Viaggi da fermo
Nella rubrica “In casa e fuori”, gli argomenti svariano dalla politica internazionale a pagine di diario, da avventure della vita di tutti i giorni al racconto di una mostra, a momenti intimi di riflessione a descrizioni quasi commoventi sul paesaggio italiano che sta cambiando … Per questo oggi vi proponiamo un articolo che sfiora il “flusso di coscienza”, quasi condividendo insieme un momento, realmente, che va da “casa” a “fuori”.
Nella casa alta sulla collina, la posta arriva di rado. A volte, quando qualcuno va in città ne torna con un sacchetto pieno: quella giunta in casa, e quella rimbalzata lì da parti diverse: dalla redazione di Milano, dalla scuola ce n’è che ha fatto giri di un mese e più per raggiungermi. “Beato lei che è sempre in giro”, sospira una lettrice che ancora crede nella bellezza e utilità dei viaggi.
Io, invece, mi glorio e mi godo di questi sette-otto giorni di immobilità come i migliori dell’anno. Me li avvelena, in verità, la malattia della mia vecchia Mercedes, che, del tutto incurante degli elogi che le avevamo rivolto al compimento dei trecentomila chilometri senza guai, ha voluto ammonirmi che ormai è esausta e s’è abbandonata a una serie di stravaganze e collassi: ora giace in una officina della costa adriatica, dove le rifanno il motore per allungarle la vita di qualche semestre.
Credo nell’animismo ario, sono capace di amare le cose come e più delle persone, avrei pensato, in un caso come questo, d’intonare un’elegia all’anziana vettura. Invece, mi limito a soppesare il fastidio che la sua mancanza mi procurerà nel prossimo viaggio: delle tre incognite (treno, taxi, aereo) di che uno spostamento per servizio si compone, coi relativi tributi da pagarsi alla genialità della stirpe, alla libertà individuale e all’espressione delle proprie opinioni (scioperi, terrorismo, dirottamenti), la vecchia macchina me ne risparmiava due, portandomi sotto l’aeroplano, semmai questo avesse voglia di partire. Ora è là, ferma, dietro il primo colle, e anche il secondo e il terzo, e dietro la bruma che il calore solleva ancora, nonostante il settembre avanzato. Rinuncio all’elegia, e rinuncio anche a chiedermi chi sia stato.
“Jettare” viene dal latino “jactare”, gettare. Quattro anni a Napoli non passano invano, e a questo punto Paolino Isotta avrebbe almeno tre o quattro imprudenze da rinfacciarmi. Hai fatto questo, hai promesso quell’altro, hai scritto a Tizio, sei stato con Sempronio: in graduatoria, si sa.
“Beato lei che è sempre in giro”: Non è mica vero, non sono sempre in giro, ci vado ormai meno che posso. Adesso, poi, ci hanno tolto anche la Pan American. Ne posso parlare bene, tanto non c’è più lo scalo, e nessuno potrà incolparmi di immoralità pubblicitarie.
Per me, e dal più rotondo sedere dell’orbe, passò a raccontarmi come sia bella la religione cattolica. Io, che avevo già opinioni irrimediabili, tentavo di deviare il discorso, senza riuscirci.
“Tocca la croce”, mi diceva lei segnando un pesante crocifisso che recava in mezzo al seno. Nessun doppio senso, la Corea non è come l’Italia, voleva dire la croce, e la croce soltanto.
Dio mio, stavolta credo di essere ubriaco. Ho passato la mattinata immerso in tutte le attività comprese tra la pittura a olio da cavalletto e l’imbianchino. Alle sette e mezzo mi sono alzato, ho impostato una tela col castello di Sorrivoli e la valletta del Rubicone. (Fa parte della sindrome dei cinquanta, cercare consolazione della pittura. Ma il guaio è che non ci si accontenta della propria condizione di dilettante).
Poi, sono passato a ridipingere le parti della casa che perdono il colore. Ed è molto peggio. Il lavoro manuale smemora e avvilisce, si finisce per accontentarsi di ruvide apparenze, miseri risultati. Cotto dal sole e dalla fatica, ritorno al colonnino, vorrei raccontare uno dei viaggi da fermo che faccio di qua. Mi basta viaggiare, i grandi viaggi sugli oceani voleva dire Pan Am. Il fatto che abbiano tolto lo scalo di Roma perché non “remunerativo”, accresce la mia solitudine. Non era facile appassionarsi alla Pan American. Non è una di quelle linee aeree civettuole, coi gerani ai balconcini e la hostess vestite da fate. Sbrigativa, a volte brutale, era servita da ragazze uniformemente attraenti, efficienti come pistoni, rapide eliche. Non portavano addosso né manti, né veli, né pepli, ma solidi e prosaici grembiuli celesti.
All’incauto che tentasse i rancidi approcci della seduzione, rispondevano con ghiaccio professionale che inceneriva. Eppure, sapevano anche riconoscere i forzati del cielo, rincantucciati nel loro angolo, e talvolta pareva che si proponessero di riscattare la categoria della fama del civismo professionale che i vecchi clienti avevano rinunciato a scalfire.
Allora, sulle ultime file vuote di poltrone, nelle notti dell’Asia, mentre sul Pamir e l’Himalaya il cielo scoppiettava in lampi lenti e lunghissimi, filacciose come lasagne, e fiorivano affettuosità e confidenze impreviste, la cambusa di bordo si apriva e ne veniva fuori il whisky nelle grandi bottiglie. Una notte intera, una coreana dal viso rotondo, una cartolina per accendere la miccia. Come questa, di Leo H. il figlio degli amici di Monaco, aspirante archeologo e filologo classico, che mi scrive da Sparta.
Sparta, sì. Afferro l’Itineraire di Chateaubriand, che sta alla Grecia come il Viaggio di Goethe all’Italia, giusto in tempo per accorgermi che lo spazio, in questo mio vagabondare tra le righe, è finito. Farò un’eccezione, ne parlerò un’altra volta.
Da “Il Giornale”, 12 settembre 1980