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Quando un bambino viene ospedalizzato per Covid

Viaggio tra le corsie di un ospedale pediatrico in Texas. Un articolo di Rachel Pearson sul «New Yorker».
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Riportiamo in traduzione un articolo del «New Yorker» della scorsa settimana. L’autrice, Rachel Pearson, è medico pediatra presso l’ospedale di San Antonio, in Texas, e ci offre uno spaccato intenso sul fenomeno – poco in rilievo, anche in Europa – dell’ospedalizzazione di giovani e bambini a causa del Covid-19.

 

"La variante Delta ha scatenato un picco di casi di coronavirus tra i bambini in Texas. Ma il rischio complessivo tra i minori rimane basso.
 

Quando un bambino viene ospedalizzato per Covid

I dati più attendibili che abbiamo al momento ci dicono che il tasso di mortalità pediatrica causata dalla variante Delta è simile a quello delle precedenti – e cioè, estremamente rara.

Una volta, molto tempo fa – eravamo agli inizi del 2020 – una specialista di prevenzione delle infezioni venne all’incontro mattutino per controllare i dispositivi di protezione individuale con i pediatri dell’ospedale di San Antonio, dove lavoro.

Mise una veste, dei guanti, una mascherina FFP2 e una visiera protettiva sul tavolo di fronte a noi, poi chiamò un volontario a fare una prova. Questo accadeva quando i report mattutini erano incontri dal vivo, con tacos per colazione. Sedevamo vicini, gomito a gomito, ascoltando una relazione sui protocolli di nuove terapie per malati pediatrici, o discutendo di un caso impegnativo accaduto di recente. Le nostre terrificanti facce umane erano esposte all’aria comune, le riempivamo di tacos e ci respiravamo come se queste cose – i tacos, respirare – non rappresentassero minacce alla nostra sopravvivenza.

Ora, è chiaro, non ci sono grandi raduni in ospedale, non c’è cibo condiviso, e ho tirocinanti con cui ho lavorato a stretto contatto per più di un anno che non hanno mai visto la parte bassa del mio viso. Mi mancano i tacos e gli incontri; cinquanta teste brillanti che pensano tutte insieme a un bimbo malato è, credo, una delle cose più belle della medicina.

Ma mi piace anche il piccolo shock del mistero che si rivela, quando qualcuno si toglie la mascherina per bere e io vedo la forma del suo mento.

All’inizio della pandemia, gli infermieri o i tecnici stazionavano fuori dalle sale covid per controllarci mentre vestivamo e svestivamo la P.P.E.[1] (adoro l’espressione “vestire e svestire”, mi fa sentire una duchessa del virus respiratorio). Anche in tempi di non-pandemia, i pediatri negli ospedali indossavano spesso la P.P.E. – i nostri pazienti tendono a urlare, piangere o vomitare in ogni momento, producendo molte particelle nebulizzate che vagano nell’aria. E i virus respiratori sono stati per lungo tempo ragione frequente di ricovero per persone con nasi e polmoni di piccole dimensioni.

Il virus sembrava paranormale, quando si è presentato. Ero incinta, e i miei colleghi mi hanno risparmiato le visite a pazienti affetti da coronavirus. Li hanno visitati al mio posto, come se stessero rischiando la vita per me e il bambino. Lo hanno fatto senza mai farmi sentire in colpa; ero e rimango grata per essermi specializzata in un settore in cui avere un corpo di donna o un corpo incinta non fa di te un medico minore. Certo, pazienti e colleghi sono impazziti per me quando la pancia ha cominciato a crescere; covavo tracce di vita durante una pandemia. Ho partorito mio figlio, Sam, in quello che pensavamo sarebbe stato il culmine della crisi. Il giorno in cui Sam è nato, Bexar County[2] aveva annunciato 946 nuovi casi di covid e 24 nuovi morti. (Ovviamente, ci sbagliavamo sul picco; la provincia ha raggiunto più di mille casi lo scorso agosto). Quando sono tornata a lavoro dal congedo di maternità e ho cominciato a vedere pazienti affetti da coronavirus, ho provato un trasporto speciale per i tecnici e le infermiere che mi monitoravano mentre mi vestivo e svestivo. Chinavo la testa uscendo da una sala covid perché un’altra donna – quasi sempre, era una donna – potesse togliermi la visiera protettiva, disinfettarla con un CapiWipe[3], e lasciarmi andare. Mi sono sentita accudita e protetta, proprio come quando le infermiere mi avevano assistito durante il parto di Sam.

Ora sappiamo che il sars-CoV-2 non è paranormale – non è un miasma che fluttua per i corridoi, o uno spiritello che s’intrufola nella P.P.E. Se hai l’attrezzatura giusta, e la usi correttamente, dovresti essere al sicuro. Io, almeno, mi sento più sicura in ospedale che in un alimentari.

Adesso il personale sanitario è in gran parte vaccinato; adesso, sguscio dentro e fuori dalla P.P.E. senza che nessuno stia lì a controllare. Esco da una stanza in cui l’aria è impregnata di coronavirus e non mi preoccupo che viaggi con me. Non sei più una novità ora, vero, coronavirus?

Ad oggi, ci sono molte sale covid negli ospedali pediatrici di tutta la nazione, soprattutto qui in Texas. Dopo che la variante Delta ha cominciato a circolare, il numero di bambini ricoverati con il covid si è quasi quintuplicato.

Indugio in queste sale, a volte, solo per conoscere i miei pazienti. All’inizio, sarebbe stato profondamente stupido – rischiare l’esposizione al virus solo per sapere cosa vuole fare questa teenager finite le superiori, o se quel bimbo che va all’asilo ha un animale preferito. (Delfini e ghepardi rimangono popolari tra gli estroversi; i gatti di casa sono i preferiti dai timidi). Non rimpiangerò le scelte che ho fatto o le cure che ho dato agli altri se verrò contagiata, ma non mi darei pace se dovessi trasmettere il coronavirus al mio bambino, non vaccinato.

In Texas la variante Delta, estremamente contagiosa, è arrivata a conquistare il panorama epidemiologico poco prima che i bambini in età scolastica ritornassero alla didattica in presenza. Il governatore Greg Abbott si è battuto per impedire ai funzionari della salute pubblica di imporre l’obbligo della mascherina, anche in spazi al chiuso affollati come le scuole, dove si sono riuniti folti gruppi di americani non vaccinati.

L’Accademia Americana dei Pediatri ha rilevato che i bambini costituiscono al momento una percentuale significativamente più alta di casi di coronavirus accertati rispetto alle fasi precedenti;

durante l’intero corso della pandemia, il 15,7% dei casi covid era registrata tra i bambini, ma a metà settembre quasi il 26% dei nuovi diagnosticati era in questa fascia d’età. Il 21 settembre, il D.S.H.S.[4] del Texas ha registrato 253 bambini ospedalizzati con il covid, rispetto a un totale di 11600 pazienti ospedalizzati per lo stesso motivo presenti in tutto lo stato.

Le cure ospedaliere per i bambini non sono diverse da quelle riservate agli adulti. Molte delle risorse che usiamo sono le stesse – un bambino di nove chili e un uomo di novanta potrebbero usare lo stesso tipo di respiratore, ad esempio. Le macchine per la dialisi, che potrebbero pulire il sangue di un bambino di sette anni come quello di suo nonno, sono molto richieste. Specializzandi in pediatria, infermieri e pneumologi vengono impiegati a tappeto, durante i picchi, per prendersi cura degli adulti.

Non conosco alcun caso di bambini americani morti di covid per mancanza di risorse tecniche negli ospedali; anche ora, 114 posti letto in reparti di terapia intensiva gratuiti sono disponibili in Texas. Ma bisogna notare che quando gli ospedali si riempiono di adulti, anche i bambini possono infettarsi.

Al di sotto dei diciotto anni, il rischio di venire ospedalizzati dopo aver contratto il sars-CoV-2 è più alto tra i bambini e gli adolescenti che tra i bambini delle elementari. Tra i giovani, gli adolescenti hanno più probabilità di morire a causa del covid-19.

I pazienti che io e i miei colleghi abbiamo in cura ricadono all’incirca in quattro gruppi.

C’è un piccolo gruppo di bambini malati che ha bisogno di ossigeno. (Spesso hanno il covid e un altro virus, o due simultaneamente, oppure hanno avuto più di un virus di recente, tanto che il nostro test può ancora rilevarli). C’è qualche adolescente con un’insufficienza respiratoria prolungata: hanno bisogno di ossigeno per giorni o settimane, da diminuire a piccole dosi finché non riescono a camminare per sei minuti interi dentro la stanza senza che i livelli di ossigeno calino, quindi li mandiamo a casa. Ci sono poi bambini venuti in ospedale per qualcos’altro e che hanno scoperto così di essere positivi al covid. Infine, arrivano bambini con complicazioni da covid non usuali, come ictus, emboli polmonari, oppure con la mis-C – la pericolosa sindrome infiammatoria che si verifica dopo l’infezione in circa uno su 3200 bambini. Il D.S.H.S. ha confermato 231 casi di mis-C in Texas. Prevediamo un aumento in autunno, quando i bambini che sono stati contagiati durante il picco della variante Delta svilupperanno le complicazioni post-infettive nelle settimane seguenti.

Quello che non stiamo vedendo, grazie a Dio, è la morte dilagante cui hanno assistito i nostri colleghi che lavorano con gli adulti. A livello nazionale, 544 morti pediatriche per covid sono state riportate dal C.D.C.[5] dall’inizio della pandemia.

La morte per coronavirus negli adulti si è riservata cliché cupi e strazianti: le poche, ultime parole con la famiglia prima dell’intubazione, spesso scambiate tramite iPad; gli aggiornamenti quotidiani per telefono dicendo che nulla è cambiato, finché all’improvviso tutto cambia; il fatto che non morirai in assoluta solitudine perché l’infermiere o il dottore o lo pneumologo saranno lì e ti terranno la mano mentre te ne vai. La morte pediatrica per covid non ha simili luoghi comuni; è rara abbastanza da farci tremare, come quasi sempre fa la morte di un bambino.

Tutti i pomeriggi, in ospedale, la mia squadra potrebbe essere chiamata in pronto soccorso per visitare un bambino con problemi respiratori – e questo è in gran parte ciò che i pediatri in ospedale supervisionano, tanto che i piccoli affetti da coronavirus non si sentono così diversi dagli altri.

Quando un bambino arriva in pronto soccorso, i genitori hanno fatto più o meno tutto quello potevano a casa: un misto di aspiratore, paracetamolo, bagni caldi, bagni freddi, umidificatori, erbe, preghiere, e cristalli, a seconda della famiglia. Ma la bambina aveva smesso di bagnare i pannolini, o non riusciva a riprendere abbastanza fiato per mangiare o dormire, o semplicemente aveva un aspetto terribile, quindi l’hanno trascinata qui.

Rimarrò ferma all’ingresso e guarderò la bambina per un po’. Potrebbero esserci test di laboratorio, raggi X o parametri vitali da esaminare. Ma, il più delle volte, saprò se avrà bisogno di me solo continuando a guardarla – la frequenza del respiro, lo sguardo terrorizzato nei suoi occhi, il modo in cui scrolla le spalle o con cui la testa sobbalza leggermente a ogni inalazione.

Rimanendo nella stanza, chiederò ai genitori di parlarmi della figlia, di cosa le piace. I dettagli riguardo i bimbi piccoli sono dolcemente generici – sorride molto, o è molto testarda, oppure sta sempre dietro ai fratelli più grandi. Chiedo dei loro nomignoli, e vengo a sapere che un bambino si fa chiamare Papi Chulo e un’altra Regina. Annuirò dicendo: “Ok, è quello che speriamo di vedere. Potrebbe volerci un po’, ma speriamo di riavere il piccolo Papi Chulo qui con noi, a rincorrere i suoi fratelli”.

Il coronarivus è particolarmente spaventoso, per i genitori. (Mio figlio ha dovuto fare il test, una volta, e ho pianto per tutto il tragitto fino alla clinica. Era negativo – aveva la rosolia, e per una settimana il suo nomignolo è stato Signor Macchiette).

Con una frequenza leggermente più alta rispetto a quello che ho visto in altri ricoveri, i genitori chiedono se il proprio bambino morirà. La tentazione di dire no, di stringere loro le mani e giurare che il bambino vivrà è forte, ma non lo faccio. Quando il covid in un bambino si è aggravato tanto da richiedere l’ospedalizzazione, i dati attuali suggeriscono che circa uno su cento non sopravvivrà.

Temporeggio un poco, e dico: “La maggior parte dei bambini della sua età con la polmonite da covid migliora con l’aiuto di ossigeno e liquidi. La monitoreremo con attenzione. Se non migliora, o se si aggrava, parleremo con i nostri dottori della terapia intensiva e ci faremo aiutare nell’assisterla”.

Trasmetto speranza e sicurezza, ma non faccio nessuna promessa.

O almeno, non faccio la promessa che vogliono. Piuttosto, prometto di essere onesta. Prometto che la mia squadra è in ospedale 24 ore al giorno, di solito in quella stanza in fondo al corridoio. Prometto di prendermi cura di ogni bambino come vorrei che si prendessero cura del mio Sam – il mio Squanch, il mio piccolo Samwich. Sorride spessissimo, e sta sempre a rincorrere il gatto. Come ogni americano sotto i 12 anni, non risulta idoneo al vaccino anti-covid.

Tra un quarto e un terzo dei bambini ospedalizzati con il covid finisce in terapia intensiva, ma meno del 10% finisce attaccato a un respiratore.

I dati migliori che abbiamo ci dicono che il tasso di mortalità pediatrica per la variante Delta è simile a quello delle varianti precedenti – cioè, estremamente rara.

Ma le promesse di sopravvivenza portano sfortuna; sono in parte desideri, e, secondo le regole magiche dell’ospedale, dirli ad alta voce rischia di non farli avverare.

Tuttavia, i desideri aleggiano spesso tra queste mura. I genitori desiderano strappare il figlio alla malattia; sperano di prendere il posto di un bimbo sofferente. Non c’è una volta in cui non scoppio in lacrime quando mi capita di vedere un genitore chino sulla culla dell’ospedale che dice: “Avrei dovuto esserci io, non lei”.

In parte perché lavoro in traumatologia, molto di quello che vedo ogni giorno è prevenibile: ferite d’arma da fuoco, ustioni, bambini scagliati fuori dalle automobili. A volte, infortuni pediatrici che cambiano la vita per sempre sono la conseguenza di una sciocchezza palese, come dei genitori che permettono al bambino di 6 anni di guidare il golf cart. A volte però è questione di un attimo: la nonna mette la minestra bollente troppo vicino al bordo del bancone, in cucina, e la bambina se la rovescia tutta in faccia.

Le infezioni pediatriche da coronavirus sembrano stare da qualche parte in mezzo tra questi due estremi: prevenibili in un mondo ideale, ma difficili da evitare anche per i genitori più scrupolosi, dopo che le amministrazioni statali hanno legato le mani agli ufficiali sanitari.

Molti dei genitori che ho visto ultimamente al capezzale di bambini contagiati sono loro stessi infetti. Hanno la testa dolorante, tossiscono. Si tirano su la mascherina quando entro nella stanza – il che è molto educato, da parte loro. Non sappiamo ancora in che percentuale i bambini stiano contraendo il covid da membri della famiglia non vaccinati (o quanti adulti o bambini lo stiano prendendo a scuola da bambini non vaccinati). Ma sappiamo che la casa – il luogo che dovrebbe essere più sicuro, dove le teste si avvicinano e si dorme aggrovigliati – è il posto migliore per diffondere il coronavirus.

Qualche volta i genitori chiedono cosa avrebbero potuto fare di diverso. Mantengo la promessa e sono onesta, anche quando percepisco che mi si sta chiedendo un’assoluzione. Ci sono delle cose che avrebbero potuto fare: circondare i propri bambini di adulti vaccinati, indossare le mascherine, mostrare cautela nel riunirsi in gruppo.

Ma c’è l’ignoranza sistemica nel mettere ancora più a rischio alcuni bambini, come c’è la semplice virulenza: apriamo la porta per un istante e l’assassino ci passa attraverso con una spallata. Nel momento in cui un bambino sta lottando per respirare, la gran parte dei genitori è già andata molto più avanti di me, nell’auto-recriminazione. Io cerco non farli sentire ancora peggio.

Presto ci sarà un altro modo di proteggere i più piccoli: quest’anno, il vaccino anti-covid sarà con ogni probabilità approvato per i bambini dai cinque anni in su. Amo essere una pediatra in ospedale, ma nessuna famiglia vuole aver bisogno delle mie cure. Vaccinare i vostri figli è un modo per assicurarvi di non incontrarci mai.

Vado a casa quando è stato fatto il conto dei bambini, e la mia squadra di specializzandi rimane tutta la notte a prendersene cura. Al mattino, posso arrivare e trovare uno dei miei adolescenti finalmente senza ossigeno; allora avrò un sorrisetto stampato in faccia lungo tutto il corridoio, mentre indosso la P.P.E. (“Alla grande”, dirà, quando gli chiederò come si sente). Potrei arrivare e togliere l’ossigeno a Papi Chulo, oppure alzarne un pochino il livello. Ora siamo molto indaffarati, ma fortunatamente non è un periodo così diverso dagli altri, in un ospedale pediatrico. Tutti abbiamo bisogno di un po’ di aiuto per respirare.”

 

[1] Personal protective equipment, ossia l’insieme dei dispositivi di protezione individuale.

[2] Contea dello stato del Texas, U.S.A.

[3] Marca di salviette disinfettanti.

[4] Il dipartimento per la salute pubblica dello stato del Texas.

[5] Centro per il controllo e la prevenzione delle malattie.