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Libera circolazione: annullamento dell'attestato

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Il 28 gennaio da Sotheby’s è stato venduto per 92,2 milioni di dollari il “Ritratto di giovane uomo che tiene un tondo” di Sandro Botticelli.

L’effigiato potrebbe essere un componente della famiglia Medici, forse Giovanni, fratello di Lorenzo. Così fu esposto per la prima volta alla mostra, Italian Art and Britain, alla Royal Academy of Arts di Londra nel 1960, no. 345 ("Portrait of Giovanni di Pierfrancesco de’ Medici").

Le prime tracce del dipinto risalgono agli anni trenta dove viene registrato nella collezione di Lord Newboroug in Galles, a cui era pervenuto via successoria dal primo Lord, Sir Thomas Wynn, un antenato che visse in Toscana nel 1782 e il 1791 e che lì parrebbe averlo acquistato.

Un patrimonio nazionale ancora una volta venduto al miglior offerente senza possibilità di appello perché esportato all’estero prima dell’entrata in vigore della legge 185 del 12 giugno 1902 quando, “numerose “opere grandi e belle sono partite già per l’esilio, ma senza apparire innanzi agli uffici per l’esportazione, i quali sono paragonabili a tele di ragno in cui si impigliano i moscerini, mentre i mosconi le sfondano” [[1]].

Ma cose accade alle molte opere esportate, con un attestato di libera circolazione di cui all’articolo 68 Codice dei Beni Culturali, come opere di scuola, di bottega o copie postume, che vengono, poi, correttamente o diversamente attribuite fuori dai confini magari a un grande maestro?

Occorre premettere che il rilascio dell’attestato o il diniego, con conseguente avvio del procedimento di dichiarazione, la cui ratio è la difesa del patrimonio culturale italiano dal depauperamento conseguente la fuoriuscita definitiva di taluni beni, è subordinato ad una valutazione da parte degli Uffici Esportazione, sentito il competente organo consultivo, che “devono svolgere le funzioni di accertamento e di valutazione tecnico-scientifica preordinate alla decisione attenendosi indirizzi generali, articolati in elementi di valutazione, che rappresentano i principali presupposti o requisiti della cosa esaminata rilevanti ai fini della decisione, e in criteri valutativi, che rappresentano profili interni di dettaglio della disamina relativa a ciascun elemento di valutazione”, e che l’unico onere che l’articolo 68 impone al richiedente (proprietario, mandatario o esportatore) l’attestato di libera circolazione è di dichiarare il valore venale dell’opera.

Gli indirizzi di carattere generale a cui gli Uffici devo attenersi sono stati recentemente stabiliti dal Ministero nel D.M 6 dicembre 2017 n. 537, Indirizzi di carattere generale per la valutazione del rilascio o del rifiuto dell’attestato di libera circolazione da parte degli Uffici Esportazione delle cose di interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, ai sensi dell’articolo 68, comma 4, del Decreto Legislativo n. 42 del 2004 e attengono

la qualità artistica dell’opera,

la rarità (in senso qualitativo e/o quantitativo),

la rilevanza della rappresentazione,

l’appartenenza a un complesso e/o contesto storico, artistico, archeologico, monumentale,

la testimonianza particolarmente significativa per la storia del collezionismo;

la testimonianza rilevante, sotto il profilo archeologico, artistico, storico, etnografico, di relazioni significative tra diverse aree culturali, anche di produzione e/o provenienza straniera.

Relativamente alla qualità artistica intesa sia come magistero esecutivo, sia come capacità espressiva, sia come originalità il Decreto precisa trattarsi di una “caratteristica fondamentale da prendere in esame nel giudizio oggettivo su di un bene” da condursi con gli strumenti “della critica d’arte, della storia dell’arte, dell’archeologia e dell’antropologia” ma che essa non può “costituire l’unico elemento per giustificare un diniego”.

Circa la rarità dell’opera intesa sia in senso quantitativo (numero di opere presenti sul territorio dello stesso autore e/o della medesima tipologia o del medesimo periodo in collezioni pubbliche o private vincolate) sia qualitativo, intesa come infrequenza formale, contenutistica, tipologica dell’opera, il decreto precisa che non è possibile ancorare il concetto di rarità, ad un numero definito di opere dello stesso autore o esemplari simili, tuttavia “la sussistenza di tali opere in collezioni pubbliche o contesti privati vincolati, impone un particolare rigore nella motivazione di un provvedimento di diniego”.

A questo proposito il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio con la recente sentenza n. 626 del 2021 ha ribadito, in un caso riguardante il Ritratto di monaca, attribuito a Carlo Cignani, che la rarità “assume un valore fondamentale per stabilire la necessità di assoggettare a vincolo di tutela un’opera di proprietà di un privato, al fine di evitare di incorrere nell’effetto perverso di “vincolare tutto per non tutelare nulla” rammentato dagli studiosi e recepito dalla giurisprudenza di questa Sezione, che ha più volte sottolineato l’importanza di evidenziare nella motivazione della relazione di supporto al vincolo le valutazioni relative al criterio della rarità dell’opera, in particolare evidenziando se questa sia già sufficientemente rappresentata nelle collezioni pubbliche italiane e considerando “l’utilità marginale” che quell’ennesimo oggetto apporta all’insieme di beni culturali che già sono tutelati come componenti del “patrimonio culturale nazionale” (come ribadito, anche di recente, da T.A.R. Lazio, sez. II quater, n. 9826/2018, in cui viene peraltro avvertito che il profilo della rarità dell’opera non va valutato in termini strettamente numerici o di unicità dell’opera, ma attiene piuttosto alla significatività ed al valore di un’unità aggiuntiva dell’opera rispetto a quelle già possedute). In altri termini, nella relazione vanno esplicitate con specifico riferimento al caso concreto “quelle caratteristiche di pregio, rappresentatività e di rarità dell’oggetto esaminato che ne giustificano la sottoposizione a regime vincolistico, nel rispetto dei principi di proporzionalità e ragionevolezza dell’azione pubblica in un settore, come quello della disciplina amministrativa della proprietà di cose di interesse storico-artistico-culturale, in cui è particolarmente sentita l’esigenza di modulare l’intervento pubblico limitativo delle facoltà del proprietario del bene, consentendone l’incisione solo nella misura in cui ciò risulti "giustificato" (anche nel superiore interesse pubblico ad esercitare efficacemente i necessari controlli concentrandoli solo su beni effettivamente meritevoli di essere tutelati)” (T.A.R. Lazio, sez. II quater, n. 9826/2018)”.

Delle presenze di opere vincolate in collezioni private, tuttavia, non vi è un registro in pubblica consultazione.

Il terzo elemento che può fondare un divieto è la rilevanza della rappresentazione sia sotto il profilo iconografico sia nel caso di “esistenza di importante documentazione o testimonianza storica, geografica o sociale, compresa la storia del costume”.

Il quarto motivo d’indirizzo è l’“appartenenza a un complesso e/o contesto storico, artistico, archeologico, monumentale, anche se non più in essere o non materialmente ricostruibile”. Il decreto stesso esemplifica la tipologia di manufatto indicando “un capitello, la predella di un polittico, l’arazzo di una serie” e precisa altresì che qualora il diniego discenda da un “valenza pertinenziale più che al valore intrinseco del bene, occorrerà argomentare il provvedimento con cura particolare, illustrando anche la rilevanza del complesso e/o contesto di origine o storicizzato”.

Il diniego dell’attestato, inoltre, può inoltre giustificarsi qualora un bene sia una “testimonianza particolarmente significativa per la storia del collezionismo”.

L’ultimo caso in cui l’attestato può essere negato è quando il bene è una “testimonianza rilevante, sotto il profilo archeologico, artistico, storico, etnografico di relazioni significative tra diverse aree culturali, anche di produzione e/o provenienza straniera.

Per le opere straniere, occorrerà tenere conto della specifica attinenza e rilevanza delle stesse in merito alla storia e alla cultura italiana. Ad esempio, un’opera straniera che sia appartenuta ad una prestigiosa collezione italiana, potrà essere ritenuta rilevante per la storia del collezionismo italiano, o ancora potrà essere ritenuta “testimonianza avente valore di civiltà” un’opera che attesti un particolare legame con il territorio nazionale dell’autore o del soggetto riprodotto nell’opera, o ancora a titolo esemplificativo, una committenza italiana.

Il decreto ministeriale sottolinea, inoltre, espressamente che le decisioni dell’amministrazione “incidono anche sui diritti della proprietà privata come riconosciuti e garantiti dalla Costituzione” e “occorre porre la massima cura nel formulare un provvedimento restrittivo, evitando giudizi apodittici non sostenuti da una adeguata argomentazione critica e storica. Pertanto, le relazioni a supporto di tale provvedimento devono sempre essere sviluppate in maniera esaustiva, con motivazioni puntuali, riferimenti bibliografici aggiornati, se disponibili, e attraverso l’associazione di più di un principio di rilevanza tra quelli riformulati nei nuovi Indirizzi, soprattutto nei casi in cui sembra essere predominante una valutazione legata alla qualità artistica del bene, non sufficiente da sola a giustificare un provvedimento di tutela” che non può essere “l’unico elemento per giustificare un diniego”.

Prima dell’entrata in vigore del D.M 6 dicembre 2017 n. 537 si faceva riferimento ai criteri di valutazione individuati nella seduta del 10 gennaio del 1974 dal Consiglio Superiore delle Antichità e Belle Arti (presieduta dal Professor Giulio Carlo Argan) e diramati con circolare prot. 2718 del 13.5.1974 del Ministero della Pubblica Istruzione (allora competente anche per i beni culturali) agli Uffici Esportazione "Criteri generali per valutare quando l’esportazione di cose di interesse storico, artistico, archeologico ed etnografico costituisce danno per il patrimonio storico e culturale nazionale" che faceva riferimento a due categorie

1) la singolarità delle cose stesse:

a) la particolare nobiltà dell’esecuzione artistica, normalmente indicata come pregio d’arte;

b) rarità, in linea assoluta, oppure nei confronti di un determinato artista, o centro o scuola artistica, o in relazione alla regione o alla zona da cui l’oggetto proviene;

c) particolare significato della rappresentazione;

d) originali qualità tecniche, anche in senso artigianale;

e) valore di antichità o di prototipo, per oggetti relativi alla storia della scienza;

f) particolare difficoltà di ulteriore acquisizione per restrizione legali o simili quando si tratti di cosa proveniente da altra nazione e di particolare interesse archeologico, storico, artistico, etnografico.

Per quanto riguarda l’interesse delle cose in relazione al contesto storico culturale di cui esse fanno parte:

a) appartenenza sicura, o anche probabile, ad un complesso artistico, storico, archeologico, monumentale;

b) caratteri che ne facciano un esempio considerevole di tradizioni locali;

c) appartenenza ad un’area di civiltà (archeologica, artistica, etnografica) diversa da quella di provenienza dell’oggetto e significativa dei rapporti fra le varie civiltà, scuole o zone.

Alla Pubblica Amministrazione, è però riconosciuta la facoltà di cui agli artt. 21 octies e nonies della Legge 241/ 90, ossia di annullare in autotutela un provvedimento amministrativo dalla stessa emesso “entro un termine ragionevole, comunque non superiore a diciotto mesi dal momento dell’adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici” ovvero di revocarlo “per sopravvenuti motivi di pubblico interesse ovvero nel caso di mutamento della situazione di fatto non prevedibile al momento dell’adozione del provvedimento” ex art 21 quinquies riconoscendo nell’ultimo caso un indennizzo al privato che risulti danneggiato dal provvedimento revocato in cui ha fatto affidamento.

Nella prassi la scelta della PA ricade, come ovvio, sull’annullamento che non comporta indennizzo.

Il potere di annullamento in autotutela di un provvedimento amministrativo impone, in capo alla Pubblica Amministrazione, la precisa individuazione delle ragioni di pubblico interesse che giustificano l’adozione del provvedimento di secondo grado. Infatti, l’esercizio del potere di autotutela è sì espressione di rilevante discrezionalità tecnica, ma comunque non esime l’Amministrazione di motivare la sussistenza dell’interesse pubblico, valutazione che si ritiene debba essere rispettosa con gli indirizzi di cui al già citato decreto ministeriale stante il “parallelismo” tra i due provvedimenti (il rifiuto dell’autorizzazione all’espatrio dell’opera comporta il contestuale avvio del procedimento per il suo assoggettamento a vincolo).

Questa tesi è confortata anche dalla dottrina che ha evidenziato che “la presentazione del bene all’ufficio esportazione, obbligatoriamente, deve conseguire una valutazione sull’interesse culturale della cosa, sicché la valutazione sulla dannosità dell’esportazione per il patrimonio culturale della nazione può coincidere, per certi versi, con la valutazione circa l’interesse culturale dell’opera [[2]].

La Pubblica Amministrazione, per esercitare il potere di annullamento di un provvedimento in autotutela, necessita della presenza di un interesse pubblico che non si identifica con il mero ripristino della legalità violata, bensì richiede ragioni diverse desunte dall’adeguata ponderazione comparativa di interessi coinvolti, con l’obbligo di tener conto delle posizioni consolidate e del conseguente affidamento derivante dal comportamento tenuto dall’Amministrazione.

La legge 124/2015 ha introdotto il termine temporale “di diciotto mesi dal momento dell’adozione” entro cui la P.A. può intervenire sulla base dell’articolo 21 nonies.

In precedenza, la norma faceva riferimento a un lasso di tempo “ragionevole” e indeterminabile, da valutare con riferimento alla natura del provvedimento da rimuovere, agli interessi pubblici coinvolti ed agli effetti che medio tempore sono prodotti dallo stesso.

Va segnalata, tuttavia, l’isolata sentenza del Tar Lazio n. 10018 del 16 ottobre 2018 nel caso relativo ai dipinti di Francesco Guardi e segnatamente “Andata del Bucintoro verso San Nicola al Lido” e “Ritorno del Bucintoro verso palazzo Ducale, per cui era stata autorizzata l’esportazione come “Vedute di Venezia”, “assumendo che il provvedimento che autorizza l’esportazione di una cosa d’arte si colloca al di fuori dell’ambito dei provvedimenti autorizzatori o concessori contemplati dall’art 21 nonies”, ha ritenuto inapplicabile il termine di 18 mesi indicato dal citato articolo all’annullamento dell’attestato di libera circolazione.

Tale interpretazione in merito alla natura giuridica dell’attestato di libera circolazione, che è atto idoneo ad “autorizzare” l’uscita definitiva di una cosa d’arte dal territorio nazionale, non pare condivisibile e tale considerazione potrebbe anche trovare supporto nella giurisprudenza tracciata dalla Suprema Corte relativamente al reato di uscita ed esportazione illecita di bene culturale, che ha in più occasioni precisato che per l’integrazione del reato è sufficiente che il bene sia stato trasferito all’estero senza l’autorizzazione, non rilevando in alcun modo che il titolo autorizzatorio (attestato ex art 68 o licenza ex art 74) potesse essere rilasciato se richiesto [[3]] e ancora che “la mancanza della richiesta del provvedimento autorizzatorio di esportazione o il diniego dell’ottenimento dello stesso, prescinde dalla circostanza che i provvedimenti autorizzatori potessero in concreto essere rilasciati o meno[[4]].

Il comma 2 del citato articolo 21 nonies prevede, inoltre, che il termine di 18 mesi possa essere, tuttavia, derogato nel caso in cui “i provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato”.

Con un orientamento consolidato, non riguardante, però, cose d’arte, la giurisprudenza ha precisato che il superamento del termine di 18 mesi è consentito non soltanto nel caso in cui la falsa attestazione, inerente ai presupposti per il rilascio del provvedimento ampliativo, abbia costituito il frutto di una condotta di falsificazione penalmente rilevante (indipendentemente dal fatto che siano state all’uopo rese dichiarazioni sostitutive) - nel qual caso sarà necessario l’accertamento definitivo in sede penale – ma anche “nel caso in cui l’acclarata erroneità dei ridetti presupposti risulti comunque non imputabile (neanche a titolo di colpa concorrente) all’Amministrazione, ed imputabile, per contro, esclusivamente al dolo (equiparabile, per solito, alla colpa grave e corrispondente alla mala fede oggettiva) della parte, nel qual caso, non essendo parimenti ragionevole pretendere dalla incolpevole Amministrazione il rispetto di una stringente tempistica nella gestione dell’iniziativa rimotiva - si dovrà esclusivamente far capo al canone di ragionevolezza per apprezzare e gestire la confliggente correlazione tra gli opposti interessi in gioco” (così T.A.R. Lombardia, Milano, sez. II, 02/05/2020, n. 728)

Di recente il T.A.R. Lombardia, Milano, sez. II, 21/10/2020, con sentenza n.10702, ha ritenuto che “in altri termini, il superamento del rigido limite temporale di 18 mesi per l’esercizio del potere di autotutela di cui all’articolo 21 nonies l. n. 241/90 e, quindi, in tema di SCIA, per l’esercizio “tardivo” dei poteri repressivo/sanzionatori di cui al D.P.R. n. 380/2001, condizionato, ai sensi del comma 4 dell’articolo 19 citata legge, agli stessi presupposti di cui all’articolo 21 nonies, è ammissibile, a prescindere da qualsivoglia accertamento penale di natura processuale, tutte le volte in cui il soggetto segnalante abbia rappresentato uno stato preesistente – anche mediante il solo silenzio su circostanze rilevanti – diverso da quello reale (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 13.01.2020, n. 323; TAR Campania, Salerno, sez. II, 4.02.2019, n. 217)).

Va tuttavia ribadito che tutte Ie pronunce citate sono state emesse in giudizi aventi ad oggetto annullamento di provvedimenti amministrativi emessi in ambiti amministrativi differenti da quello dei beni culturali.

Per contro i pochi e scarni precedenti giurisprudenziali in materia di annullamento dell’attestato di libera circolazione concernono tutti attestati rilasciati e annullati prima dell’entrata in vigore della novella del 2015 che ha introdotto il termine dei diciotto mesi e prima dell’entrata in vigore del DM 6 dicembre 2017 n. 537, eccezione fatta per la già citata sentenza Tar Lazio n. 10018 del 16 ottobre 2018, in cui il collegio si è espresso su un caso in cui era stata contestata alla Pubblica Amministrazione la decadenza, per decorso del termine di diciotto mesi, trattandosi di attestati rilasciati nell’anno 2006 a cui ratione temporis, invece non erano applicabili le modificazioni introdotte dalla legge n. 124/2015 , trattandosi di norma non retroattiva per cui “rispetto ai provvedimenti illegittimi (di primo grado) adottati anteriormente all’attuale versione dell’articolo 21-nonies della l. n. 241 del 1990, il termine dei diciotto mesi non può che cominciare a decorrere dalla data di entrata in vigore della nuova disposizione” avvenuta in data 28 agosto 2015 (come ribadito, da ultimo, tra tante, da Cons. St., Sez. IV, n.4747/2018, nonché n. 4374/2018, vedi, per tutte, Cons. Stato, sez. VI, n. 3462/2017, nel senso che l’opposta tesi “oltre a porsi in contrasto con il generale principio di irretroattività della legge (articolo 11 preleggi), finirebbe per limitare in maniera eccessiva ed irragionevole l’esercizio del potere di autotutela amministrativa. Si arriverebbe infatti all’irragionevole conseguenza per cui, con riguardo ai provvedimenti adottati diciotto mesi prima dell’entrata in vigore della nuova norma, l’annullamento d’ufficio sarebbe, per ciò solo, precluso; TAR Lazio, sez. III, n. 3004/2018)”.

Va segnato anche che la pronuncia circa l’inapplicabilità di tale termine ai provvedimenti cha autorizzano l’uscita definitiva dal territorio nazionale per ora è rimasta isolata e per contro la dottrina ha continuato a ribadire l’applicabilità di tale termine anche all’annullamento dell’attestato di libera circolazione [[5]].

Il Tar del Lazio si era pronunciato già in precedenza, a riguardo dell’annullamento prima della novella con sentenza nel 2009 relativamente a due oli attribuiti a Francesco Guardi raffiguranti “Vedute di Venezia”, per i quali l’Ufficio Esportazione oggetti d’arte di Roma in data 9.11.2006 aveva rilasciato gli attestati di libera circolazione, annullati in seguito, in cui le opere venivano descritte dall’esportatore come dipinti attribuibili a “scuola veneziana” del XVIII secolo ed il valore approssimativo delle stesse era stato dichiarato in Euro 150.000 ciascuno.

A distanza di oltre un anno, l’Ufficio Esportazione di Roma, avendo riscontrato la somiglianza di due dipinti di Francesco Guardi  e segnatamente “Andata del Bucintoro verso San Nicola al Lido” e “Ritorno del Bucintoro verso palazzo Ducale” in asta a Londra, aveva annullato, in via di autotutela, gli attestati di libera circolazione “in base alla considerazione che questi fossero stati rilasciati in base a dichiarazioni dell’interessato fuorvianti, inesatte ed incomplete, con omissione del titolo e dell’autore dell’opera, nonché all’inadeguatezza della verifica effettuata dalla competente Commissione, viziata e falsata da condizioni d’esame sfavorevoli”.

Orbene, per quanto attiene alla prima delle circostanze sopraindicate, l’ipotizzato intento fraudolento della ricorrente secondo il Tar era risultato del tutto indimostrato, non avendo l’amministrazione indicato alcun elemento atto a dimostrare che, all’epoca in cui l’interessata aveva presentato la richiesta di esportazione fosse a conoscenza dell’autore dell’opera, che peraltro non risulta firmata, - né tantomeno del titolo della stessa, tant’è che la stessa competente Commissione è stata indotta da tale circostanza ad attribuire il dipinto ad un anonimo appartenente alla “scuola veneziana” del settecento, tanto da ridurre il valore del quadro a soli Euro 150.000 ciascuno, ben al di sotto rispetto al valore dichiarato dal denunciante (Euro 600.000)”.

In detta sentenza il Tar evidenziava “che il compito di identificare correttamente le opere al fine di valutare la possibilità di autorizzarne l’uscita dal territorio dello Stato incombe principalmente sull’amministrazione competente a rilasciare il relativo titolo autorizzatorio, alla quale è istituzionalmente demandata la cura del relativo interesse pubblico alla conservazione del patrimonio artistico nazionale” [[6]].

Tale interpretazione benché espressa prima della riforma, appare coerente con gli indirizzi del Decreto Ministeriale 6 dicembre 2017 n. 537 che pone sull’amministrazione l’onere di “svolgere le funzioni di accertamento e di valutazione tecnico-scientifica preordinate alla decisione”, con le previsioni degli artt. 12 e 13 del Codice dei beni culturali e paesaggio che utilizzano i verbi "verificare" ed "accertare" con riferimento all’interesse culturale “con la conseguenze che l’operazione cui il funzionario è chiamato consiste nell’accertamento delle qualità di una realtà fattuale” altresì con l’interpretazione letterale dell’art 68 del Codice dei Beni culturali che impone al richiedente solo di indicare il “valore venale”.

Il TAR del Lazio con sentenza del 09 febbraio 2007, n. 1046 si era già pronunciato sulla fattispecie nel noto caso della Madonna di Giotto.

L’antefatto era che il 28 maggio 1990 un mercante aveva acquistato ad un’asta un quadro descritto come "Madonna con Bambino, imitatore di Giotto, circa 1800, olio su tavola cm. 116x69, valore Lire 6.000.000-10.000.000" per il quale in data 24 marzo 1992 l’Ufficio Esportazione di Genova aveva rilasciato, la licenza di esportazione definitiva per il Regno Unito, stimando il valore dello stesso in Lire 8.000.000.

L’opera è rientrata in Italia per dei restauri in regime di temporanea di importazione (licenza 22.4.1992) e per partecipare a diverse mostre (licenza 23.5.1995) e, indi, nuovamente uscita con licenza di esportazione definitiva per gli Stati Uniti (New York) 15.1.1998.

In data 10.3.2000, il Ministero per i beni e le attività culturali ha emanato un provvedimento con il quale ha annullato la licenza di esportazione definitiva 8.6.1993 a seguito dell’attribuzione a Giotto.

Nella motivazione della sentenza si legge che “non è imputabile alla ricorrente la errata valutazione storico-artistica da parte dell’amministrazione, in quanto il suo valore era stato nascosto da ridipinture ottocentesche e non da artifizi della medesima, la quale ha avuto il solo "torto" di aver capito o saputo quello che, come evidenziato dal Soprintendente per i Beni Culturali e Ambientali di Firenze nella nota prot. n. 1504/I del 5.10.1999, l’"Amministrazione non ha saputo riconoscere". In altri termini, gli interventi di restauro, come evidenziato dalla ricorrente, non hanno svelato un "altro" dipinto, ma hanno soltanto messo in luce il valore storico-artistico che esso aveva sin dall’inizio. (T.A.R. Lazio Roma Sez. II quater, (ud. 05/12/2006) 09-02-2007, n. 1046).

In riforma della citata sentenza, tuttavia, il Consiglio di Stato ha ritenuto che “un errore iniziale, ovvero il mutato apprezzamento di presupposti di fatto, o, addirittura, il mutato convincimento circa l’interesse pubblico sotteso al provvedimento ab origine adottato, legittima l’esercizio dell’autotutela.” e che una visione antagonista del rapporto cittadino-amministrazione che non può trovare accoglimento, e sembra postulare che, ove per errore l’amministrazione abbia omesso di esercitare un potere (come nel caso di specie), ovvero abbia attribuito diritti non spettanti, ciò precluda alla stessa di tornare sui propri passi.”  e che "l’interesse pubblico che è alla base del legittimo esercizio del potere di autotutela della pubblica amministrazione non si identifica nella necessità del ripristino dell’ordinamento violato, ma richiede una valutazione comparativa sulla qualità e concretezza degli interessi in gioco; pertanto, procedendo dopo sei anni ad annullare un atto ritenuto illegittimo per un errore commesso dalla stessa amministrazione, questa era tenuta ad indicare espressamente le ragioni di pubblico interesse che, nonostante il notevole decorso del tempo e il consolidamento della situazione, giustificavano il provvedimento di autotutela. (Consiglio Stato, sez. IV, 4 agosto 1988, n. 684). Alla stregua di tale condivisibile orientamento ritiene la Sezione che il potere sia stato correttamente esercitato. Invero in data 24.3.1992, allorché l’amministrazione concesse la prima autorizzazione all’esportazione (non revocata dal decreto per cui è causa) ritenne l’opera ascrivibile ad un "imitatore di Giotto", e risalente circa al 1800. V’è concordia di vedute, tra le parti, che tale "indicazione" non sia (o fosse già) veridica, e che comunque, per dirla in altre parole, essa sia "inattuale" (ne sia l’autore lo stesso Giotto, od altro soggetto coevo a questi). Su tale opera non v’era, non vi sarebbe, e non v’è, ragione di imporre alcun divieto di esportazione. Ma ciò che è accaduto, è che, (la si voglia definire "scoperta di ciò che v’era", o rivalutazione di ciò che emergeva e non era stato apprezzato) oggi si può affermare serenamente che paternità ed epoca dell’opera non corrispondono più alla indicazione originaria.”.

Al momento è sub iudice il caso del Ritratto di Camillo Borghese di Francois Gérard, per cui il 15 marzo 2017 era stato rilasciato dalla Sovrintendenza di Bologna a un noto mercante italiano un attestato di libera circolazione con la seguente descrizione “dipinto ad olio su tela, raffigurante ritratto virile valore presunto 200 mila euro, autore Francois Gérardvenduto alla Frick Collection di New York e oggetto di annullamento in autotutela del 14 giugno 2018, quindi nel rispetto del termine di diciotto mesi, poiché si tratta dell’unico dipinto in Italia dedicato al cognato di Napoleone.

In proposito il Ministero ha dichiarato alla stampa che si tratta di “un’opera pubblicata in almeno due cataloghi “Le delizie di Stupinigi” e della “Danae di Correggio” e, quindi “constatato l’errore di valutazione che il dipinto riveste per il patrimonio nazionale, ha avviato entro i termini consenti da questa legge (i diciotto mesi introdotti come termine con la legge 15 del 2005)”  e di ritenere “che la richiesta di libera circolazione sia stata quanto meno fortemente omissiva in ordine all’identità del ritrattato”.

L’Italia, come scriveva Henry James è, però, ancora “magazzino inesauribile” [[7]] di opere, oggi, però, nascoste in depositi privati al riparo da uno Stato, che scontrandosi con i capitoli di Bilancio, in pochi e rari casi esercitata il diritto di prelazione sull’acquisto, nell’attesa di un cambiamento o, forse, di un miracolo.

Quello dell’annullamento degli attestati di libera circolazione, è purtroppo l’ennesimo caso in cui si invoca una tutela come bene culturale non più attuale, fatta solo di vincoli, notifiche e altre compressioni dei diritti domenicali, che pare quasi una invidiosa «persecuzione» della privata proprietà, incompatibile con i principi di uno Stato liberale e di diritto, che, nel pur lecito contemperamento dell’interesse pubblico dovrebbe sacrificare quello del privato solo quando ne possa derivare un beneficio più grande per la collettività e un effettivo «inammissibile depauperamento del patrimonio culturale nazionale» (Tar Lazio 24 marzo 2011 n. 2659) rigorosamente motivato, come potrebbe essere, ad esempio, quello dell’ultimo raro ritratto di Botticelli in mani private e solo, però, nel caso in cui lo Stato possa garantire la pubblica valorizzazione e il godimento collettivo del bene vincolato con un prestito per esposizione, magari remunerato, in luoghi istituzionali.

La “notifica”, invece oggi nei fatti è solo una deroga alla libera circolazione che deprezza in misura rilevantissima il valore di mercato dell’opera e talvolta la rende invendibile, lasciando al proprietario lo ius excludendi omnes alios, senza arrecare nessun vantaggio alla collettività che forse apprezzerebbe di più ammirarlo in una collezione straniera, nell’ottica di una valorizzazione internazionale, e che come nel caso del dipinto di Gérard, potrebbe essere attuata dalla Frick Collection.

 

[1]. A. VENTURI, Per l’arte italiana, in «Nuova Antologia», 168, 1899, pp. 715-724, qui p. 723.

[2] C. Gabbani, Le cose d’interesse artistico nel Codice dei beni culturali e del paesaggio, in Aedon n.2/2017.

[3] Cass. Pen. 21 gennaio 2000, n. 2056. In dottrina: F.E. Salamone, Argomenti di Diritto Penale dei beni culturali, Giappichelli, 2017 pag. 67.

[4] E. Tomasinelli, Illecita esportazione dal territorio italiano di beni culturali: il caso del “Ritratto di Isabella D’Este” di Leonardo Da Vinci in Giurisprudenza Penale Web 2019, 1.

[5] G. Calabi, S.Hecker, Esportazione di opere d’arte: e se lo Stato cambia idea?, 31 Dicembre 2020 al link  Esportazione di opere d’arte: e se lo Stato cambia idea? - We Wealth (we-wealth.com); V.E. Montani Tesei, Attestato di libera circolazione: Rilascio e Patologie, 8 BusinessJus 74 (2016); G. Calabi, S. Hecker, La doppia identità del capolavoro di Giotto restaurato in WE-WEALTH_25-Calabi.pdf (theheckerstandard.com)

[6] Sempre sul medesimo caso, si segnala Tar Lazio, sezione quater n. 07853 del 6 agosto 2013.

[7] La citazione è tratta da HENRY JAMES, Portrait of a lady [1881], in The Novels and Tales of Henry James, ed. by H. James [1907-09], A. R. Kelley, New York, 1971 (trad. it.: Ritratto di signora, Einaudi, Torino, 1942; ed. cons.: Einaudi, Torino, 1993, p. 219).