena commentata si fa carico di disciplinare quello che potremmo definire “il viaggio di andata” del documento, dall’analogico al digitale, è necessario ora soffermarsi sul successivo art. 23 del CAD, che disciplina in sostanza il “viaggio di ritorno” dal digitale all’analogico.
Al primo comma nessuna novità, in quanto coerentemente si recita:
1. Le copie su supporto analogico di documento informatico, anche sottoscritto con firma elettronica avanzata, qualificata o digitale, hanno la stessa efficacia probatoria dell’originale da cui sono tratte se la loro conformità all’originale in tutte le sue componenti è attestata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato.
Nulla di nuovo come si diceva, in quanto passando da documento informatico ad analogico si perde appunto la cosiddetta “catena del valore” della firma digitale, e pertanto è necessario l’intervento di una terza parte fidata che assicuri la correttezza del processo. Diverso, invece, è il secondo comma che introduce una vera e propria novità nel sistema. La norma, infatti, recita:
2. Le copie e gli estratti su supporto analogico del documento informatico, conformi alle vigenti regole tecniche, hanno la stessa efficacia probatoria dell’originale se la loro conformità non è espressamente disconosciuta.
Detta norma disciplina le modalità con le quali effettuare copie ed “estratti”, vale a dire copie parziali, o più esattamente copie parziali destinate ad un preciso utilizzo o più tecnicamente “teleologicamente orientate”[7].
Si pensi a registri contabili dai quali sia necessario estrarre un singolo dato al fine della sua produzione in giudizio, od una serie di dati che complessivamente siano indicativi di una determinata posizione economica, o ancora a un documento i cui i dati devono essere protetti in previsione di una diffusione erga omnes all’albo on–line.
La norma presenta un certo grado di novità perché non è chiarissima la portata del rinvio alle regole tecniche. Sembrerebbe potersi ipotizzare, secondo i primi e più attenti commenti, che tale rinvio possa riferirsi al cosiddetto “contrassegno digitale” nominato al comma 5 dell’art. 23–ter che disciplina in realtà i documenti informatici.
Tale contrassegno dovrebbe riportare in forma di cosiddetti “glifi”, vale a dire segni grafici variamente orientati, il documento in forma digitale e la sua firma. I glifi sarebbero apposti in calce o a margine del testo in chiaro, salvaguardando così in un certo senso la “catena del valore” della firma digitale. Purtroppo, ancora una volta va ribadito che l’attecchimento del digitale non può avvenire ricorrendo continuamente a forme promiscue di validità, ma tranciando quel cordone ombelicale che vede il legislatore in modo pervicace attaccato sincronicamente a forme digitali e a forme analogiche, quando invece è necessario scegliere una delle due in una condizione di diacronia ibrida. In una parola: o digitale o analogico.
Rimane quindi da seguire con attenzione l’emanazione delle regole tecniche, le quali – si badi – non potranno di per se stesse garantire l’autenticità in processi che non siano autonomamente corretti, non avendo nemmeno loro proprietà “magiche e santificanti” come non le ha la firma digitale.
[2] Un esempio di tale modo di considerare la firma digitale è il provvedimento di cui al Decreto Legge 25 giugno 2008, n. 112 – convertito in Legge 6 agosto 2008, n. 133 che ha introdotto la possibilità per alcuni soggetti fungere da intermediari e di depositare al Registro delle Imprese gli atti di cessione di quote di società a responsabilità limitata, a prescindere da qualsiasi controllo di legalità ed autenticità da parte del Pubblico Ufficiale. Tale procedura “semplificata” o meglio deregolamentata si badi bene è possibile solo laddove gli atti di trasferimento siano sottoscritti con firma digitale. Ora senza andare fuori tema non si può non osservare come tale norma sia un assoluto non senso e sia figlia di tale modo di considerare la firma digitale come qualche cosa di arcano che “di per sé” garantisca la bontà e l’autenticità del documento con essa sottoscritto. Delle due infatti una: o si consente il deposito di tutti gli atti – a prescindere dalla sottoscrizione con firma digitale – o non se ne consente nessuno. La firma digitale di per sé è solo una modalità di apposizione, ma di nuovo... non è una magia. Si veda Gaetano PETRELLI, Enrico MACCARONE, Le cessioni di quote di s.r.l. dopo la conversione del d.l. n.112 del 2008, in Notariato n. 5/2008, IPSOA, p. 535.
[3] L’acuta osservazione è di Ugo BECHINI, Sicurezza tra mondo reale e virtuale, intervento al Congresso Nazionale del Notariato, Roma, 3 dicembre 2004.
[4] Questo è l’incipit dell’autorevole monografia di Giusella FINOCCHIARO, La firma digitale. Formazione, archiviazione e trasmissione di documenti con strumenti informatici e telematici, Commentario del Codice Civile Scialoja–Branca, art. 2699–2720, Bologna, Zanichelli, Il foro italiano, Roma, 2000, p.1.
[5] Usiamo il sintagma esemplare informatico, in luogo delle nuove definizioni di copia informatica e di duplicato informatico presenti nel nuovo CAD, perché si tratta di un problema di concettualizzazione e di apparato definitorio sul quale gioverà riflettere a breve con rigore metodologico.
[6] G. Penzo Doria, Alcune disattenzioni redazionali sulle firme elettroniche, «Filodiritto», 2011.
[7] La differenza tra “copia parziale” ed “estratto” secondo i più attenti commentatori è che la “copia parziale” è oggettiva, mentre l’“estratto” più correttamente è una copia parziale teleologicamente orientata, vale a dire nella quale vengono ricompresi solo i dati necessari al suo preciso e concreto utilizzo ed omessi gli altri. Da un punto di vista diplomatistico si tratta perlopiù di una “copia corrotta in autotutela”.