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Riflettere sulla morte: finitezza, autenticità e (post?) umanità

Martin Heidegger
Martin Heidegger

Il tema della morte, caro alla filosofia sin dagli inizi, è uno dei temi più antichi nella storia della riflessione umana, tuttavia nonostante alla secolare riflessione filosofica si affianchino ora i molti studi di antropologia culturale, tanatologia, psicologia e sociologia, essa rimane un argomento di difficile trattazione e di ancor più ardua divulgazione, principalmente a causa di due opposti motivi.

Il primo è legato al rifiuto di trattare la morte e alla tendenza a rimuoverla perché perturbante, fastidiosa e spiacevole.

Il secondo è invece legato all’attrazione morbosa che molti provano per essa, attrazione che a volta sfocia in una macabra fascinazione anziché in un serio interesse per il tema.

Se la morte è sempre stata rimossa ed allontanata dalla sfera della vita ordinaria, tanto che i cimiteri sono uno degli esempi più prototipici di eterotopia foucaltiana, è tuttavia vero anche che al giorno d’oggi tale tema è sempre più marginalizzato nella società moderna, come ben testimonia Norbert Elias nel suo La solitudine del morente.

La morte, e la mortalità, sono quindi rimosse dalla sfera pubblica, rendendole sempre più distanti dalla vita quotidiana.

Non sarà però nostro interesse qui riabilitare la discussione sulla morte nell’ambito della discussione politica, sociale e religiosa contemporanea: le osservazioni appena riportate servono qui in realtà ad illuminare un altro fenomeno tipicamente contemporaneo, su cui verterà la nostra trattazione.

Da tempo ormai, alcuni pensatori, spesso di formazione tecnico-scientifica ma non di rado filosofi, sostengono la possibilità, la liceità e la necessità di superare la presente condizione umana per ottenere uno statuto post-umano o in altri casi transumano.

Se il post-umanesimo mira soprattutto a spodestare l’essere umano dalla posizione ontologica privilegiata che esso si è riservata nella storia, non necessariamente predicando un superamento tecnologicamente indotto dell’attuale condizione umana, il transumanesimo non solo prevede tale superamento (condiviso anche da molti pensatori post-umanisti), ma mira ad individuare anche molti degli strumenti tecnologici per poterlo raggiungere, auspicando “miglioramenti” umani tramite nuove tecnologie emergenti (specialmente editing genetico, biohacking e intelligenza artificiale).

In quest’ottica, la morte è vista da molti pensatori transumanisti come una condizione passeggera, retaggio della nostra precedente umanità, un fenomeno del passato che non avrà alcun luogo nello stadio successivo della nostra evoluzione.

Per quanto sembrino, e spesso siano, idee fantascientifiche, le teorie transumaniste raccolgono ormai da tempo un discreto ed appassionato seguito.

Penso, insieme a molti altri, che le rivendicazioni del transumanesimo siano di interesse indipendentemente dalla loro realizzabilità, in quanto espressione peculiare di sentimenti ed ideali di ampi e peculiari settori della popolazione.

Sarà quindi proprio l’approccio transumanista alla mortalità ad essere soggetto della nostra presente riflessione.

Tale soggetto potremmo chiamarlo “negazione transumanista della morte”, procedendo però con cautela, considerate alcune difficoltà definitorie che insorgono: innanzitutto, il movimento transumanista è diversificato ed eterogeneo al suo interno, ospitando una pluralità di confessioni religiose, posizioni politiche, affinità ideologiche e riflessioni filosofiche nell’alveo del movimento stesso.

Inoltre, non tutti i transumanisti negano la morte come attributo del transumano: alcuni riterrebbero senz’altro opportuno ottenere uno stato di immortalità futura, ma non lo considerano un obiettivo raggiungibile né a breve né in futuro.

Altri ancora invece ritengono che la privazione della finitezza renderebbe l’uomo mutilato di una sua componente fondamentale.

Come vedremo, proprio quest’ultima posizione verrà da me sviluppata nella trattazione.

Nella sua opera del 1927 intitolata Essere e tempo, il filosofo tedesco Martin Heidegger mise a tema il concetto di autenticità della vita, ovvero di una vita vissuta appieno facendosi consapevolmente carico della propria individualità e libertà, senza addurre a giustificazione del proprio operato costumi diffusi, convenzioni generalizzate e generalizzazioni impersonali di senso comune.

A fondamento di questa “vita autentica” stava la presa di coscienza della propria finitezza: l’uomo è un essere-per-la-morte, dotato di un tempo limitato di vita che lo separa dalla sua nascita alla sua morte. Accettare la propria finitezza, unica fonte di senso della sua esistenza, è presupposto necessario della vita autentica.

Il tema non è affatto nuovo: già Seneca paragonava gli uomini che non riflettono sulla morte a coloro che si accorgono del passare del tempo quando cadono gli ultimi granelli di sabbia della clessidra, come se essi non scorressero via inesorabilmente ogni secondo.

Tuttavia, la riflessione di Heidegger va oltre l’antico monito del cotidie mori.

Se Platone riteneva che filosofare fosse imparare a morire, Heidegger ritiene che la morte dia senso alla vita umana, obbligando ciascuno di noi a dare significato alle proprie azioni nel tentativo di valorizzarle.

Riprendendo un termine che il filosofo americano John Dewey usa nella sua teoria estetica, essa sarebbe una esperienza: a differenza delle varie esperienze, che fluiscono indistinte nel vissuto personale, fare una esperienza implica un vissuto delimitato, soddisfacente, immaginato, ricercato e portato a termine in accordo con un progetto prestabilito.

Possiamo dire quindi che per Heidegger la finitezza umana obbliga l’uomo a fare della sua vita una esperienza dotata di senso, delimitata e progettata, in opposizione ad un vissuto senza cesure, fluido ed ininterrotto.

Ovviamente, come detto, egli può vivere inautenticamente appoggiandosi a soluzioni già approntate da altri e accettate in accordo con convenzioni diffuse.

Tuttavia, ciò non toglie che la ricerca di senso, anche quando frustrata o sopita con soluzioni inautentiche, sia meno importante per l’uomo.

Lo storico della filosofia Pierre Hadot ritiene che ci sia una diversità fondamentale nel concepire la finitezza e la morte nel pensiero antico e in quello moderno: gli antichi la accettavano e la vedevano con disincanto e serena accettazione, mentre l’uomo moderno sembra associare alla propria finitezza inquietudine, non accettazione e timore.

Proprio Heidegger è secondo Hadot il più peculiare rappresentante di questa tendenza moderna all’associazione tra morte ed angoscia.

Questa osservazione è ancora più interessante se da Heidegger passiamo a riflettere sulle posizioni transumaniste. Esse sono la versione per così dire “parossistica” del rifiuto della morte che Hadot attribuisce all’uomo moderno.

La morte è vista come fenomeno biologico, naturale, ma non immutabile: in un’ottica evoluzionistica, la selezione naturale avrebbe dato all’uomo i mezzi per trascendere la propria stessa condizione di essere biologico, naturale e mortale.

Il fondo di verità in queste teorie è palese e noto da tempo: già Max Scheler, seguito da Arnold Gehlen ed Helmuth Plessner pur con diversi esiti filosofici, aveva definito l’uomo come Neinsagende tier, ovvero “l’animale che dice di no”, intendendo con questo la sua capacità di riconoscere in sé gli istinti naturali e ad essi opporsi.

Ancora prima era stato Georg Simmel a teorizzare il fatto che la vita fosse in sé sempre già più-che-vita, ovvero che da essa sorgessero “forme” culturali (come il linguaggio, la religione, le istituzioni sociali, i sistemi filosofici) che una volta create risultavano però irriducibili ai semplici bisogni vitali.

Quindi, l’idea che la nostra storia evolutiva ci abbia portato ad essere “esonerati”, per dirla con Gehlen, da alcune componenti della nostra animalità non è originale.

Quello che emerge è invece una peculiare avversione per la condizione umana stessa all’interno del pensiero transumanista, una specie di “coscienza infelice” che l’uomo prova confrontandosi con la macchina, o meglio ancora l’intelligenza artificiale: essa lo pone davanti ad un modello di “vita” apparentemente perfetto nella sua asettica efficienza.

Come evidenziato da molti, il transumanesimo è infatti un’utopia razionalista, che combina in sé una millenaria tradizione di “disprezzo per la carne”, ovvero di svalutazione della corporeità rispetto al ben più nobile “spirito”, declinato a seconda delle situazioni come anima o ragione.

Come nella teoria feuerbachiana, anche qui si vuole salvare la parte migliore della propria umanità ipostatizzandola, dandole forma ideale e non corrotta dalla propria finitezza.

Il transumanesimo non ipostatizza in Dio la sua idea di perfezione: esso la ripone nella macchina.

L’analogia tra divinità e macchina è particolarmente pregnante nel caso del Singolitarianesimo, filone transumanista che si adopera per il raggiungimento di una “singolarità tecnologica”, ovvero la creazione di un computer il cui funzionamento sarebbe così complesso da risultare incomprensibile all’uomo.

Avversata da chi la ritiene una catastrofe, vista come soluzione salvifica dai suoi fautori, la singolarità tecnologica, annunciata con toni quasi profetici da transumanisti come Ray Kurzweil è decisamente simile ad un messianismo abramitico, riproducendo fedelmente le aspettative escatologiche delle religioni monoteistiche tradizionali.

Operando oltre ogni sorta di comprensione umana, l’intelligenza artificiale giunta alla singolarità apparirà, per ammissione degli stessi singolaritariani, del tutto simile ad una divinità.

Da essa ci si aspetta la risoluzione dei problemi umani e la creazione di un mondo privo di mali e sofferenze.

In tutto questo, la morte non può avere alcun ruolo.

Come le divinità e le macchine, anche l’uomo ormai approdato allo stato transumano non potrà essere altro che immortale. Tuttavia, riprendendo gli spunti heideggeriani iniziali, si ha la forte impressione che tale ideale privi l’uomo di qualcosa.

Mi sia qui permesso un episodio autobiografico portato ad esempio.

Qualche tempo fa mi è capitato di recarmi in una casa di riposo per anziani e di incontrare lì una donna centoduenne.

Congratulatomi con lei per la sua notevole età, mi sono visto rivolgere espressioni di sconforto: l’anziana donna, ormai in condizioni di salute non più ottimali e rimasta sola, non manifestava alcun orgoglio per la sua longevità, dichiarando mestamente che la sua età migliore era ormai passata.

Questo episodio, comune a molti, si salda bene con la riflessione di Heidegger sulla finitezza.

Essa è la garante della sensatezza della nostra vita: una volta esauritasi la spinta a darvi senso, come capita in età avanzata, l’esistenza umana perde di urgenza.

Immaginiamo ora un futuro scenario compiutamente transumanista: gli uomini vivono esenti da malattie, necessità corporee, sofferenza fisica e indigenza.

Hanno anche smesso di morire.

Ma cosa rende la loro vita ricca o interessante, o dotata di senso?

L’edonismo soggiacente all’etica transumanista è frutto di una concezione della vita improntata ad un’antropologia filosofica che scredita pesantemente la corporeità ma che non vede oltre ad essa, e quindi non considera la morte se non come accidente biologico.

Come tale, esso va eliminato insieme ad ogni forma di sofferenza fisica, corporea e materiale.

Ma la morte ha anche un significato esistenziale e morale, che il transumanesimo non considera.

La sua rilevanza in quanto soglia manifesta e limite dell’esperienza umana è del tutto irriducibile al fenomeno biologico.

Proprio questo aspetto della morte è stato quello a lungo considerato centrale nella riflessione filosofica.

Una cosa che sappiamo da molto tempo è infatti che l’uomo è l’unico animale che sa di dover morire. Alcuni filosofi, come Pascal, hanno detto che nessun uomo può pensare alla morte senza esserne turbato (e per questo nessuno lo fa), altri, come gli stoici, hanno fatto della meditazione sulla morte un principio fondamentale della loro dottrina.

C’è anche chi, come Epicuro, ha negato alla morte qualsiasi connotazione negativa.

Per Platone, come detto, filosofare è addirittura imparare a morire e per Heidegger riflettere sulla morte non è contrario alla vita, ma è il presupposto per la nostra consapevolezza di essa e la sua autenticità, dunque saper morire vuol dire saper vivere.

Anche in epoca contemporanea, filosofi come Massimo Pigliucci, proponente uno stoicismo moderno, hanno opposto alla proposta transumanista una rinnovata meditazione sulla morte come pratica filosofica.

Ridurre la morte a inconveniente biologico, aggirabile tecnologicamente, vuol dire privarla dell’importanza che essa ha rivestito nella riflessione filosofica.

In un contesto di rimozione della morte dalla nostra quotidianità, il transumanesimo è sì leggibile come esempio estremo di negazione della morte ma è al contempo la più visibile reazione di protesta da parte di quanti la avvertono oggi come un problema, a mostrare come tale problematica sia ancora vividamente presente quale elemento della condizione umana.

Bibliografia:

Norbert Elias, La solitudine del morente, Il Mulino, 2011

Martin Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, 2005

Lucio Anneo Seneca, Lettere a Lucilio, Rizzoli, 1974

Pierre HadotLa filosofia come modo di vivere, Einaudi, 2008

Maria Teresa Pansera, Antropologia filosofica, Mondadori, 2007

Blaise Pascal, Pensieri,Torino, Einaudi, 1962

Epicuro, Lettera sulla felicità, Einaudi, 2014

Massimo Pigliucci, Come essere stoici. Riscoprire la spiritualità degli antichi per vivere una vita moderna, Garzanti, 2017