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Ascoltare

I colori delle albe e dei tramonti
Ph. Ermes Galli / I colori delle albe e dei tramonti

Ascoltare vuol dire capire ciò che l’altro

NON dice”

Carl Rogers

 

Il verbo ascoltare ha più significati, anche se vanno tutti nel medesimo senso: infatti se nella sua definizione, prima di tutto, si sottolinea l’aspetto dell’udire con attenzione, non va trascurato anche l’altro senso con cui viene inteso, ovvero il risultato dell’ascoltare e la messa in pratica dei consigli e degli ammonimenti che sono stati ascoltati; quindi ascoltare è utilizzato anche con il significato di dare retta e pertanto anche obbedire (Treccani).

Ne deriva che il termine contiene un aspetto recettivo (se si vuole passivo), di accoglimento delle parole altrui, ma contiene anche una dimensione potenzialmente proattiva perché le parole ascoltate possono indurre ad un’azione o a comportamenti anche complessi, nelle direzione di quanto ascoltato.

L’ascolto non è pertanto connesso al sentire (inteso in senso neurofisiologico), ma affonda le sue radici in una dimensione relazionale, perché un vero ascolto riconosce la dignità dell’altro (“è una persona degna di essere ascoltata” – si dice), e sa cogliere anche i modi di esposizione dell’argomentare, i toni della voce e le espressioni del corpo, che veicolano le emozioni del parlante.

L’ascoltare è una polarità della comunicazione, che produce nella persona pensieri, fantasie ed emozioni che talora premono per essere espresse. Un vero ascolto si attende una reciprocità dall’altra parte, cioè in chi parla, perché si possa generare nella relazione interpersonale fiducia e accoglienza comune.

Ascoltare è anche cogliere gli aspetti non verbali della persona che ci parla (vedere un film senza audio è un modo per allenarsi a osservarli), i suoi lapsus, i silenzi, le interruzioni o le sue divagazioni. Ne risulta che la complessità dell’ascolto ha costretto a specificare di quale ascolto si stia parlando. Sono numerose le aggettivazioni che si accompagnano al sostantivo, quali attivo, passivo, non verbale, efficace, empatico (ascolto ed empatia è un tema molto sviluppato – vedi Maria Grazia Mannozzi link) e così via.

Si può senz’altro ricordare, prima di tutto, che ai poli opposti si trovano l’ascolto passivo e quello attivo, ma descriviamone ora alcuni tipi:

l’ascolto passivo

è il recepimento della comunicazione dell’altro, senza alcuna restituzione importante. Una situazione classica, un po’ di maniera, è quella dello psicoanalista o psicoterapeuta che rimane silenzioso e interviene con interpretazioni parsimoniose. Elementi essenziali di questo tipo di ascolto sono il silenzio, l’attenzione, ma anche cenni di conferma (per lo più non verbali o con parole di assenso sintetiche), perché il silenzio completo può facilmente scatenare la sospettosità nell’altro ed in alcune persone addirittura un senso di vuoto ansioso, della percezione di un’assenza/disinteresse della persona che ascolta, lasciando nel dubbio sulla accettazione e comprensione del messaggio. Questo per quanto riguarda la relazione duale, mentre nei gruppi di lavoro, dove spesso all’inizio tutti tendono un po’ a parlare insieme ed a sovrapporsi, quando si riuniscono in modo formale o informale, può essere necessario che il manager lasci spazio (mi riferisco alle professioni di aiuto, in base alla mia esperienza), ad es. allo “sfogo” e alle “lamentele” dei partecipanti, senza intervenire esprimendo il proprio parere, se non con qualche breve espressione di partecipazione emotiva, per poter poi lavorare in modo più efficace; è come se prima di poter ascoltare e collaborare, il gruppo avesse la necessità di liberarsi di emozioni che occupano lo spazio mentale individuale e collettivo, creando in quel modo un luogo libero di accogliere ed ascoltare;

l’ascolto attivo

deve essere preceduto da quello passivo, ed è stato teorizzato da Carl Rogers e dal suo allievo Thomas Gordon; entrambi descrivono varie fasi di questo tipo di ascolto. Per Rogers si inizia con l’osservare ed ascoltare il messaggio verbale dell’altro (ascolto passivo), per passare poi al fare un’ipotesi sulle emozioni dell’interlocutore, per arrivare a comunicare la propria impressione, terminando con l’attesa della sua conferma o della sua correzione. Il ciclo descritto si ripete avviando così una circolarità nella comunicazione: questo processo, suddiviso in queste tappe successive, è finalizzato ad evitare le risposte simmetriche reciproche (all’offesa si risponde offendendo e così via), che sono le risposte nei casi di tensione emotiva più immediate e spontanee, ma certamente impulsive perché bypassano la riflessione;

la comunicazione efficace

che amplia quanto descritto da Rogers, per Gordon si realizza in 4 momenti: dall’ascolto passivo o silenzio si passa ai messaggi di accoglimento (annuire o sorridere, ad es.), al successivo invito all’interlocutore ad approfondire l’argomento di cui ha parlato (con incoraggiamenti verbali), per giungere infine all’ascolto attivo, processo quindi che si costruisce sia con l’ascoltare sia con una continua comunicazione all’altro di quanto si è ascoltato. Tutto ciò consente alla persona che parla di avere una prova tangibile nell’hic et nunc della relazione di essere stata ascoltata, capita ed accettata.

Tutto questo presuppone la capacità di mettersi nei panni dell’altro, che è facile a dirsi ma più difficile a farsi: essa infatti presuppone nella persona che ha ascoltato che siano eliminati, almeno in parte, i propri pregiudizi e la spinta naturale a dare consigli, a voler risolvere immediatamente i problemi altrui. Questo è proprio il contrario dell’ascoltare i pensieri, le preoccupazioni, le emozioni dell’altro, ed anche il non-detto, cui l’ascolto attivo può invece iniziare a dare spazio. È difficile mettersi nei panni degli altri, come si diceva, mentre è più facile mettere i nostri panni addosso agli altri ed allora però nell’ascolto si inseriscono fraintendimenti e incomprensioni che portano ad irritazione, rabbia, quindi ad emozioni che invece il vero ascolto dovrebbe gestire.

Si potrebbe così parlare ora di ascolto attivo ed empatia, particolarmente utili quando si è in presenza di conflitti o di problemi da risolvere, ma il tema è stato già ampiamente svolto in altri contributi, come si è accennato. Sottolineo solo come perché l’ascolto sia empatico sarebbe necessario che chi ascolta, faccia contemporaneamente dentro di sé un lavoro di riflessione sul suo stato d’animo di fronte alle emozioni trasmesse, su quali sono le emozioni che l’altro trasmette, su quali sono le comunicazioni non verbali del suo interlocutore. Chi ascolta veramente quindi viaggia almeno su due piani, al suo interno: quello che attiene agli stimoli esterni e quello che riguarda quanto avviene dentro di lui. Si comprende come, per essere in grado di mettere in atto questa sorta di sdoppiamento funzionale, serva allenamento, formazione ed esperienza.

Ovviamente nei gruppi di lavoro le emozioni espresse e non espresse, il detto e il non-detto, i problemi della loro gestione si possono amplificare all’ennesima potenza: anche in questo caso l’ascolto attivo, utilizzando la tecnica del messaggio-io suggerita da Gordon, può essere di aiuto. Si tratta, dopo aver ascoltato, di parlare di sé in prima persona, esprimendo anche le proprie emozioni negative, descrivendo pure il comportamento dell’altro che mette a disagio, motivandolo, e formulando una richiesta diretta/indiretta di modifica.

Esprimere anche le proprie difficoltà ed i propri limiti abbassa il livello di tensione emotiva, il senso di rivendicazione e l’ansia. Ricordo un episodio emblematico: ero stato incaricato di condurre un gruppo di formazione per specialisti, su casi clinici o argomenti che avrebbero scelto loro. Nel primo incontro, mi sono trovato di fronte ad un gruppo silenzioso, che non proponeva nulla e non aveva preparato alcun caso clinico da discutere insieme. Dopo una decina di minuti, dopo aver ascoltato in modo rispettoso il silenzio, ho fatto la scelta di presentare al gruppo i risultati di una mia ricerca, motivandola con l’opportunità di uscire da una situazione per me fortemente imbarazzante. La decisione di espormi all’opinione del gruppo ha sbloccato un po’ l’atmosfera e si è avviata una possibilità di confronto. Negli incontri successivi, già programmati, ho continuato sulla stessa linea e via via il gruppo ha dimostrato maggiore partecipazione e capacità di discussione. Nell’incontro finale (il quarto incontro) è stato espresso il non-detto, che certamente aveva inibito il gruppo: mi è stato chiesto se sarei stato io a prendere il posto del primario, che sarebbe andato in pensione l’anno successivo.

Effettivamente si può dire che, nell’episodio raccontato, l’ascolto attivo ha consentito lentamente di trovare il clima e poi le parole per il non-detto.