Tossicodipendenze: profili medico-forensi
Tossicodipendenze: profili medico-forensi
Indice:
- La relatività dell’approccio nosografico
- I due principali approcci nosografici al problema delle tossicodipendenze
- Le catalogazioni medico-forensi del Novecento in tema di tossicomanie
- Il mito della pericolosità psico-forense del (poli)tossicomane
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La relatività dell’approccio nosografico
Nella psichiatria contemporanea, la nosografia si occupa di analizzare e descrivere le patologie mentali. Dall’analisi di ogni disturbo, successivamente, l’approccio nosografico perviene ad una prognosi, propone una terapia, delimita la responsabilità e l’imputabilità del paziente e accerta la più o meno marcata pericolosità sociale del reo infermo/semi-infermo di mente.
Negli Anni Duemila, la nosografia affianca spesso il giudice del merito, ma non tutti concordano sulla potenza valutativa dell’operatore nosografico, in tanto in quanto taluni manifestano una fiducia incondizionata nei confronti della psichiatria forense, mentre altri auto-riducono il ruolo del medico rispetto a quello predominante del Magistrato. Per esempio, Fornari (1997) asserisce che l’analisi medica del grado di imputabilità deve prevalere sul giudizio giuridico, in tanto in quanto “è necessario ancorare la nozione di infermità di mente ad un tipo di nosografia restrittiva ed impostata su criteri i più rigorosi ed obiettivi possibili”.
Viceversa, l’onnipotenza e l’onnipresenza della medicina psichiatrica vengono arginati da Ponti & Merzagora (1992), poiché “in psichiatria forense, l’inquadramento nosografico non aiuta più di tanto, perché il termine di riferimento è un altro. Il giudizio in tema di in capacità di intendere e di volere non è, almeno nel nostro sistema, […] una mera diagnosi psichiatrica, bensì una valutazione attinente allo spazio della residua libertà del singolo”.
Chi scrive concorda con l’interpretazione giuridico-centrica di Ponti & Merzagora (ibidem). Ovverosia, è inaccettabile pretendere o, per lo meno, consentire che, nel Diritto Processuale Penale, la perizia psichiatrica sostituisca la libera valutazione del Magistrato. È aberrante postulare un vincolo assoluto che costringa il giudice di merito a un’ubbidienza supina e incondizionata nei confronti della medicina legale. Nel procedimento penale, ex comma 2 Art. 101 Costituzione, “i giudici sono soggetti soltanto alla legge”. Pertanto, la psichiatria forense propone una nosografia al Magistrato, ma ciò non vincola, in maniera deterministica, l’esegesi giuridica e l’applicazione indipendente della Normativa.
Contro la prepotenza ipertrofica della psichiatria forense si esprime, nei Lavori Preparatori del DSM-III, pure l’American Psychiatric Association (1988), giacché “i concetti clinici e scientifici implicati nella categorizzazione di queste condizioni come disturbi mentali possono essere del tutto irrilevanti in sede giuridica, ove, ad esempio, si debba tener conto di aspetti quali la responsabilità individuale, la valutazione della disabilità e l’imputabilità”. Giustamente, sempre nei Lavori Preparatori del DSM-III, è asserita una ratio auto-riduzionistica, in tanto in quanto “le considerazioni cliniche […] del DSM-III possono non essere rilevanti per l’impiego del DSM-III al di fuori di ambienti clinici […] ad esempio nelle valutazioni legali”.
Come si può notare, il DSM-III, a titolo introduttivo, nega anch’esso l’onnipotenza tracotante ed eccessiva della medicina legale, poiché il Magistrato non è algebricamente vincolato alle perizie afferenti allo stato di salute mentale dell’infrattore. In fondo, anche l’oltranzista Fornari (1989) si sente, talvolta, in dovere di limitare la presunta infallibilità della medicina legale, nel senso che “occorre tener presente che non sempre è possibile stabilire una netta demarcazione tra un quadro psicopatologico ed un altro [poiché] esistono forme intermedie, di passaggio, marginali, miste, in fase di evoluzione o di remissione, forme che esordiscono attraverso il reato, e forme che rendono talvolta impossibile incasellare, per lungo tempo, il malato in una nosografia clinica sicura e ben determinata”. D’altronde, in tutta la psichiatria forense del Novecento, spesso la medicna legale ha dovuto affrontare delle cc.dd. “disarmonie del comportamento” che non costituiscono “vizi di mente” tecnicamente equipollenti ad una vera e propria “malattia mentale”.
Sovente, la psicopatologia ha a che fare con devianti anti-normativi non classificabili all’interno di uno stato morboso veramente e propriamente patologico. A tal proposito, Dell’Osso & Lomi (1989) specifcano anch’essi che “bisogna negare alla nosografia un’incidenza assoluta nel giudizio di imputabilità”. Dunque, l’approccio nosografico non può e non deve sostituire le qualificazioni giuridiche del Magistrato.
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I due principali approcci nosografici al problema delle tossicodipendenze
Secondo l’orientamento descrittivo-sistematico, bisogna analizzare le varie tossicodipendenze prevalentemente sulla base della sostanza assunta ed alla luce della relativa modalità di assunzione.
In effetti, è innegabile che ciascuna sostanza ha un effetto psicotropo specifico, a seconda dei suoi effetti sulla psiche e sul fisico. Inoltre, l’effetto tossicovoluttuario dipende dalla composizione chimica della sostanza d’abuso. In terzo luogo, l’orientamento descrittivo-sistematico individua una specifica prognosi per ciascuna droga, la quale ha un determinato grado di uncinamento, responsabile di recidive ed assuefazioni che variano in base al singolo preparato d’abuso. D’altronde, non si può negare che ogni tipologia di droga reca a conseguenze psicofisiche variabili e distinte. Infatti, nella ormai datata ripartizione classificatoria di Lewin, si distingueva, in maniera anche troppo catalogica, le “Euforica”, come l’oppio, la morfina ed i derivati della cocaina, le “Phantastica”, come la cannabis indica e tutte le sostanze cagionanti illusioni sensoriali, e le “Inebriantia”, che sono, in buona sostanza, le bevande alcoliche, il cloroformio e l’etere.
Tale orientamento descrittivo-sistematico, basato sul tipo di sostanza, è stato successivamente contestato, in tanto in quanto, come sottolineato da Bazzi & De Vincentiis (1960), “vanno [invece] valorizzate le differenze individuali nella reazione psichica ad una stessa sostanza, perché l’effetto psicotropo particolare appare evidente solo nella fase inziale, c.d. di compenso, mentre, nella fase successiva, c.d. di scompenso, tale effetto diventa meno persistente e marcato. Inoltre, il moltiplicarsi delle sostanze stupefacenti sintetiche ed il diffondersi delle politossicomanie […] ha reso questa classificazione di scarso valore clinico”.
In effetti, anche negli Anni Duemila, il tossicodipendente medio tende a mescolare contestualmente più di una sostanza; senza contare, poi, che, quasi sempre, le droghe, sintetiche o vegetali che siano, vengono unite a numerose e variegate bevande etiliche, soprattutto negli ambienti della tossicomania giovanile. Del resto, anche Leoni & Marchetti & Fatigante (1992) contestano l’approccio nosografico di tipo descrittivo-sistematico, giacché l’effetto di una sostanza non è matematicamente predeterminato e, infatti, “esiste il rischio che una tale metodologia [focalizzata esclusivamente sulla sostanza] svii l’attenzione dagli aspetti fondamentali e più generali dell’argomento […]. La tossicodipendenza dev’essere valutata non solo in termini di utilizzo di una determinata sostanza, ma anche in termini di stile di vita, salute fisica, denunzie per reati […]. Esiste poi una serie di specifiche situazioni psichiatriche legate all’utilizzo cronico di sostanze stupefacenti, quali psicosi tossiche associate all’utilizzo di amfetamine e cocaina, sindrome a-motivazionale nell’utilizzo cronico di cannabis e derivati, psicosi negli utilizzatori di LDS”.
Dunque, l’effetto chimico della sostanza va contestualizzato all’interno delle ben più ampie dinamiche della vita personale e sociale del tossicodipendente, la cui situazione umana, familiare ed occupazionale non si riduce ad una dinamica farmaco-tossicologica. Molto dipende dal contesto personologico e criminologico di vita. Anche Reda (1982) esorta a non valutare in maniera apodittica gli aspetti clinici delle tossicomanie “poiché essi sono vari e mutevoli e dipendono non solo dalla sostanza usata, ma anche dalla dose e dall’incontro della sostanza con le caratteristiche psicofisiche di colui che la usa”. Dunque, anche Reda (ibidem), giustamente, rifugge da un inquadramento dogmatico e rigoristico dei soli effetti chimico-fisiologici delle varie droghe.
Esiste pure un secondo orientamento nosografico che, come precisato da Bazzi & De Vincentiis (ibidem), prescinde dalla sostanza assunta e “ricerca un tipo di inquadramento sindromico in funzione di un’ampia diagnosi, che implichi il maggior numero di conseguenze utili ai fini della terapia e della prognosi”.
Per esempio, nell’ambito di siffatto secondo filone nosografico, molti Autori, per lo più germanofoni, sostengono che, a monte di ogni tossicodipendenza, si trovano almeno tre variabili: in primo luogo, una psicopatologia individuale che predispone all’abuso di sostanze, in secondo luogo, un carattere psicofarmacologico alterato dalla droga assunta e, in terzo luogo, una sociologia tossicomaniacale, la quale è costituita dall’ambiente sociale, familiare, scolastico, lavorativo e persino abitativo che circonda o ha circondato il soggetto protagonista dell’abuso tossicovoluttuario.
Oppure ancora, sempre nell’ottica di questo secondo orientamento, Ey & Bernard & Brisset (1980) postulano che il tossicomane soffre di uno “squilibrio psichico” caratterizzato dalla “sostanziale presenza, nel tossicomane, di una struttura abnorme e pervertita che porta il soggetto ad una regressione ad un piacere parziale [che è], sotto il profilo psicanalitico, il ritorno del soggetto a fasi superate del suo sviluppo”. Similmente, Bini & Bazzi (1967) asseriscono che la tossicodipendenza è incasellabile tra i “comportamenti psicopatici”. Tale condotta si distingue, in special modo, per essere dannosa, singolarmente e socialmente, e manca di una possibile qualificazione nosografica certa ed incontestabile.
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Le catalogazioni medico-forensi del Novecento in tema di tossicomanie
Nel 1957, l’OMS propose di distinguere tra “tossicomania” ed “abitudine”.
La “tossicomania” era formalmente definita dall’OMS come “uno stato di intossicazione periodica o cronica prodotto dalle ripetute assunzioni di una sostanza naturale [rectius: vegetale, ndr] o sintetica”.
Tale “addiction”, sempre all’interno della definizione autentica dell’OMS del 1957, era contestualmente caratterizzata “in primo luogo, da un irresistibile desiderio o bisogno di continuare ad assumere la sostanza ed a procurarsela con ogni mezzo. In secondo luogo, dalla tendenza ad aumentare la dose giornaliera o settimanale. In terzo luogo, dalla dipendenza psicofisica dalla sostanza. In quarto luogo, da effetti dannosi [rectius: criminogeni, ndr] per l’individuo e per la società”
Viceversa, l’OMS reputava come meno uncinante la categoria dell’“abitudine”, formalmente qualificata alla stregua di “una condizione [meno grave] derivante da ripetute assunzioni di una sostanza […]. L’abitudine costituisce un desiderio, ma non una coazione a continuare ad assumere la sostanza, per il senso di aumentato benessere che essa produce, [ma] con una scarsa o nulla tendenza ad aumentare la dose […] [l’abitudine] produce solo un lieve grado di dipendenza mentale, ma senza sindrome di astinenza [e] gli effetti dannosi si riverberano principalmente solo sull’individuo assuntore”.
Finalmente, nel 1969 e, più ancora, nel 1973 e nel 1974, il lemma “dipendenza”, nei Rapporti ufficiali dell’OMS, venne sostituito dal sostantivo “farmacodipendenza”, definita come “uno stato psichico, a volte fisico, risultante dall’interazione fra un individuo vivente ed un farmaco, caratterizzato da reazioni comportamentali, e comprensiva di un impulso ad assumere il farmaco in modo continuo o periodico, allo scopo di sperimentarne gli effetti psichici e, talvolta, per evitare il disagio della sua assenza. La tolleranza può essere presente o meno. Un individuo può essere dipendente da più farmaci”
Tuttavia, l’autentico salto di qualità si è manifestato, nel 1952, con la pubblicazione del DSM-I, curata dall’American Psychiatric Association. Nel DSM-I, i presupposti mentali e le conseguenze patologiche delle (poli)tossicodipendenze erano qualificati come “disturbi della personalità di tipo sociopatico” Sempre nel DSM-I, il paziente sociopatico era “un individuo sostanzialmente asociale, i cui modelli di comportamento lo portano ripetutamente a trovarsi in conflitto con la società. Incapace di mantenere significativi impegni con persone, gruppi o valori sociali. Egoista, irresponsabile, impulsivo, incapace di senso di colpa e di imparare dall’esperienza e dalla punizione. Bassa tolleranza alle frustrazioni”.
È opportuno notare che, nel 1983 e nella revisione parziale del 1987, il DSM-III, a differenza del DSM-I e del DSM-II, ha qualificato la tossicodipendenza non più come “infermità e malattia mentale”, bensì come “disturbo” reversibile, trattabile, dunque curabile.
Quindi, a partire dal DSM-III, le poli-tossicomanie sono anch’esse definibili alla stregua di “una sindrome o modalità comportamentale o psicologica clinicamente significativa, che si manifesta in un individuo e che sia tipicamente associata o con un malessere attuale (sintomo doloroso) o con una menomazione (alterazione di una o più aree del comportamento), o con un rischio significativamente aumentato di andare incontro a morte, a dolore, a inabilità o ad una importante perdita di libertà comportamentale”. Un ulteriore merito innegabile che caratterizza il DSM-III consta nell’aver catalogato come equipollenti l’abuso di alcol e quello di sostanze vegetali o sintetiche tradizionalmente denominate come “stupefacenti”. Siffatto trattamento classificatorio delle bevande alcoliche, nel DSM-III, sana decenni di errori e di sottovalutazioni, in tanto in quanto, specialmente nei contesti giovanili poli-tossicomaniacali, l’alcol è, a tutti gli effetti, una sostanza d’abuso con effetti gravemente e pericolosamente psicotropi o psicoattivi.
Per di più come giustamente rimarcato da Leoni & Marchetti & Fatigante (ibidem), il DSM-III del 1987 ha avuto il merito di sottolineare, in maniera esplicita, che le tossicomanie hanno sul paziente ripercussioni multiple e variegate, in tanto in quanto l’uncinamento da stupefacenti lede “le condizioni fisiche (Asse II del DSM-III), provoca eventi psicosociali stressanti (Asse IV del DSM-III) e incide negativamente pure sul “funzionamento psicologico, sociale e lavorativo dell’individuo (Asse V del DSM-III). Ciononostante, Fornari (1989) ha reputato “troppo ampio” il “sistema di valutazione multiassiale del DSM-III”, nel senso che il tossicodipendente presenta quasi sempre un disagio esistenziale che non è “patologico” in senso stretto e che rinvia, piuttosto, a semplici distimie transitorie dell’umore o del carattere. In buona sostanza, secondo Fornari (1989), il disagio del tossicodipendente non va curato o, comunque, diagnosticato “iper-psichiatrizzando tutti i comportamenti”. Il predetto Autore reputa, quindi, in maniera auto-riduzionistica e fors’anche basagliana, che esiste, nel tossico, un sottile e perdurante disagio esistenziale che non si sostanzia in un “disordine mentale” medicalmente trattabile.
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Il mito della pericolosità psico-forense del (poli)tossicomane
Art. 203 C.P. - Pericolosità sociale
“Agli effetti della legge penale, è socialmente pericolosa la persona, anche se non imputabile o non punibile, la quale ha commesso taluno dei fatti indicati nell’Articolo precedente, quando è probabile che commetta nuovi fatti preveduti dalla legge come reati.
La qualità di persona socialmente pericolosa si desume dalle circostanze indicate nell’Art. 133 CP”
Art. 133 C.P. - Gravità del reato: valutazione agli effetti della pena
“Nell’esercizio del potere discrezionale indicato nell’Articolo precedente, il giudice deve tener conto della gravità del reato desunta
- dalla natura, dalla specie, dai mezzi, dall’oggetto, dal tempo, dal luogo e da ogni altra modalità dell’azione
- dalla gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato
- dalla intensità del dolo o dal grado della colpa
Il giudice deve tener conto, altresì, della capacità a delinquere del colpevole, desunta
- dai motivi a delinquere e dal carattere del reo
- dai precedenti penali e giudiziari e, in genere, dalla condotta e dalla vita del reo, antecedente al reato
- dalla condotta contemporanea o susseguente al reato
- dalle condizioni di vita, individuale, familiare e sociale del reo”
Secondo Traverso (1986), il concetto medico-forense di “pericolosità sociale” reca una funzione “mitica”, una “strumentale” ed una “paradigmatica”. Ovverosia, negli Artt. 203 e 133 CP, il soggetto infrattore è “miticamente” tale “in riferimento alla formazione di stereotipi e miti che concorrono […] a rafforzare le insicurezze del gruppo sociale di fronte alla violenza manifesta di qualche individuo”. Per esempio, tali sono i miti contemporanei del c.d. “sporco negro” o dell’“albanese ladro”.
Esiste, poi, sempre secondo Traverso (ibidem), una “funzione strumentale” “che legittima pratiche di internamento e di segregazione di individui pericolosi nelle strutture totalizzanti, in risposta a comportamenti violenti che minacciano l’integrità del corpo sociale”. Per esempio, si ponga mente all’inutile, neo-retribuzionista e abnorme Art. 123a BV, in Svizzera, in tema di internamento a vita del c.d. “sessuomane violento refrattario alla terapia”.
In terzo luogo, Traverso (ibidem) teorizza l’esistenza di una “funzione paradigmatica” della pericolosità sociale, “poiché l’etichetta [populista e politicizzata, ndr] della pericolosità ha la funzione, attraverso il processo di esclusione del soggetto, di restituire integrità al corpo sociale”.
A tal proposito, giustamente e senza volgari pregiudizi a-tecnici, Ponti & Merzagora hanno finalmente e sinceramente dichiarato che le patologie mentali non recano quasi mai ad una maggiore pericolosità “sia per la scarsa correlazione riscontrata tra malattia mentale e pericolosità, sia perché si è potuto dimostrare che il malato di mente [dunque anche il tossicomane] pone in atto, il più delle volte, reati di modesto allarme sociale, e non reati contro la persona; sia perché, infine, statisticamente, la delittuosità dei malati di mente non è superiore a quella della rimanente parte della popolazione definita normale […]: L’accertamento della pericolosità, pertanto, non è un atto di pertinenza psichiatrica”.
Pure Ponti (1994), lodevolmente, asserisce che gli Artt. 203 e 133 CP sono troppo spesso fatti dipendere “da falsi allarmi sociali attribuiti, nei vari momenti storici, a certe tipologie di delitti […]. Il concetto di pericolosità […] costituisce una nozione non scientifica, è un giudizio di valore che ha come scopo precipuo quello di rafforzare il controllo sociale, sulla base di un sentimento di minaccia”.
Oppure ancora, interessante è la posizione di Bernheim (1985), il quale reputa che non esiste pericolosità, bensì “predizione clinica di pericolosità, [ma] nel breve periodo”. Quindi, tale Autore francofono accetta solo una valutazione “a breve termine” e basata non solo e non tanto sullo stato mentale del reo, ma, più che altro, su condizionamenti ambientali, familiari e, più latamente, criminogeni.
Dunque, di nuovo, come si vede, uno o più disordini psico-forensi non determinano, automaticamente, una maggiore pericolosità sociale etero-lesiva ex Artt. 203 e 133 CP.
Sempre con attinenza alla ratio degli Artt. 203 e 133 CP, Bruno (1990) reputa quasi impossibile che il medico legale possa prevedere la pericolosità sociale “poiché le variabili del comportamento umano sono numerosissime e non tutte controllabili, e ciò riduce in modo netto la possibilità di valutarne la predizione [pur] applicando gli strumenti scientifici a disposizione”.
Lo stesso Bruno (ibidem) precisa che, nella maggior parte delle perizie psichiatriche, “la prognosi criminale è molto grossolana e fondata su atteggiamenti personali [del CTU e dei consulenti di parte], largamente variabili, suscettibili di influenze emotive e, pertanto, sottratti ad un procedimento di verificabilità”. In effetti, Fornari (1997) afferma, senza mezzi termini, che “non esistono rapporti di equipollenza tra malattia mentale e pericolosità sociale”.