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Sanità - Cassazione: l’incompleta tenuta della cartella clinica non può tradursi in uno svantaggio per il paziente

Con la Sentenza in commento, la Corte di Cassazione ha stabilito che l’imperfetta compilazione della cartella clinica da parte dei sanitari non può tradursi in un pregiudizio, sul piano processuale, per il paziente (anziché per la parte cui il difetto di annotazione è imputabile), traducendosi in un inammissibile “vulnus” al criterio che onera la parte convenuta della prova liberatoria in merito all’esattezza del proprio adempimento.

Una coppia, in proprio e in qualità di genitori esercenti la potestà sulla figlioletta neonata, aveva convenuto in giudizio la Azienda Sanitaria Locale e due medici della struttura, per vedersi riconoscere il diritto al risarcimento dei danni derivanti dalle lesioni subite della minore in occasione del parto (avvenuto presso la Struttura Ospedaliera), la quale aveva riportato una tetraparesi e una grave insufficienza mentale causate da asfissia perinatale.

Il Tribunale di primo grado rigettava la domanda attorea, con sentenza poi confermata dalla competente Corte di Appello.

I genitori prospettavano la responsabilità dei sanitari e della struttura ospedaliera per non aver prestato alla neomamma un’adeguata assistenza al parto e per non avere assicurato alla bambina un idoneo trattamento post-natale. A fronte di tale enunciazione, la Corte di Appello aveva però ritenuto che non poteva ascriversi a responsabilità dei sanitari la mancata effettuazione del tracciato cardiotocografico in luogo della mera auscultazione del battito cardiaco fetale (giacché le condizioni della mamma non ne comportavano la necessità e, comunque, il tracciato di controllo non avrebbe potuto rilevare la presenza dell’asfissia) ed aveva parimenti affermato che "la fase post- natale fu gestita con corretta predisposizione di diagnosi e terapie nel momento in cui si evidenziò il peggioramento della bambina", rilevando altresì che: "il trasferimento al reparto di rianimazione fu disposto con tempistica ragionevole, nè un suo anticipo avrebbe condotto a risultati terapeutici migliori". La Corte concludeva, pertanto, di non poter ravvisare la sussistenza di un nesso di causalità tra attività posta in essere dai sanitari e quanto ebbe a verificarsi in danno della neonata.

Gli stessi genitori ricorrevano, successivamente, per cassazione.

I ricorrenti si dolevano, prima di ogni altra cosa, del fatto che la Corte d’Appello avesse applicato ad una causa civile i criteri di accertamento del nesso di causa elaborati dalla Corte di Cassazione per il processo penale (c.d. criterio Franzese) in luogo del criterio della preponderanza dell’evidenza pacificamente operante in ambito civile.

Gli stessi genitori deducevano, poi, che vi fossero stati dei "vuoti temporali" e "carenze nella tenuta della cartella clinica", tutti ampiamente evidenziati anche in sede di appello e rappresentavano come la c.t.u. non poteva costituire fonte oggettiva di prova, senza che, nel caso di specie, i convenuti avessero fornito la prova di aver fatto tutto il possibile per evitare l’evento. In pratica, i ricorrenti si dolevano della circostanza secondo la quale i giudici di secondo grado avessero fatto gravare sulla parte attrice l’onere della prova di fatti clinici che avrebbe dovuto, invece, ricadere sulle parti convenute.

I ricorrenti argomentavano, quindi, come la Sentenza fosse esclusivamente basata sulle risultanze della consulenza tecnica che aveva definito corretto il comportamento dei medici; una consulenza deducente carente, illogica e contraddittoria, in difetto di prova che i convenuti avessero fatto tutto il possibile per adempiere correttamente la loro obbligazione. Piuttosto, i genitori della neonata evidenziavano che, nonostante le difficoltà presentate alla nascita, la neonata fosse stata "di fatto abbandonata a se stessa per sei ore", ossia per l’intervallo di tempo in relazione al quale non risultavano effettuate annotazioni in cartella clinica.

La Corte di Cassazione ha ritenuto fondato il ricorso dei genitori della bimba.

Innanzitutto, in applicazione dei principi che governano la responsabilità contrattuale, secondo i Giudici la struttura e i sanitari che siano convenuti in giudizio per ipotesi di “malpractice” sono tenuti a fornire la prova liberatoria richiesta dall’art. 1218 c.c. La Corte è chiara nel ribadire come sia “[…] noto che la difettosa tenuta della cartella clinica da parte dei sanitari non può tradursi, sul piano processuale, in un pregiudizio per il paziente (cfr. Cass. n. 1538/2010) e che è anzi consentito il ricorso alle presunzioni "in ogni caso in cui la prova non possa essere data per un comportamento ascrivibile alla stessa parte contro la quale il fatto da provare avrebbe potuto essere invocato" (Cass. n. 11316/2003; cfr. Cass. n. 10060/2010)”.

Tali principi, che costituiscono espressione del criterio della vicinanza alla prova nel più ampio quadro della distribuzione degli oneri probatori, assumono speciale pregnanza in quanto sono destinati ad operare non soltanto ai fini della valutazione della condotta del sanitario (ossia dell’accertamento della colpa), ma anche in relazione alla stessa individuazione del nesso eziologico fra la condotta medica e le conseguenze dannose subite dal paziente (cfr. Cass. n. 11316/2003, Cass. n. 10060/20109 e Cass. n. 12218/2015).

Secondo i Giudici, nel caso in questione, le difficoltà presentate dalla neonata al momento del parto avrebbero dovuto comportare la necessità di un attento monitoraggio post-natale, al fine di cogliere tempestivamente eventuali peggioramenti delle condizioni e di assicurare un immediato intervento. Quindi, la Corte d’Appello aveva indubbiamente errato laddove, a fronte di un vuoto di ben sei ore nelle annotazioni della cartella clinica, aveva ritenuto di condividere l’ipotesi che la neonata non potesse essere stata lasciata senza assistenza e non "avesse avuto problemi, anche perché al mattino le condizioni cliniche erano stabili". Tali conclusioni, secondo i Giudici della Cassazione meritano censura, sia sotto il profilo del vizio motivazionale che sotto quello della violazione dei criteri di distribuzione dell’onere della prova, alla luce della pacifica carenza di annotazioni nella cartella clinica.

La Suprema Corte ha evidenziato l’irriducibile antinomia esistente fra la constatazione della carenza delle annotazioni e l’affermazione della plausibilità dell’ipotesi che -ciononostante- la neonata fosse stata ben monitorata, affermando come nel caso di specie si sia trattato “[…] di una conclusione che è contraria alle effettive risultanze documentali e che viola il criterio secondo cui l’imperfetta compilazione della cartella clinica non può tradursi in uno svantaggio processuale per il paziente (anziché per la parte cui il difetto di annotazione è imputabile), traducendosi in un inammissibile vulnus al criterio che onera la parte convenuta della prova liberatoria in merito all’esattezza del proprio adempimento”.

Considerando le discrasie in cui era incorso il Giudice di secondo grado, la Corte disponeva la cassazione della Sentenza e rinviava alla Corte d’Appello territoriale, in diversa composizione, per un nuovo esame della controversia.

(Corte di Cassazione - Terza Sezione Civile, Sentenza 31 marzo 2016, n. 6209)

Con la Sentenza in commento, la Corte di Cassazione ha stabilito che l’imperfetta compilazione della cartella clinica da parte dei sanitari non può tradursi in un pregiudizio, sul piano processuale, per il paziente (anziché per la parte cui il difetto di annotazione è imputabile), traducendosi in un inammissibile “vulnus” al criterio che onera la parte convenuta della prova liberatoria in merito all’esattezza del proprio adempimento.

Una coppia, in proprio e in qualità di genitori esercenti la potestà sulla figlioletta neonata, aveva convenuto in giudizio la Azienda Sanitaria Locale e due medici della struttura, per vedersi riconoscere il diritto al risarcimento dei danni derivanti dalle lesioni subite della minore in occasione del parto (avvenuto presso la Struttura Ospedaliera), la quale aveva riportato una tetraparesi e una grave insufficienza mentale causate da asfissia perinatale.

Il Tribunale di primo grado rigettava la domanda attorea, con sentenza poi confermata dalla competente Corte di Appello.

I genitori prospettavano la responsabilità dei sanitari e della struttura ospedaliera per non aver prestato alla neomamma un’adeguata assistenza al parto e per non avere assicurato alla bambina un idoneo trattamento post-natale. A fronte di tale enunciazione, la Corte di Appello aveva però ritenuto che non poteva ascriversi a responsabilità dei sanitari la mancata effettuazione del tracciato cardiotocografico in luogo della mera auscultazione del battito cardiaco fetale (giacché le condizioni della mamma non ne comportavano la necessità e, comunque, il tracciato di controllo non avrebbe potuto rilevare la presenza dell’asfissia) ed aveva parimenti affermato che "la fase post- natale fu gestita con corretta predisposizione di diagnosi e terapie nel momento in cui si evidenziò il peggioramento della bambina", rilevando altresì che: "il trasferimento al reparto di rianimazione fu disposto con tempistica ragionevole, nè un suo anticipo avrebbe condotto a risultati terapeutici migliori". La Corte concludeva, pertanto, di non poter ravvisare la sussistenza di un nesso di causalità tra attività posta in essere dai sanitari e quanto ebbe a verificarsi in danno della neonata.

Gli stessi genitori ricorrevano, successivamente, per cassazione.

I ricorrenti si dolevano, prima di ogni altra cosa, del fatto che la Corte d’Appello avesse applicato ad una causa civile i criteri di accertamento del nesso di causa elaborati dalla Corte di Cassazione per il processo penale (c.d. criterio Franzese) in luogo del criterio della preponderanza dell’evidenza pacificamente operante in ambito civile.

Gli stessi genitori deducevano, poi, che vi fossero stati dei "vuoti temporali" e "carenze nella tenuta della cartella clinica", tutti ampiamente evidenziati anche in sede di appello e rappresentavano come la c.t.u. non poteva costituire fonte oggettiva di prova, senza che, nel caso di specie, i convenuti avessero fornito la prova di aver fatto tutto il possibile per evitare l’evento. In pratica, i ricorrenti si dolevano della circostanza secondo la quale i giudici di secondo grado avessero fatto gravare sulla parte attrice l’onere della prova di fatti clinici che avrebbe dovuto, invece, ricadere sulle parti convenute.

I ricorrenti argomentavano, quindi, come la Sentenza fosse esclusivamente basata sulle risultanze della consulenza tecnica che aveva definito corretto il comportamento dei medici; una consulenza deducente carente, illogica e contraddittoria, in difetto di prova che i convenuti avessero fatto tutto il possibile per adempiere correttamente la loro obbligazione. Piuttosto, i genitori della neonata evidenziavano che, nonostante le difficoltà presentate alla nascita, la neonata fosse stata "di fatto abbandonata a se stessa per sei ore", ossia per l’intervallo di tempo in relazione al quale non risultavano effettuate annotazioni in cartella clinica.

La Corte di Cassazione ha ritenuto fondato il ricorso dei genitori della bimba.

Innanzitutto, in applicazione dei principi che governano la responsabilità contrattuale, secondo i Giudici la struttura e i sanitari che siano convenuti in giudizio per ipotesi di “malpractice” sono tenuti a fornire la prova liberatoria richiesta dall’art. 1218 c.c. La Corte è chiara nel ribadire come sia “[…] noto che la difettosa tenuta della cartella clinica da parte dei sanitari non può tradursi, sul piano processuale, in un pregiudizio per il paziente (cfr. Cass. n. 1538/2010) e che è anzi consentito il ricorso alle presunzioni "in ogni caso in cui la prova non possa essere data per un comportamento ascrivibile alla stessa parte contro la quale il fatto da provare avrebbe potuto essere invocato" (Cass. n. 11316/2003; cfr. Cass. n. 10060/2010)”.

Tali principi, che costituiscono espressione del criterio della vicinanza alla prova nel più ampio quadro della distribuzione degli oneri probatori, assumono speciale pregnanza in quanto sono destinati ad operare non soltanto ai fini della valutazione della condotta del sanitario (ossia dell’accertamento della colpa), ma anche in relazione alla stessa individuazione del nesso eziologico fra la condotta medica e le conseguenze dannose subite dal paziente (cfr. Cass. n. 11316/2003, Cass. n. 10060/20109 e Cass. n. 12218/2015).

Secondo i Giudici, nel caso in questione, le difficoltà presentate dalla neonata al momento del parto avrebbero dovuto comportare la necessità di un attento monitoraggio post-natale, al fine di cogliere tempestivamente eventuali peggioramenti delle condizioni e di assicurare un immediato intervento. Quindi, la Corte d’Appello aveva indubbiamente errato laddove, a fronte di un vuoto di ben sei ore nelle annotazioni della cartella clinica, aveva ritenuto di condividere l’ipotesi che la neonata non potesse essere stata lasciata senza assistenza e non "avesse avuto problemi, anche perché al mattino le condizioni cliniche erano stabili". Tali conclusioni, secondo i Giudici della Cassazione meritano censura, sia sotto il profilo del vizio motivazionale che sotto quello della violazione dei criteri di distribuzione dell’onere della prova, alla luce della pacifica carenza di annotazioni nella cartella clinica.

La Suprema Corte ha evidenziato l’irriducibile antinomia esistente fra la constatazione della carenza delle annotazioni e l’affermazione della plausibilità dell’ipotesi che -ciononostante- la neonata fosse stata ben monitorata, affermando come nel caso di specie si sia trattato “[…] di una conclusione che è contraria alle effettive risultanze documentali e che viola il criterio secondo cui l’imperfetta compilazione della cartella clinica non può tradursi in uno svantaggio processuale per il paziente (anziché per la parte cui il difetto di annotazione è imputabile), traducendosi in un inammissibile vulnus al criterio che onera la parte convenuta della prova liberatoria in merito all’esattezza del proprio adempimento”.

Considerando le discrasie in cui era incorso il Giudice di secondo grado, la Corte disponeva la cassazione della Sentenza e rinviava alla Corte d’Appello territoriale, in diversa composizione, per un nuovo esame della controversia.

(Corte di Cassazione - Terza Sezione Civile, Sentenza 31 marzo 2016, n. 6209)