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Un avvocato ha il diritto di difendere un assassino?

Venezia
Ph. Riccardo Radi / Venezia

È sempre stato così o è una deriva degli ultimi anni? All’interrogativo rispondiamo con il pensiero illuminante di Alessandro Galante Garrone che delinea un confine morale per l’uomo avvocato e per l’uomo pubblico ministero.

 

In questi giorni le minacce all’avvocato di Perugia, ieri ai colleghi di Roma, l’altro ieri al legale di Taranto e via di seguito. La cartina degli avvocati minacciati, vilipesi alla pubblica gogna dei social continua inesorabile e le “indignazioni” dell’avvocatura, in concreto, a poco servono per colmare il solco che divide chi esercita la nostra professione e il comune sentire della comunità di cui facciamo parte.

Basta invocare il diritto alla difesa sancito dall’articolo 24 della Costituzione per placare il clima d’incomprensione che alle volte sfocia in odio? Non si direbbe e allora bisogna interrogarsi sul ruolo dell’avvocato e sulla sua percezione nella società, di cui è parte imprescindibile, quale mastino a guardia delle regole.

Invocare la difesa tecnica sembra non bastare, secondo Alessandro Galante Garrone il tema senza scappatoie, sofismi e nebulose premesse è un altro: può un avvocato sostenere l’innocenza dell’imputato che egli sa, con assoluta certezza essere colpevole?

Alla domanda rispondiamo provocatoriamente con la riflessione dimenticata di Garrone: Un avvocato ha il diritto di difendere un assassino?

Le parole di Garrone risalgono al marzo del 1961, sono trascorsi 60 anni e il tema è sempre lo stesso; esiste un limite invalicabile per l’avvocato?

Se esiste, deve essere ricordato o il ruolo dell’avvocato di per sé non ha alcun confine, finanche morale, da rispettare?

Può l’avvocato sostenere l’innocenza dell’imputato che egli sa, con assoluta certezza, essere colpevole?

Ai quesiti risponde un protagonista della Resistenza, magistrato e storico con queste parole ignorate dai più, rivolte agli avvocati e agli accusatori:

Un lettore di Padova ha posto nei giorni scorsi un quesito a un autorevole settimanale cattolico. Può un avvocato accettare di difendere un assassino che gli abbia confessato il suo delitto, o – aggiungiamo noi – della cui colpevolezza egli abbia acquisito, nella propria coscienza, la certezza assoluta? E difenderlo sul piano dell’innocenza, sostenendo che il suo cliente non è autore di quell’assassinio che egli pure sa essere stato da lui commesso?  È un quesito che può essere posto in termini ancora più generali, per qualsiasi delitto e che nella sua assolutezza di problema morale, va considerato senza alcun riferimento ai fatti di cronaca e alle vicende giudiziarie che forse lo hanno ispirato.

La risposta al quesito non mi par dubbia, come dirò più avanti. Ma innanzi tutto occorre sbarazzare il campo da altre questioni, che con la prima vengono spesso confuse.

In primo luogo, il buon avvocato non può mai schermirsi dal prestare la sua opera di difesa del delinquente anche più detestabile, accusato del delitto più atroce. Ricordo a questo proposito, alcune belle pagine di un libro recente, Au banc de la defense, di un grande avvocato francese, René Floriot.

In questi casi orrendi spiegare ai giudici le lontane scaturigini e i moventi prossimi del misfatto, illuminarne l’ambiente familiare o sociale, battersi per tutte le possibili attenuanti, suscitare una pietosa comprensione umana, trarre alla luce, dalla tetra voragine del male, anche solo un barlume di umanità dell’incolpato, e uno dei doveri più alti del difensore. E direi che tanto più abietti sono, o appaiono, il delitto e il delinquente, tanto più alta, e quasi sacra, è l’opera dell’avvocato.

L’accanimento contro quest’ultimo per averne assunto la difesa ricorda il ridicolo sdegno delle folle che un tempo all’uscita dei teatri, aspettavano il ‘traditor È del melodramma per castigarlo.

C’è poi il caso in cui l’avvocato non ha, non può avere la certezza assoluta della colpevolezza del suo difeso. Sono casi assai più frequenti di quanto comunamente non si creda. Per un complesso di ragioni psicologiche che qui non è il caso di esporre l’imputato colpevole non confida quasi mai la verità neppure al proprio difensore.  È bensì vero che l’avvocato esperto spesso percepisce (spesso ma non sempre), al di là di tutte le appassionate proteste di innocenza, e gli aggrovigliati discorsi del suo cliente, la realtà dei fatti. Ma un dubbio, per quanto evanescente, può sempre sussistere, anche quando tutto sembra cospirare contro l’imputato, e conclamarne la colpevolezza. Se quel dubbio si è insinuato nella coscienza dell’avvocato, e resiste a ogni assalto della logica, egli deve battersi per rafforzarlo in sé, nei giudici, in tutti.

La stessa confessione resa dall’imputato alla polizia, o al giudice, perfino la confidenza fatta in segreto al difensore può essere frutto di coartazione o di suggestione o di errore, o di una mente malata o sconvolta o di una misteriosa volontà di espiazione, o dell’ignorato proposito di salvare altri dall’accusa.

Tutto questo è accaduto infinite volte. E dunque, se un filo di dubbio c’è, è legittimo, e anzi doveroso prospettarlo al giudice con energia.

Ma il primo problema da cui ci siamo mossi è un altro: può l’avvocato sostenere l’innocenza dell’imputato che egli sa, con assoluta certezza, essere colpevole?  È questo un interrogativo morale, che non tollera scappatoie evasive, ed esige una risposta netta: sì o no. E per noi non c’è dubbio che la risposta debba essere no.

Lo ha detto molto bene un avvocato fiorentino Ugo Castelnuovo Tedesco, nel suo bel libro L’udienza è tolta: «A mio giudizio, una volta impostato il problema sul piano morale (e così infatti si deve), esiste una formula sola: non si può. Quando l’avvocato onesto sa con sicurezza che un certo imputato è realmente colpevole del delitto che gli si ascrive, non riesce a vedere che due vie d’uscita: o l’imputato accetta di essere difeso su un piano diverso, che non sia l’innocenza, o, altrimenti, c’è bensì una menzogna che è permessa anche all’avvocato, ma è una sola: sta nell’inventare un’altra ragione per cui dichiarare … che rinunzia alla causa. Dichiarare che si rinunzia alla causa perché l’imputato è colpevole? Mai, naturalmente. Ma mai nemmeno sostenere che è innocente quando si è sicuri che è colpevole».

Questo, mi pare, è il chiaro discorso dell’onestà; e dovrebbe valere per tutti gli avvocati, di qualsiasi fede essi siano. Ogni altra ragione addotta in senso contrario finisce per acquistare un sapore di sofisma. A ben guardare, la risposta affermativa al quesito di cui si è detto nasce da una svalutazione totalmente pessimistica della giustizia umana, da un’indebita applicazione dell’evangelico nolite iudicare. Ma un giudice onesto, un avvocato onesto, che crede nella sua professione, non la può accettare.

Non basta dire, come sembrava dire quel settimanale: ognuno faccia la sua parte, l’accusa porti argomenti a carico, e la difesa si sforzi di annullarli, contrapponendovi altri argomenti. Un ragionamento siffatto ha il difetto di concepire il giudizio come un meccanismo, un congegno di pesi e di contrappesi. Nel processo (ed è questa, moralmente, la sua sola giustificazione), ognuno, dal suo banco si deve battere sempre e soltanto per la verità, o almeno per quella che Castelnuovo Tedesco ha chiamato molto bene la speranza di verità.

La sentenza sarà quel che sarà; ed è incontestabile che la verità del giudicato è puramente fittizia, convenzionale, e potrà anche divergere toto coelo dalla verità reale, come purtroppo ci dimostra la frequenza stessa degli errori giudiziari. Ed è anche verissimo che, data la possibilità dell’errore, è mille volte meglio l’assoluzione di un colpevole che la condanna di un innocente. Ma questa ovvia considerazione, se deve indurre il giudice a un’estrema cautela, e, nel dubbio, all’assoluzione, non può convertirsi in una giustificazione del difensore che si proponga di alterare, deliberatamente, la verità.

La sentenza non deve essere il risultato di una formale schermaglia, di una partita fra l’accusa e difesa, condotta secondo certe regole, e imparzialmente risolta da un arbitro come su un campo di gioco; bensì la conclusione di una battaglia in cui ognuno – l’accusa, la difesa, il giudice – mette la sua ansia, la sua speranza di verità: umilmente consapevole della sua infinita pochezza umana, della fragilità e fallacia dei suoi strumenti, ma orgogliosamente persuaso della moralità del proprio agire.

Fingere una convinzione che non si ha, cercar di barare al gioco, di far apparire bianco quel che si sa essere nero, proporsi la condanna o l’assoluzione come fine a se stessa, è, mi si passi il termine, un imbroglio. Non è neanche detto che questo sia, alla lunga, un sistema efficace ai fini stessi che ci si prefigge: perché il giudice finisce per avvertire, sotto le perorazioni del difensore o le apostrofi dell’accusatore, il vuoto morale, l’insincerità, l’artificio.

E se qualche volta gli accade di lasciarsi ingannare (penso specialmente a certi giurati sprovveduti e istintivi), la società non ha di che compiacersi – dato il permanente interesse generale che il colpevole sia condannato e l’innocente assolto -, né lo stesso avvocato (o accusatore) di che inorgoglirsi. Egli avrà, formalmente, vinto; ma la morale è stata offesa, ed egli stesso, nella sua dignità di uomo, irreparabilmente sconfitto”.

Alessandro Galante Garrone La Stampa 29 marzo 1961