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Arte e chiacchiere

Acquaforte, Luglio 1971 - Sigfrido Bartolini
Acquaforte, Luglio 1971 - Sigfrido Bartolini

La nostra sublime civiltà del benessere ha bisogno di un grandioso apparato di chiacchiere per una costante, martellante azione persuasiva sulle masse

Deve rimediare con le chiacchiere alla grande carenza di valori morali e spirituali, deve coprire con le chiacchiere la continua scadenza di qualità in ogni settore, in ogni prodotto; una carenza che va facendosi sempre più grave quale logico retaggio delle dominanti democrazie. Inoltre, con le chiacchiere si può dimostrare che un ladro non deve finire in prigione, si può insinuare un dubbio qualsiasi nelle cose della fede e si può anche dimostrare che un ritaglio contorto di ferro o un sacco lurido e sdrucito, hanno stretta parentela, poniamo, con la Venere di Milo.

Nemiche, per loro intrinseca natura, delle chiacchiere, le arti figurative ne sono invece sommerse.

Gli stessi artisti, del resto (o gli pseudo tali), incrementano la foia ciarliera dei critici improvvisati, presi come sono, dalla necessità di mascherare la loro vuotaggine, le loro risibili improvvisazioni, dietro l’oscuro velame di impenetrabili chiacchiere e gabellarle per complessi, laboriosissimi parti, impegnati in proteste sociali, adesioni politiche, censure e condanne varie.

L’artista autentico, il cosciente aristocratico artigiano di un tempo, non aveva bisogno delle chiacchiere, ben sapendo che scultura e pittura si fanno con gli scalpelli e i pennelli, mai con le parole. Lasciava quindi ad altri la sola possibile azione critica sulla sua opera, che è quella di una chiara valutazione della misura qualitativa per collocarla sul gradino ad essa spettante nella scala dei valori riconosciuti. Ma i valori riconosciuti, i valori che credevamo eterni, oggi non fanno più testo e ci si sforza per sostituirli con le più stolide chiacchiere che mai conoscesse una civiltà morente.

Così a furia e in virtù di chiacchiere, alle aristocrazie delle arti, all’élite degli artisti, sono stati aggregati interi eserciti di giocolieri, di saltimbanchi, tutta una sorta di servidorame affaccendato e presuntuoso, negato totalmente ad ogni genuina espressione dello spirito.

Certi tipi che, in tempi appena decenti, si contentavano d’intagliare noccioli di pesche, oggi elevati dalle chiacchiere al rango di grandi scultori, spadroneggiano in mostre di alto livello, incoraggiati, riveriti e premiati. Altri tipi, e son legioni, un tempo addetti a decorare gli specchi dei barbieri, con gli auguri di Buon Natale, o provenienti dall’industria delle mattonelle policrome per pavimenti, eccoli oggi venerati quali novelli Tiziani o redivivi Raffaelli. E tutto questo grazie alle chiacchiere concentrate di avvocati perdigiorno, di pseudo filosofi, pseudo psicologi, pseudo intelligenti, entrati nelle cose dell’arte con la faciloneria, la boria e l’ignoranza del villan rifatto al quale la stolta democrazia ha dato il diritto d’accesso al palazzo del principe senza avergli potuto insegnare a scuotersi il fango dagli zoccoli prima di passare sui soffici, preziosi tappeti.

Quando è cominciato tutto questo?  Di chi la colpa? Difficile, forse impossibile dirlo.

Dovremmo forse accusare, nel campo che ci compete, i propagatori di modernismi internazionali, attivi nel primo Novecento? E particolarmente quegli stessi che pure seppero, subito dopo, valutare e quindi abiurare la loro azione riconoscendola disgregatrice, per riportarsi nell’alveo della tradizione?

Si troverebbero, forse, soltanto i vari effetti di cause fatalmente perse nella notte dei tempi.

Resta certo che le chiacchiere cominciano quando finisce l’azione; chi fa la storia non ne parla né ha tempo per scriverla.

 

25 gennaio 1968