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Sentenze Dogru e Kervanci c. Francia (Corte Europea dei diritti dell’uomo 4 Dicembre 2008) e il concetto di laicità

E’ importante chiarire il significato, seppure non univoco, del termine laicità per riuscire a comprendere le sentenze, inerenti il tema religioso, emesse, in tempi più o meno recenti, dalla “Corte Europea dei Diritti dell’Uomo”.

Se accettiamo la definizione data da F. Rimoli, possiamo intendere la laicità come “precondizione per la potenziale esistenza di tutti i possibili contenuti”: in sostanza, la possibilità che lo Stato garantisca la convivenza tra credo religiosi sia in modo negativo, accettando le nuove influenze, che in modo positivo, offrendo a tutti i credenti lo stesso supporto.

Tale concetto di laicità sembra essere astrattamente applicabile ad ogni realtà statale, ma nelle prassi del vivere quotidiano ci si accorge dell’esistenza di insuperabili differenze.

Giurisprudenza e dottrina hanno individuato quello che viene definito “margine di apprezzamento” per dare ai singoli Stati la possibilità di esprimere il livello di laicità adeguato alla propria storia ed al proprio ordinamento giuridico. Una sorta di “variabile” dipendente dal contesto in cui ci si trova, che permette alla CEDU di giustificare il comportamento degli Stati che si discostano da un contegno maggioritario, considerato appropriato; rimanendo in forza, comunque, il principio per cui le nazioni debbano mantenere standard minimi universali.

L’uso del margine di apprezzamento è stato ampliato molto, nel tempo, rispetto al suo fine originale, stabilito all’art. 15 della “Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”.

Il problema della continua espansione dell’uso di questa “variabile” si deve alla difficoltà che si incontra nel tentativo di definire un elemento che è diretta conseguenza di una situazione di fatto di per sé difficilmente definibile: il contesto sociale e culturale. Quest’ostacolo evidenzia come l’argomento “diritti umani”, quelli della sfera religiosa in particolare, sia legato alla coscienza o, quantomeno, al raziocinio del singolo.

Un esempio chiaro in cui emerge l’importanza del contesto in cui avvengono e si succedono fatti, è quello delle Sentenze Dogru e Kervanci c. Francia, rese dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nel 2008.

Le due studentesse, di religione islamica, erano state espulse dalla scuola secondaria superiore pubblica, perché si erano rifiutate, più volte, di togliere il velo durante l’ora di educazione fisica.

Dopo aver esaurito i ricorsi nel proprio Paese, tutti con esito negativo, le famiglie delle due ragazze si sono rivolte (ex art 35 ECHR) alla Corte di Strasburgo, per violazione dell’art 9 della Convenzione stessa. Anche la decisione della Corte sarà sfavorevole alle studentesse. Elencando le proprie motivazioni, la Corte sottolinea che il secolarismo è un principio costituzionale della Repubblica francese, infatti l’art 2 della Costituzione francese, del 1958, cita: “La Francia è una Repubblica indivisibile, laica, democratica e sociale….”.

Tale impostazione ha radici profonde, infatti, dopo aver sostenuto la libertà di credo e di pensiero con la “Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino” del 1789, la Francia ha sancito nel 1905 la propria separazione dalla Chiesa (giova ricordare che l’Italia, diversamente, firmò nel 1929 i Patti Lateranensi).

Altro riferimento alla legge interna francese fatto dalla Corte di Strasburgo è quello relativo ad un parere, del 1989, del Conseil d’Etat (che seppure non legge in senso formale, viene considerata per il proprio contenuto, quindi in senso sostanziale, di pari livello) in cui il Consiglio ha affrontato il problema dei simboli religiosi esposti in classe dagli studenti.

Il Conseil affermò, in quella sede, che la libertà di indossare simboli religiosi a scuola “non consente agli alunni di mostrare segni religiosi che, a seconda della situazione in cui sono calati, preoccupino l’individuo o la collettività, o siano un mezzo di protesta, o possano costituire una forma di pressione, provocazione, proselitismo, propaganda o che minino la dignità o la libertà degli altri studenti o dei membri della comunità educativa, o che compromettano la loro salute o sicurezza, disturbino la condotta delle lezioni e il ruolo educativo dell’insegnante o, infine, interferiscano con l’ordine della scuola o il normale funzionamento del servizio pubblico”.

A questo parere si lega poi il regolamento della scuola frequentata dalle studentesse Dogru e Kervanci, la “Jean Monnet Lower Secondary School” che prevedeva l’obbligo per tutti gli alunni di avere un abbigliamento sportivo durante l’ora di ginnastica.

E’ importante, poi, ricordare la storia del secolarismo francese, per rendersi conto che la decisione della CEDU, pur tenendo in considerazione i principi di libertà di pensiero, di coscienza e di religione, enunciati dall’art. 9 della Convenzione, trova fondamento in una legislazione, seppur inizialmente poco chiara e quantitativamente scarsa, che è espressione di una concezione di Stato che sostiene il principio di laicità ma lo interpreta nel senso di neutralità.

Nel 2004 la Francia, proprio per chiarire la posizione del governo e del Paese riguardo ai simboli religiosi portati dagli alunni a scuola (discorso a parte andrebbe affrontato per gli insegnanti), ha approvato una legge, la “Legge sul Secolarismo” (L. 228/2004), che vieta, nella scuola primaria e nella scuola secondaria statale, di indossare segni che manifestino una affiliazione religiosa.

Data la molteplice possibilità d’interpretazione del testo, il Ministro dell’Educazione Francese ha emanato, nello stesso anno, una circolare esplicativa che precisa che “l’atto concerne solo i segni, come il velo islamico, comunque lo si chiami, la kippa o croci che siano ovviamente fuori misura, che rendano l’individuazione dell’affiliazione religiosa immediata”.

E’ impossibile quando si affrontano sentenze che, come quelle Dogru e Kervanci, decidono di uno degli aspetti più intimi e irrazionali della persona umana, non notare che non esista, di fatto, un metodo giuridico tecnico che permetta di individuare con certezza cosa sia giusto e cosa sbagliato.

La CEDU, affrontando il caso di cui si dice, ha tenuto a sottolineare che il divieto di indossare il velo sia stato imposto dalla scuola, solo per l’ora di educazione fisica, per motivi di “sicurezza e salute” delle due ragazze e che, di fronte a tale giustificazione, anche il diritto alla libertà di manifestazione religiosa deve fare un passo indietro.

Osservata all’apparenza, la sentenza della Corte, come ovvio, non suscita dubbi: la sicurezza e la salute umana vanno anteposti ad ogni convinzione personale. Un bilanciamento di interessi giustificato.

A ben guardare però, sembra riduttivo relegare il problema ad una circostanza così palese. Se si considera che il governo francese, data la continua espansione di correnti religiose “nuove” insieme alla crescita esponenziale degli adepti, si sia sentito in dovere di emanare una legge, ci si rende conto che il problema dell’espressione religiosa è un’importante questione sociale e di organizzazione dello stato.

Muovendo da questa considerazione diviene centrale chiedersi come possa essere affrontata, in modo imparziale, da un punto di vista tecnico giuridico la laicità dello stato. Se però, come ritiene Guerzoni, la laicità “è prima che una realtà giuridica, anzitutto ed essenzialmente un principio politico”, è difficile pensare di potersi esprimere con neutralità.

Non a caso, proprio in Francia si distingue fra una laicité de combat ed una laicité ouvert, intendendo con la prima definizione una realtà statale che non lascia spazio alla sfera religiosa (identificabile con il comportamento statale del primo periodo della storia della Repubblica Francese) e con la seconda uno Stato che prende atto dell’importanza della religione e dei fenomeni ad essa collegati (associabile alla odierna visione francese della società).

In dottrina molti evidenziano l’importanza sociale della questione religiosa: Elisa Olivito, in particolare, sottolinea che l’avversione a simboli religiosi, quali il velo islamico, sia dovuta soprattutto al fatto che esso spesso sia sinonimo di subordinazione della donna nei confronti dell’uomo. Ma se fosse una libera scelta? Il problema non si risolve.

E’ arduo il compromesso ed è difficile immaginare uno stato laico, “contenitore e paladino” di tante diverse realtà, perché nei paesi democratici, col continuo espandersi delle libertà individuali, cresce anche il pluralismo di idee e di pensiero, spesso fondati soltanto su ciò che si prova o che si percepisce.

C’é da temere, per assurdo, (sempre dando libero sfogo alla libertà di pensiero, in questo caso garantita dalla nostra propensione all’individualismo) che si possa andare verso arroccamenti, se non peggio, verso un indifferente, quanto fastidioso, modo di risolvere i problemi, riassumibile nell’espressione “de gustibus…” che può andar bene per un gelato o una bibita, ma non può essere accettata per problemi riguardanti l’intera collettività, per i quali serve piuttosto una posizione equilibrata, attenta a garantire un giusto compromesso fra le diverse istanze ed a salvaguardia dal continuo oscillare di posizioni, per cui ognuno è filosofo di riferimento per sé stesso, che può condurre esclusivamente all’implosione dello stato-contenitore.

E’ importante chiarire il significato, seppure non univoco, del termine laicità per riuscire a comprendere le sentenze, inerenti il tema religioso, emesse, in tempi più o meno recenti, dalla “Corte Europea dei Diritti dell’Uomo”.

Se accettiamo la definizione data da F. Rimoli, possiamo intendere la laicità come “precondizione per la potenziale esistenza di tutti i possibili contenuti”: in sostanza, la possibilità che lo Stato garantisca la convivenza tra credo religiosi sia in modo negativo, accettando le nuove influenze, che in modo positivo, offrendo a tutti i credenti lo stesso supporto.

Tale concetto di laicità sembra essere astrattamente applicabile ad ogni realtà statale, ma nelle prassi del vivere quotidiano ci si accorge dell’esistenza di insuperabili differenze.

Giurisprudenza e dottrina hanno individuato quello che viene definito “margine di apprezzamento” per dare ai singoli Stati la possibilità di esprimere il livello di laicità adeguato alla propria storia ed al proprio ordinamento giuridico. Una sorta di “variabile” dipendente dal contesto in cui ci si trova, che permette alla CEDU di giustificare il comportamento degli Stati che si discostano da un contegno maggioritario, considerato appropriato; rimanendo in forza, comunque, il principio per cui le nazioni debbano mantenere standard minimi universali.

L’uso del margine di apprezzamento è stato ampliato molto, nel tempo, rispetto al suo fine originale, stabilito all’art. 15 della “Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”.

Il problema della continua espansione dell’uso di questa “variabile” si deve alla difficoltà che si incontra nel tentativo di definire un elemento che è diretta conseguenza di una situazione di fatto di per sé difficilmente definibile: il contesto sociale e culturale. Quest’ostacolo evidenzia come l’argomento “diritti umani”, quelli della sfera religiosa in particolare, sia legato alla coscienza o, quantomeno, al raziocinio del singolo.

Un esempio chiaro in cui emerge l’importanza del contesto in cui avvengono e si succedono fatti, è quello delle Sentenze Dogru e Kervanci c. Francia, rese dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nel 2008.

Le due studentesse, di religione islamica, erano state espulse dalla scuola secondaria superiore pubblica, perché si erano rifiutate, più volte, di togliere il velo durante l’ora di educazione fisica.

Dopo aver esaurito i ricorsi nel proprio Paese, tutti con esito negativo, le famiglie delle due ragazze si sono rivolte (ex art 35 ECHR) alla Corte di Strasburgo, per violazione dell’art 9 della Convenzione stessa. Anche la decisione della Corte sarà sfavorevole alle studentesse. Elencando le proprie motivazioni, la Corte sottolinea che il secolarismo è un principio costituzionale della Repubblica francese, infatti l’art 2 della Costituzione francese, del 1958, cita: “La Francia è una Repubblica indivisibile, laica, democratica e sociale….”.

Tale impostazione ha radici profonde, infatti, dopo aver sostenuto la libertà di credo e di pensiero con la “Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino” del 1789, la Francia ha sancito nel 1905 la propria separazione dalla Chiesa (giova ricordare che l’Italia, diversamente, firmò nel 1929 i Patti Lateranensi).

Altro riferimento alla legge interna francese fatto dalla Corte di Strasburgo è quello relativo ad un parere, del 1989, del Conseil d’Etat (che seppure non legge in senso formale, viene considerata per il proprio contenuto, quindi in senso sostanziale, di pari livello) in cui il Consiglio ha affrontato il problema dei simboli religiosi esposti in classe dagli studenti.

Il Conseil affermò, in quella sede, che la libertà di indossare simboli religiosi a scuola “non consente agli alunni di mostrare segni religiosi che, a seconda della situazione in cui sono calati, preoccupino l’individuo o la collettività, o siano un mezzo di protesta, o possano costituire una forma di pressione, provocazione, proselitismo, propaganda o che minino la dignità o la libertà degli altri studenti o dei membri della comunità educativa, o che compromettano la loro salute o sicurezza, disturbino la condotta delle lezioni e il ruolo educativo dell’insegnante o, infine, interferiscano con l’ordine della scuola o il normale funzionamento del servizio pubblico”.

A questo parere si lega poi il regolamento della scuola frequentata dalle studentesse Dogru e Kervanci, la “Jean Monnet Lower Secondary School” che prevedeva l’obbligo per tutti gli alunni di avere un abbigliamento sportivo durante l’ora di ginnastica.

E’ importante, poi, ricordare la storia del secolarismo francese, per rendersi conto che la decisione della CEDU, pur tenendo in considerazione i principi di libertà di pensiero, di coscienza e di religione, enunciati dall’art. 9 della Convenzione, trova fondamento in una legislazione, seppur inizialmente poco chiara e quantitativamente scarsa, che è espressione di una concezione di Stato che sostiene il principio di laicità ma lo interpreta nel senso di neutralità.

Nel 2004 la Francia, proprio per chiarire la posizione del governo e del Paese riguardo ai simboli religiosi portati dagli alunni a scuola (discorso a parte andrebbe affrontato per gli insegnanti), ha approvato una legge, la “Legge sul Secolarismo” (L. 228/2004), che vieta, nella scuola primaria e nella scuola secondaria statale, di indossare segni che manifestino una affiliazione religiosa.

Data la molteplice possibilità d’interpretazione del testo, il Ministro dell’Educazione Francese ha emanato, nello stesso anno, una circolare esplicativa che precisa che “l’atto concerne solo i segni, come il velo islamico, comunque lo si chiami, la kippa o croci che siano ovviamente fuori misura, che rendano l’individuazione dell’affiliazione religiosa immediata”.

E’ impossibile quando si affrontano sentenze che, come quelle Dogru e Kervanci, decidono di uno degli aspetti più intimi e irrazionali della persona umana, non notare che non esista, di fatto, un metodo giuridico tecnico che permetta di individuare con certezza cosa sia giusto e cosa sbagliato.

La CEDU, affrontando il caso di cui si dice, ha tenuto a sottolineare che il divieto di indossare il velo sia stato imposto dalla scuola, solo per l’ora di educazione fisica, per motivi di “sicurezza e salute” delle due ragazze e che, di fronte a tale giustificazione, anche il diritto alla libertà di manifestazione religiosa deve fare un passo indietro.

Osservata all’apparenza, la sentenza della Corte, come ovvio, non suscita dubbi: la sicurezza e la salute umana vanno anteposti ad ogni convinzione personale. Un bilanciamento di interessi giustificato.

A ben guardare però, sembra riduttivo relegare il problema ad una circostanza così palese. Se si considera che il governo francese, data la continua espansione di correnti religiose “nuove” insieme alla crescita esponenziale degli adepti, si sia sentito in dovere di emanare una legge, ci si rende conto che il problema dell’espressione religiosa è un’importante questione sociale e di organizzazione dello stato.

Muovendo da questa considerazione diviene centrale chiedersi come possa essere affrontata, in modo imparziale, da un punto di vista tecnico giuridico la laicità dello stato. Se però, come ritiene Guerzoni, la laicità “è prima che una realtà giuridica, anzitutto ed essenzialmente un principio politico”, è difficile pensare di potersi esprimere con neutralità.

Non a caso, proprio in Francia si distingue fra una laicité de combat ed una laicité ouvert, intendendo con la prima definizione una realtà statale che non lascia spazio alla sfera religiosa (identificabile con il comportamento statale del primo periodo della storia della Repubblica Francese) e con la seconda uno Stato che prende atto dell’importanza della religione e dei fenomeni ad essa collegati (associabile alla odierna visione francese della società).

In dottrina molti evidenziano l’importanza sociale della questione religiosa: Elisa Olivito, in particolare, sottolinea che l’avversione a simboli religiosi, quali il velo islamico, sia dovuta soprattutto al fatto che esso spesso sia sinonimo di subordinazione della donna nei confronti dell’uomo. Ma se fosse una libera scelta? Il problema non si risolve.

E’ arduo il compromesso ed è difficile immaginare uno stato laico, “contenitore e paladino” di tante diverse realtà, perché nei paesi democratici, col continuo espandersi delle libertà individuali, cresce anche il pluralismo di idee e di pensiero, spesso fondati soltanto su ciò che si prova o che si percepisce.

C’é da temere, per assurdo, (sempre dando libero sfogo alla libertà di pensiero, in questo caso garantita dalla nostra propensione all’individualismo) che si possa andare verso arroccamenti, se non peggio, verso un indifferente, quanto fastidioso, modo di risolvere i problemi, riassumibile nell’espressione “de gustibus…” che può andar bene per un gelato o una bibita, ma non può essere accettata per problemi riguardanti l’intera collettività, per i quali serve piuttosto una posizione equilibrata, attenta a garantire un giusto compromesso fra le diverse istanze ed a salvaguardia dal continuo oscillare di posizioni, per cui ognuno è filosofo di riferimento per sé stesso, che può condurre esclusivamente all’implosione dello stato-contenitore.