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Trattamento di fine rapporto e crisi coniugale

Lago di Pilato (Sibillini)
Ph. Gianluca Scalpelli / Lago di Pilato (Sibillini)

Abstract

La sola previsione di legge espressa che, con riferimento alla crisi matrimoniale, riguarda l’indennità di fine rapporto maturata da uno dei coniugi, o degli ex coniugi, è quella contenuta all’articolo 12-bis della l. 898/1970. Tale previsione, peraltro, temporalmente si reputa applicabile unicamente quando l’indennità sia maturata dopo la domanda di divorzio. Oltre che dopo la domanda di divorzio, nondimeno, l’indennità di fine rapporto potrebbe essere maturata: dopo la separazione personale, ma prima della domanda di divorzio; prima della separazione personale. Ed in ognuna di queste ipotesi, al momento della crisi matrimoniale possono sorgere questioni, vuoi sull’eventuale ripartizione dell’indennità di fine rapporto tra i coniugi o gli ex coniugi, vuoi, più in generale, sulle conseguenze di essa sui rapporti patrimoniali tra coniugi, o tra gli ex coniugi.

 

Indice:

1. Indennità di fine rapporto e crisi coniugale

2. Maturazione del diritto al trattamento di fine rapporto prima della separazione personale, tra coniugi in regime di comunione legale

3. Maturazione del diritto al trattamento di fine rapporto: prima della separazione personale, tra coniugi in regime di separazione dei beni; dopo la separazione personale, ma prima della domanda di divorzio

4. Maturazione del diritto al trattamento di fine rapporto dal momento della domanda di divorzio in poi

 

1. Indennità di fine rapporto e crisi coniugale

Che sorte ha l’indennità di fine rapporto maturato da un coniuge, o da un ex coniuge, in caso di crisi matrimoniale del titolare di tale diritto? La sola previsione di legge, espressa al riguardo, è quella contenuta all’articolo 12-bis della l. 898/1970, nella quale, come è noto, si stabilisce, al primo comma, che “Il coniuge nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio ha diritto, se non passato a nuove nozze e in quanto sia titolare di assegno ai sensi dell'articolo 5, ad una percentuale dell'indennità di fine rapporto percepita dall'altro coniuge all'atto della cessazione del rapporto di lavoro anche se l'indennità viene a maturare dopo la sentenza” e, nel secondo comma, che “Tale percentuale è pari al quaranta per cento dell'indennità totale riferibile agli anni in cui il rapporto di lavoro è coinciso con il matrimonio”.

Oltre che dopo la sentenza di divorzio, nondimeno, l’indennità di fine rapporto di uno dei coniugi, o degli ex coniugi, potrebbe essere maturata: dopo la domanda di divorzio, ma prima della sentenza; dopo la separazione personale, ma prima della domanda di divorzio; prima della separazione personale.

Ed in ognuna di queste ipotesi, al momento della crisi matrimoniale, possono sorgere questioni, sulla sorte del trattamento di fine rapporto maturato dall’uno, vale a dire sull’eventuale ripartizione di esso tra i coniugi o gli ex coniugi, e, più in generale, sulle conseguenze di esso sui rapporti patrimoniali tra coniugi, o tra gli ex coniugi. Per poter capire se le soluzioni mutino, in ciascuna delle quattro ipotesi indicate sopra, peraltro, occorre chiarire l’àmbito di applicazione temporale dell’articolo 12-bis l. 898/1970 appena richiamato.

Secondo una lettura testuale che autorevole dottrina (Cattaneo, 243) aveva proposto di quella disposizione, già all’indomani della sua entrata in vigore (dovuta alla novella della legge sul divorzio, recata con l. 74 del 1987), infatti, quell’ “anche se l'indennità viene a maturare dopo la sentenza” (il corsivo è aggiunto) avrebbe significato che la percentuale dell’indennità sarebbe spettata, secondo le regole dell’articolo 12-bis, l. 898/1970, anche se l’indennità fosse maturata prima della sentenza, sia durante la separazione, sia durante la fase ancora “fisiologica” del matrimonio. Accogliendo questa lettura, perciò, con riferimento alla sorte dell’indennità di fine rapporto nella crisi tra i coniugi, sempre avrebbe trovato applicazione l’articolo 12-bis, l. 898/1970, indipendentemente dal momento di maturazione dell’indennità stessa. Questa non è stata, tuttavia, l’interpretazione su cui hanno convenuto la dottrina prevalente e la giurisprudenza, la quale, ormai unanimemente (tra le tante: Corte cost., 19.11.2002, n. 463; Cass., 7.6.1999, n. 5553; Cass., 29.9.2005, n. 19046; Cass., 14.11.2008, n. 27233; Cass., 16.12.2010, n. 25520; Cass., 29.10.2013, n. 24421; T. Ivrea, 6.5.2010), ritiene applicabile l’articolo 12-bis, l. 898/1970, soltanto nei casi in cui l’indennità sia maturata dalla domanda introduttiva del giudizio di divorzio in poi, e ciò, tra l’altro, in quanto l’espressione “anche se l'indennità viene a maturare dopo la sentenza” rappresenta un “ampliamento rispetto all’evidenza tipica in cui l’indennità maturi prima di tale momento e quindi all’epoca di proposizione della domanda di divorzio (o successivamente), con la sola eccezione per il caso in cui il beneficio in questione sia maturato prima di detta domanda” (A. Roma, 25.2.2009).

In conseguenza della lettura giurisprudenziale appena richiamata, allora, delle quattro ipotesi temporali ipotizzate sopra, possono restare soggette a regole differenti solo le tre seguenti: indennità maturata dal momento della domanda di divorzio in poi; indennità maturata prima della domanda di divorzio, ma dopo la separazione personale tra i coniugi; indennità maturata prima della separazione personale.

Ove il diritto al trattamento di fine rapporto sia maturato prima della separazione personale, altresì, è necessario delineare due scenari differenti: il primo è quello in cui tra i coniugi viga il regime di comunione legale; il secondo è quello in cui, viceversa, i coniugi siano in separazione dei beni.

 

2. Maturazione del diritto al trattamento di fine rapporto prima della separazione personale, tra coniugi in regime di comunione legale

Mi occupo, in questo paragrafo, del primo tra i due scenari tratteggiati alla fine del paragrafo precedente. è opinione unanime che anche l’indennità di fine rapporto rientri tra i proventi dell’attività separata del coniuge, e sia destinata, perciò, a cadere in comunione legale per la parte non consumata allo scioglimento della stessa [ex lettera c) articolo 177 codice civile]. Essa, in altri termini, rientra tra gli oggetti della comunione, c.d., de residuo, sicché, quanto dell’indennità non sia stato ancora consumato al momento dello scioglimento della comunione, va diviso tra i coniugi in parti uguali.

Ove si ricordi che, oggi, ai sensi dell’articolo 191, 2° comma, codice civile, come modificato dall’articolo 2, l. 55/2015, se la comunione si scioglie per separazione personale tra i coniugi, il momento esatto dello scioglimento è, o quello in cui il presidente del tribunale autorizza i coniugi a vivere separati, o quello in cui viene sottoscritto dai coniugi il processo verbale di separazione consensuale innanzi al presidente, ecco che, in uno o nell’altro di questi momenti, a seconda che la separazione sia giudiziale o consensuale, la metà di quanto non consumato dell’indennità di fine rapporto maturata (si noti, che, per la caduta in comunione de residuo, rileva il momento in cui l’indennità è stata maturata, e non quello in cui è stata percepita) da un coniuge, spetterà all’altro coniuge.

Una questione ulteriore, che non mi pare sia stata sino ad ora particolarmente evidenziata né in giurisprudenza né in dottrina, poi, potrebbe essere se al coniuge che non ha direttamente maturato il diritto all’indennità, spetti la metà di tutto ciò che, del t.f.r., residua allo scioglimento della comunione, oppure soltanto la metà di quella parte del residuo che possa essere riferita agli anni in cui il rapporto di lavoro, da cui il t.f.r. è derivato, è coinciso con il regime di comunione legale.

Per la spettanza della metà di tutto ciò che, del t.f.r., residua allo scioglimento della comunione, pare orientata – seppure senza porsi il problema dell’eventualità alternativa prospettata appena sopra – la, non copiosa, giurisprudenza (cfr., ad es.: T. Torino, 17.3.1999; T. Padova, 26.9.1985; Comm. tirb. Genova, 9.7.2004). La spettanza, al coniuge che non ha maturato l’indennità, unicamente della metà della parte del residuo di essa, che possa essere riferita agli anni in cui il rapporto di lavoro dell’altro coniuge è coinciso con il regime di comunione legale, nondimeno, potrebbe essere suggerita, pur in assenza di una norma espressa al riguardo, dalla funzione compensativa e partecipativa che, sovente, si ravvisa come fondante la comunione legale in generale, e la comunione de residuo in particolare. Come è noto, difatti, la ragione per cui il legislatore ha stabilito che, anche l’acquisto compiuto, manente comunione, da uno solo dei coniugi, cada immediatamente in comunione tra entrambi, è, di frequente, indicata nel fatto che, se quell’acquisto è stato possibile per un coniuge, lo si deve, comunque, anche ai sacrifici e agli sforzi dell’altro coniuge (a conferma di ciò, si ricorda come i cespiti che, ex articolo 179 codice civile, sono destinati a rimanere personali del solo coniuge che li ha acquistati, siano in larga parte accomunati dal dato che il loro acquisto non dipende e non è stato reso possibile dal sacrifico di entrambi i coniugi). Così, per i proventi dell’attività separata di un solo coniuge (e per gli altri cespiti destinati alla comunione de residuo), si è soliti affermare che essi debbano cadere in comunione allo scioglimento della stessa se non consumati prima, vale a dire in quanto risparmiati, poiché il risparmio realizzato da un coniuge è stato, pur esso, reso possibile dalla collaborazione e dai sacrifici dell’altro coniuge.

Tanto per gli acquisti immediati, quanto per i risparmi (rappresentati dai residui da dividere allo scioglimento della comunione), insomma, la funzione della disciplina è quella di compensare anche l’impegno, il sacrifico e lo sforzo, con i quali pure il coniuge non acquirente, o non direttamente “risparmiatore”, ha reso possibile, vuoi l’acquisto, vuoi il risparmio dell’altro. Ma allora, data questa funzione “compensativa” della comunione, anche de residuo, dalla comunione stessa dovrebbero sfuggire quei cespiti, il diritto ai quali ha le proprie radici in un tempo in cui non vi era ancora il matrimonio, o, comunque, non vi era il regime di comunione legale. Potrebbe sostenersi, quindi, che al coniuge, il quale non ha maturato l’indennità di fine rapporto, non spetti anche la metà di quella parte del residuo di essa, riferibile agli anni in cui il rapporto di lavoro dell’altro coniuge non è coinciso con il matrimonio, o, più precisamente, con il regime di comunione legale. Una tale interpretazione pare maggiormente coerente, altresì, con la natura di “retribuzione” posticipata che, comunemente, si riconosce all’indennità di fine rapporto: dubbio pare, difatti, che, per la parte di retribuzione percepita da un coniuge direttamente, prima del matrimonio, o comunque prima dell’insorgere della comunione legale, nessun dubbio possa esservi sulla non caduta in comunione, nemmeno de residuo, mentre per la parte di quella stessa retribuzione, destinata a confluire nell’indennità di fine rapporto, la regola debba essere, diversamente, la caduta in comunione, seppure de residuo.

 

3. Maturazione del diritto al trattamento di fine rapporto: prima della separazione personale, tra coniugi in regime di separazione dei beni; dopo la separazione personale, ma prima della domanda di divorzio

Tanto nel caso di maturazione del diritto al t.f.r. prima della separazione, ma in capo a un coniuge nel matrimonio del quale il regime sia quello della separazione dei beni, quanto nel caso di maturazione del diritto suddetto dopo la separazione personale, indipendentemente da quello che fosse in precedenza il regime patrimoniale della coppia, poi, non può ravvisarsi alcun diritto ad ottenere direttamente una parte del trattamento medesimo, in capo al coniuge che non l’ha maturato. In questi casi, difatti: per un verso, non può trovare applicazione la disciplina della comunione de residuo, poiché, nel primo di essi l’assunto è che il regime patrimoniale non fosse la comunione, e nel secondo è che la comunione, quand’anche vi fosse stata, al momento della maturazione del t.f.r. già si sia sciolta, in conseguenza della separazione; per altro verso, non può ancora trovare applicazione l’articolo 12-bis, l. 898/1970, in quanto si postula che, al momento della maturazione del diritto all’indennità, ancora non sia stata posta la domanda di divorzio.

Ciò non significa, nondimeno, che l’arricchimento portato al coniuge lavoratore dal t.f.r. non possa incidere sulla quantificazione, o sulla revisione, di un eventuale assegno di mantenimento, o sulla spettanza, e/o sulla quantificazione di un eventuale assegno post-matrimoniale. Questo può avvenire a favore del coniuge creditore dell’assegno, allorché il diritto al t.f.r. abbia migliorato le condizioni economiche del coniuge debitore (in questo senso, in più di un’occasione, si è pronunziata la giurisprudenza, in cui si legge, ad es., che “la riscossione dell'indennità di fine rapporto da parte del coniuge separato può solo incidere sulla situazione economica del coniuge obbligato e legittimare una modifica delle condizioni della separazione”: Cass., 29.7.2004, n. 14459; Cass., 10.1.2005, n. 285; Cass., 29.9.2005, n. 19046), ma, io credo, anche a favore del coniuge debitore dell’assegno stesso, nel caso in cui il diritto al t.f.r. sia stato maturato dall’altro coniuge. In questa prospettiva, inoltre, si dovrà comunque guardare al concreto miglioramento delle condizioni economiche del coniuge percettore del t.f.r., miglioramento che, si badi, potrebbe anche non esservi. Il miglioramento delle condizioni economiche apportato dal trattamento di fine rapporto, infatti, potrebbe, in concreto, venire, in tutto o almeno in parte, eliso dal peggioramento di quelle stesse condizioni, conseguente al passaggio, dal percepimento di una retribuzione, al percepimento di una, solitamente più modesta, pensione; passaggio che, in non pochi casi, è, di fatto, coevo alla maturazione del diritto al t.f.r.

 

4. Maturazione del diritto al trattamento di fine rapporto dal momento della domanda di divorzio in poi

Quando il diritto al trattamento di fine rapporto sia maturato dalla domanda di divorzio in avanti, infine, come già ricordato trova piena applicazione la previsione espressa dell’articolo 12-bis, l. 898/1970. L’ex coniuge che non ha maturato il diritto all’indennità, dunque, avrà diritto ad una percentuale di essa pari al quaranta per cento di quanto dell’indennità sia riferibile agli anni in cui il rapporto di lavoro è coinciso con il matrimonio, sempre che, al momento della maturazione del diritto all’indennità, non sia passato a nuove nozze e sia titolare di un assegno post-matrimoniale. Troppe, e troppo note, sono le critiche che questa previsione ha sollevato, per poter essere ora ricordate in dettaglio.

Basti far cenno all’incoerenza di indicare come presupposto per il diritto alla percentuale del t.f.r. il godere di un assegno post-matrimoniale, senza poi legare la misura della percentuale del t.f.r. alla misura dell’assegno che ne è il presupposto, sicché anche un assegno di ammontare assai esiguo può far sorgere il diritto, sempre e comunque, al 40% di parte del t.f.r. maturato dall’altro ex coniuge; o basti ricordare che il diritto alla percentuale fissa in parola, che ha anche un chiaro fondamento partecipativo e compensativo, come evidenzia il dato per cui la si deve applicare solo alla parte di indennità “riferibile agli anni in cui il rapporto di lavoro è coinciso con il matrimonio”, sorge a prescindere da quello che fu il regime patrimoniale della coppia, senza che si tenga conto, vale a dire, che i coniugi che avessero optato per il regime di separazione dei beni, avevano, con ciò, respinto da subito la prospettiva di reciproca partecipazione dell’uno ai cespiti dell’altro. Ma, al di là delle molte critiche che la previsione ha sollevato, essa vige, ed è, tutto sommato, chiara nella propria portata (ha dovuto precisare la Cassazione, nondimeno, “che il sorgere del diritto alla quota dell'indennità di fine rapporto non presuppone la mera debenza in astratto di un assegno di divorzio e neppure la percezione, in concreto, di un assegno di mantenimento in base a convenzioni intercorse tra le parti, ma presuppone che l'assegno sia stato liquidato dal giudice”: Cass., 1/8/2008, n. 21002).

Conviene ancora ricordare, unicamente, come la Corte costituzionale abbia, da tempo, illuminato un aspetto originariamente oggetto di discussione, vale a dire la rilevanza del periodo di separazione personale, al fine di determinare la parte di indennità a cui applicare la percentuale del 40%, stabilendo che si debba guardare alla coincidenza tra rapporto di lavoro e matrimonio, comprensivo anche del periodo di separazione legale (Corte cost., 24.1.1991, n. 23).

Letture consigliate:

G. Cattaneo, La nuova legge sul divorzio, in Quadrim., 1988, p. 240 ss.

G. Conte, Sul diritto del coniuge divorziato a una quota dell'indennità di fine rapporto spettante all'altro coniuge, in Giur. it., 2000, I, p. 2060;

M. Moretti, L’indennità di fine rapporto, in G. Bonilini – F. Tommaseo, Lo scioglimento del matrimonio, Milano, 2010, III ed., p. 1089 ss.

A. Tullio, La così detta comunione de residuo, in Tratt. dir. fam., diretto da G. Bonilini, vol. II, Milano, 2016, p. 1239 ss.;

G. Bonilini, Manuale di diritto di famiglia, Milano, 2018, VIII ed., p. 300.