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Verso un diritto amministrativo «paritario»?

pubblica amministrazione
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Più di quarantacinque anni fa, Feliciano Benvenuti, tra i più importanti amministrativisti italiani, dava alle stampe un saggio in cui venivano delineati i contorni di un diritto amministrativo «paritario», di un modello dei rapporti tra cittadino e pubblica amministrazione, cioè, non più fondato sulla subordinazione gerarchica, ma segnato da una tendenziale equiparazione e parificazione. Da allora, il diritto amministrativo «paritario» ha rappresentato una meta ideale: come ogni ideale, impossibile da realizzare se non in forme imperfette e pertanto sempre perfettibili. Il punto più “alto” di questo percorso è stato raggiunto con la legge n. 241/1990, la legge fondamentale sul procedimento amministrativo, ispirata – come si è incaricato di esplicitare da ultimo il legislatore nel settembre 2020 – all’idea per cui i rapporti tra il cittadino e la pubblica amministrazione sono improntati ai principi della collaborazione e della buona fede reciproche.

Dunque, nonostante tutte le sue imperfezioni, ma anche grazie a tutti i suoi successivi perfezionamenti, la legge n. 241/1990 – come osservato dalla migliore dottrina – ha rappresentato lo strumento per colmare la distanza e la separatezza tra amministrazione e soggetto privato, facendo di quest’ultimo una sorta di “co-amministratore” e ponendosi così in linea con la visione contemporanea di una società aperta. Tuttavia, la legge n. 241/1990 ha incontrato e continua a incontrare resistenze e fraintendimenti non solo in sede attuativa, ma anche giurisdizionale. Valga l’esempio della recente sentenza del Tar Lazio, sez. I-Quater 6 aprile 2021, n. 04025. Oggetto della controversia era l’autorizzazione alla costruzione di un impianto fotovoltaico concessa al termine di una conferenza dei servizi (istituto che proprio la legge n. 241/1990 disciplina in un’ottica di maggiore efficienza dell’azione amministrativa); contro questa autorizzazione, aveva presentato opposizione il Ministero per i Beni e le Attività culturali, così innescando l’attivazione di un ulteriore procedimento di composizione di fronte alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Senonché, come dedotto in giudizio dal beneficiario dell’autorizzazione, l’opposizione era stata proposta ben oltre il termine di dieci giorni fissato dall’art. 14-quinquies comma 1 l. n. 241/1990: ciò avrebbe dovuto condurre all’accertamento dell’esaurimento del potere stesso di opposizione da parte del Ministero e, per l’effetto, al consolidamento del provvedimento autorizzativo a beneficio della società privata. Di contro, il Tar Lazio ha respinto la domanda, affermando la natura solo ordinatoria e non già perentoria del termine di legge. Non vi è dubbio che i termini ordinatori esistano, ma se in un procedimento volto a comporre rapidamente i diversi interessi in gioco e all’esito del quale deve autorizzarsi l’esercizio di un diritto costituzionalmente garantito (la libertà di impresa), a una delle amministrazioni partecipanti viene riconosciuto un potere di opposizione esercitabile nei fatti sine die, viene il dubbio che quella collaborazione e quella buona fede cui la legge n. 241/1990 vuole informati i rapporti tra il cittadino e la pubblica amministrazione non siano più reciproche, bensì a carico (a discapito, si direbbe) solo del primo.

Il cammino verso un diritto amministrativo «paritario» è allora ben lungi dall’essere concluso.

Questo dovrebbe invero incrociarsi con quello di rinnovamento della macchina amministrativa al centro del Piano Nazionale di Ripresa e di Resilienza. In un’intervista al Sole 24 ore di un paio di settimane fa, il Ministro Renato Brunetta ha opportunamente affermato che «alla riforma della Pubblica Amministrazione è attribuibile il 70 per cento dell’effetto delle riforme strutturali». Eppure, l’occasione della riorganizzazione della P.A. non dovrebbe misurarsi solo con calcoli sull’efficacia e sull’efficienza della macchina amministrativa, ma anche e soprattutto con riflessioni di sistema sul tipo di rapporto che si vuole promuovere tra cittadino e pubblica amministrazione. Il PNRR sembra avere correttamente individuato gli obiettivi da raggiungere (liberalizzazione, semplificazione, nonché “reingegnerizzazione”, uniformazione e digitalizzazione delle procedure), ma in esso manca un’apprezzabile chiarezza sui modi con cui conseguirli.

Peraltro, non si deve dimenticare che alcuni degli obiettivi menzionati nel PNRR sono abbastanza noti, e anche i provvedimenti ad essi collegati sono già stati impiegati nel passato, al punto che la loro (stanca) riproposizione potrebbe condurre a esiti per certi versi paradossali. Per fare solo un esempio, si pensi al fatto che nel PNRR viene annunciata un’estensione dell’ambito di efficacia del «silenzio assenso» (altro istituto regolato dalla legge n. 241/1990), al quale però sembra possa ora accompagnarsi una apposita “certificazione”. Si tratterebbe di una illogicità (il silenzio assenso è un comportamento omissivo che realizza automaticamente gli effetti provvedimentali che la legge gli attribuisce), che finirebbe per svuotare di significato l’istituto stesso. Tuttavia, è fondata la preoccupazione che anima questa ipotesi, giacché fondato è il rischio che dietro il beneficio riconosciuto dalla P.A. si celi solo una inerzia colpevole e ingiustificata del funzionario, e che pertanto la stessa P.A., riscontrata una violazione di legge, agisca in autotutela, così vanificando l’affidamento del privato.

Fronteggiare con soluzioni raffazzonate e d’occasione i problemi che ostacolano il cammino verso un diritto amministrativo autenticamente «paritario» è quanto di più inadeguato possa esserci. Governo e Parlamento dovrebbero mostrare la maturità culturale e il coraggio politico necessari per versare vino nuovo in otri nuovi, anziché accontentarsi di vino non ancora divenuto aceto e di otri che, evidentemente consumati, sono ormai sul punto di cedere. Ripartire da Benvenuti potrebbe essere allora il primo passo da compiere.