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AAA Canaletto on sale causa bilancio in rosso

Canaletto
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“La necessità aguzza l’ingegno” recita un antico adagio, cui il mondo dell’arte statunitense si sta   ispirando per rimpinguare le casse dei musei, depredate dalla pandemia.

L’approccio mediterraneo per ridare linfa vitale al settore artistico-museale, in conclamata sofferenza, è diverso.

Pragmatismo made in USA vs idealismo del Vecchio Continente: due modelli a confronto

Nell’Europa in pieno lockdown ha suscitato non poco sconcerto, tra gli addetti ai lavori, la proposta di un esperto parigino: mettere in vendita la Gioconda per almeno 50 miliardi di euro.

Una sorta di provocazione che, benché con il nobile scopo di utilizzarne il ricavato per il pronto soccorso al sistema cultura (ormai al boccheggio), è stata subito accantonata come una boutade impertinente.

L’impossibilità per i musei di alienare le proprie opere d’arte per risanare la propria situazione finanziaria corrisponde infatti non solo ad un divieto giuridico (mitigato al nord da un indirizzo più tollerante), ma è per retaggio un convincimento profondamente radicato, una specie di tabù.

Tabù che, al di là dell’oceano, alcuni art museums, in ginocchio per la recessione, stanno infrangendo, onde scongiurare la chiusura definitiva. E non sono episodi isolati.

Ad autorizzare ufficialmente la vendita è intervenuta, in prima linea, l’associazione di categoria AAMD, la quale, nel constatare il generale malessere da forte indebitamento, ha dato il placet (temporaneo: fino all’aprile 2022) al libero mercato dell’arte.

Con i cospicui proventi si potranno pagare i dipendenti, far fronte alle spese di funzionamento, manutenere gli edifici e porre in essere il necessario per la sopravvivenza dell’istituzione stessa.

Oltre il deaccessioning: il NY Metropolitan Museum e la vendita del Canaletto

È una rivoluzione che scompagina l’assetto pre-covid.

Tecnicamente si chiama deaccessioning ed è il brillante strumento di autofinanziamento, regolato da particolareggiate guidelines, che permette lo smembramento di collezioni permanenti per ricavarne liquidità, spendibile unicamente per l’acquisto di altre opere d’arte.

Fenomeno che, in questi ultimi anni, ha interessato fior di musei del Nuovo Mondo, a testimonianza di una trasformazione parzialmente già in atto.

La crisi ha pigiato il piede sull’acceleratore. Gli americani sono maestri di realismo e di fronte al sacrificio del patrimonio artistico per la salvaguardia del capitale economico non c’è santo che tenga.

Al richiamo “business is business” si è prontamente arruolato “The MET”: per coprire le ingenti perdite (si ipotizza un buco in bilancio per 150 milioni) urge iniettare in circolo dollari e fiducia.

Le entrate non andranno all’acquisto di altre opere; occorre affrontare la sfida sostenendo il museo nel suo insieme, in particolare il suo personale” ha annunciato il direttore Hollein.

Difendere lo status quo e pagare gli stipendi: è così che, con altri quadri, anche “Santa Maria della Salute” del Canaletto è stata messa all’asta su Sotheby’s.

Si tratta di un olio su tela del 1740 raffigurante una “veduta” (tra le varie dipinte nell’arco di un ventennio) dell’elegante basilica di Punta della Dogana sul Canal Grande, in una nitida Venezia alle prime luci del mattino.

A est, in primo piano, la facciata rischiarata dal sole nascente; sul fondo della prospettiva il profilo dell’abitato. Tutt’intorno la laguna con in risalto il bacino di San Marco che abbraccia barche e gondolieri.

Uno scorcio di paesaggio urbano forse per immortalare un souvenir di viaggio del turista straniero di turno (ci vorrà ancora un secolo per l’invenzione della fotografia e delle cartoline), secondo la moda dell’epoca.

È la Serenissima del Casanova in cui ogni dettaglio è fascino e raffinatezza.

Stima: dai tre ai cinque milioni di usd. Non abbastanza per risollevare le sorti del colosso in affanno, ma pur sempre un’aggiustata per saldare uno dei tanti conticini in sospeso.

... nel frattempo in Italia

Al cospetto dell’operazioneArt on sale” la perplessità regna sovrana.

Nel Belpaese, in cui l’arte è parte integrante del corredo genetico, gli strumenti di contromisura al devastante urto pandemico sono altri (stanziamento di fondi, erogazione di contributi, agevolazioni fiscali ...) e di altra natura, prettamente pubblicistica.

Il codice etico Icom è eloquente al proposito: i musei sono enti senza scopo di lucro e al servizio della società, il cui precipuo compito è assicurare la conservazione e la valorizzazione del patrimonio culturale dell’umanità; ragion per cui “le collezioni non possono essere considerate fonte di reddito”.

Ci si ferma, insomma, a rarissimi casi di simil-deaccessioning; il Codice dei beni culturali sgombra ogni dubbio: le opere d’arte sono beni inalienabili di proprietà dello Stato.

Oltre non si va. “L’arte in cambio del pane” è una pratica giuridicamente vietata, concettualmente inconcepibile, eticamente e socialmente inaccettabile (nonché percepita quasi come riprovevole).

Il pensiero che un Leonardo, sottratto al comune patrimonio ed al pubblico godimento, possa finire nel salotto buono di qualche ricco privato a sfoggio d’agiatezza è quanto di meno democratico si possa immaginare: la cultura accessibile a tutti rimane, anche in tempi di “carestia”, il nostro baluardo inespugnabile.

Costi quel che costi.