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Umiltà

Instambul
Ph. Simona Balestra / Instambul

«Ciò che è in basso è come ciò che è in alto e ciò che è in alto è come ciò che è in basso per fare il miracolo della cosa unica». Questo frammento proviene dalla Tavola smeraldina, un testo sapienziale di datazione incerta, che molti ritengono risalga all’era precristiana.

Attribuita a Ermete Trismegisto, la Tavola smeraldina è forse il documento più famoso tra gli scritti ermetici che tanta influenza hanno esercitato in epoca umanistica. Come non ricordare che Marsilio Ficino ha tradotto il Corpus Hermeticum, uno dei testi fondamentali dell’esoterismo, attribuito anch’esso a Ermete Trismegisto.

Il frammento riportato in esordio sembra essere stato letto e interpretato perlopiù in ambito filosofico e teologico, dove richiamerebbe non soltanto l’unitarietà dell’uomo con la natura, ma implicherebbe altresì conseguenze rilevanti circa il rapporto tra la natura umana e quella divina. Dopo il successo avuto nel periodo umanistico-rinascimentale, il Corpus Hermeticum, per secoli quasi dimenticato, viene riscoperto nel ’900, quando si accerta l’origine autenticamente egizia di almeno di parte del testo.

Da ultimo, viene ampiamente citato da un autore contemporaneo, che ha scelto quale pseudonimo il nome di un grande umanista – Filelfo – in quel piccolo capolavoro che è “L’assemblea degli animali”. Si tratta di una favola contemporanea, che ripropone l’idea di unitarietà e di somiglianza tra ciò che è in basso e ciò che è in alto, sollecitando, a partire da ciò, una riflessione inedita sul rapporto tra uomo e ambiente e orientando lo sguardo sulla dimensione della cura che gli esseri umani debbono avere nei confronti del mondo animale e vegetale, della natura e dell’ambiente.

Ma l’arcano della Tavola smeraldina comunica, forse, qualcosa di ancora più prezioso dell’unitarietà del tutto e dell’esistenza di un’anima mundi. Evoca, in filigrana, una qualità o meglio una capacità essenziale e irrinunciabile dell’essere umano: l’umiltà.

L’etimologia del termine rimanda alla terra, all’humus fecondo, alle nostre radici, al fatto che abitiamo una “casa” comune di cui siamo chiamati ad essere custodi, non già proprietari, men che mai padroni.

È una qualità, quella dell’umiltà, mite e sommessa eppure ha in sé qualcosa di grandioso: riconduce l’essere umano alla sua matrice antropologica legata alla terra e, con ciò, all’idea di rinascita, di potenzialità, di sviluppo ciclico, secondo un pensiero vitale.

Nella vita quotidiana, nelle relazioni, in ambito lavorativo, l’umiltà – quando non è un atteggiamento, un vezzo o uno schermo per mascherare supponenza e presunzione – è una qualità generativa, che apre all’ascolto, al dialogo, all’agire cooperativo.

La vera umiltà è naturale, non ha bisogno di parole, di proclami o di gesti simbolici: è semplice. È come acqua di sorgente, trasparente e incontaminata, o come un’alba carica di promesse. Non è il sole di mezzogiorno e neppure un tramonto di fuoco, ma la luce soffusa del crepuscolo che prepara all’attesa paziente di una nuova alba.

Umiltà è la capacità di disvelarsi senza artificiosità o intenti dimostrativi, è la capacità di raccontarsi con parresia, di mostrare senza paura la propria vulnerabilità, è l’arte di aspettare e di accogliere, è la capacità di ascoltare senza giudizio e di negoziare, è attitudine a fare spazio agli altri; implica la “sapienza” di continuare ad imparare e la saggezza di affrontare le avversità traendo insegnamento dagli errori senza smarrire la speranza.

Come il seme a contatto con la terra umilmente da frutto, così il nostro atteggiamento dovrebbe gettare nei solchi della giornata semi che schiudano possibilità di crescita attenta, collettiva, sostenibile, orientata al bene comune, in modo che ciò che è in basso sia il più possibile come ciò che è in alto.