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Qualified immunity

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La drammatica morte di George Floyd e le grandi proteste che a questa sono seguite hanno riaccesso l’attenzione su un problema squisitamente legale che, per la propria tecnicalità giuridica ha finora interessato una ristretta cerchia di osservatori, ma che ora è finalmente al centro del dibattito pubblico (ne abbiamo scritto anche qui).

Si tratta dell’invocazione, indirizzata alla Corte Suprema degli Stati Uniti, di abbandonare la cosiddetta doctrine of qualified immunity, una teoria giuridica che, offrendo una speciale protezione giurisdizionale ai pubblici ufficiali, è finita per diventare una delle cause più rilevanti degli atti di violenza che negli Stati Uniti sono noti come police brutality.

Per comprendere il senso di questa doctrine, è necessario esporne rapidamente la storia. Nel 1871, il Congresso americano adottò il Ku Klux Klan Act, una legge pensata per garantire i diritti civili dei cittadini neri. La norma più importante è quella oggi nota come 42 U.S.C § 1983, in forza della quale è possibile convenire in giudizio per il risarcimento dei danni un pubblico ufficiale che, nell’esercizio delle proprie funzioni, abbia violato un diritto altrui. Il testo della norma fa riferimento a «deprivation of any rights, privileges, or immunities secured by the Constitution and laws»: a partire dagli anni ’60 del secolo scorso, però, con una serie di sentenze, la Corte Suprema ha “riscritto” questo passaggio, aggiungendovi la necessità che il diritto violato fosse «clearly established» dalla sua giurisprudenza. Il primo caso in cui la doctrine in parola fu esposta è Pierson v. Ray (1967): qui, un poliziotto era stato convenuto in un giudizio risarcitorio per aver arrestato una serie di persone applicando una legge poi giudicata incostituzionale per violazione del Primo Emendamento. In quell’occasione, la Corte Suprema (modificando la posizione che aveva fino ad allora adottato) affermò che al poliziotto andava riconosciuta una esimente legale, dal momento in cui aveva agito “in buona fede” e con “probable cause” (applicando cioè una legge vigente). In poco tempo, la Corte portò alle estreme conseguenze questa doctrine, fino a che – in Harlow v. Fitzgerald (1982) – essa statuì che ciò che rilevava non era la circostanza (soggettiva) della buona fede del poliziotto che avesse agito confidando nella legalità della propria condotta, ma «the objective reasonableness of an official’s conduct, as measured by reference to» (come già ricordato) «clearly established law».

È del tutto evidente il senso dell’intervento in parola: preoccupata che un’esposizione “eccessiva” al rischio di controversie giudiziarie potesse influenzare negativamente il rendimento delle forze di polizia, la Corte Suprema ha voluto limitare la portata applicativa del § 1983, nel tentativo di proteggere i pubblici ufficiali che «make reasonable but mistaken judgments about open legal questions» (Ashcroft v. al-Kidd [2011]). Benché lo standard del «clearly established» sembri, astrattamente considerato, piuttosto ragionevole, questo è diventato uno scudo per un’impunità troppo vasta e ingiustificata. Difatti, un attore che voglia avere successo nella propria richiesta di risarcimento del danno è costretto a provare che – perché la “legal question” non sia considerabile “open” – esista un precedente vincolante che presenti identici elementi di fatto e di diritto a quelli del caso che lo interessa direttamente. Non sfugge a nessuno che, specie in contesti così convulsi come sono quelli che richiedono l’intervento delle forze dell’ordine, trovare una situazione di fatto e di diritto che si ripeta “identica” è impossibile. Come ha notato Clark Neily, giurista e avvocato presso il Cato Institute, «the result of this aberrant legal doctrine is that police may shoot, beat, kill, and fatally neglect people in their custody, practically at will» (su questo sito, promosso dal Cato, è possibile trovare ulteriori informazioni).

Un paio di esempi per comprendere fino in fondo la verità di quanto stiamo scrivendo. Nel 2019, la Corte d’Appello per il Nono Circuito ha respinto una richiesta di risarcimento danni nei confronti di alcuni poliziotti accusati di aver rubato 225.000 dollari durante una perquisizione: secondo il Collegio giudicante, benché il fatto fosse sicuramente «moralmente riprovevole», esso era protetto dalla doctrine of qualified immunity, perché il Nono Circuito non aveva mai precedentemente affrontato casi simili e – di conseguenza – non poteva dirsi «clearly established» il diritto di non essere “derubati” durante una perquisizione. Ancora, sempre nel 2019, la Corte d’Appello per l’Undicesimo Circuito ha respinto una richiesta di risarcimento danni nei confronti di un poliziotto che, mirando a un cane, ferì alla gamba un bambino: benché quella stessa Corte ritenne che la condotta in esame fosse stata del tutto imperita, si concluse che al poliziotto dovesse essere riconosciuta immunità perché non c’era un precedente giurisprudenziale dal quale potesse emergere come «clearly established» il diritto di non essere ferito in un contesto simile.

Per la doctrine of qualified immunity, però, potrebbe presto suonare la campana a morto. Essa è, infatti, criticata con sempre maggior vigore tanto dalla “destra” quanto dalla “sinistra” giuridiche (usiamo queste assai insoddisfacenti etichette solo per sottolineare la trasversalità di queste disapprovazioni).

Due giudici della Corte Suprema usualmente considerati agli antipodi, Justice Thomas e Justice Sotomayor, hanno espresso il desiderio di abbandonare questa teoria. Justice Thomas, in particolare, impiegando la metodologia originalista che gli è propria, ha messo in rilievo come l’attuale giurisprudenza della Corte Suprema sia in contrasto con il significato “originario” del § 1983, nonché con l’intenzione del legislatore storico (consigliato, in proposito, il fondamentale saggio di William Baude): d’altronde, decidendo che i pubblici ufficiali potessero essere responsabili solo in caso di violazione di diritti «clearly established», i giudici hanno sostituito il loro personale bilanciamento tra le opposte esigenze della tutela dei cittadini e dell’efficacia dell’azione del law enforcement a quello adottato dal Congresso, così arrogandosi un potere che non appartiene loro. Dal canto suo, Justice Sotomayor ha affermato che «by sanctioning a “shoot first, think later” approach to policing, the Court renders the protections of the Fourth Amendment hollow».

Si sarebbe in grave errore se si pensasse che una questione di (sola) riparazione economica del danno subito sia cosa troppo infima per influenzare il comportamento delle forze dell’ordine. Nel sistema di common law, infatti, le cause civili (e, dunque, le condanne risarcitorie – spesso elevatissime, anche grazie al meccanismo dei punitive damages) sono strumenti efficacissimi per costringere i convenuti (in questo caso, i vari corpi di polizia) a modificare i propri comportamenti. Fintantoché – per effetto della doctrine of qualified immunity – i pubblici ufficiali saranno considerati responsabili per i loro atti e fatti illeciti in base a uno standard molto più “generoso” rispetto al comune cittadino, mancherà un incentivo importante per esercitare quella diligenza, quella prudenza e quella perizia che il loro incarico impone.

Non è detto, purtroppo, che l’abbandono della doctrine of qualified immunity da parte della Corte Suprema possa evitare il ripetersi di casi drammatici come quello di George Floyd: è certo, però, che si tratterebbe di un passo avanti importante nella direzione di una maggiore accountability delle forze dell’ordine nel loro complesso e di una distinzione più precisa tra chi compie, coscienziosamente, il proprio dovere e chi non lo fa