Benedetto XVI e il tramonto dell’Occidente
Joseph Ratzinger: da papa, la sua presenza era intollerabile, il suo genio una minaccia, le sue dimissioni sono state un sollievo per tanti. Benedetto XVI, scrive John Waters nell’Introduzione al libro di Giulio Meotti L’ultimo Papa d’Occidente?, “era la voce profetica dell’inquietudine umana e di un futuro oscuro”, e rischia di essere anche l’ultimo papa di cui parlava Friedrich Nietzsche, almeno d’Occidente.
Meotti, giornalista di lungo corso del quotidiano «Il Foglio», si è imbarcato nella difficile ma stimolante impresa di raccogliere e sintetizzare interviste, discorsi, lezioni, conferenze, libri di Joseph Ratzinger nell’arco di cinquant’anni: dai tempi in cui insegnava teologia a Tubinga e Ratisbona alla nomina a cardinale nel 1977, dall’elezione a papa con il nome di Benedetto XVI alla clamorosa rinuncia nel 2013, sino ai giorni nostri. Scritti in cui risuona la voce di un radicale dissenso laico che si configura oggi come uno dei più alti nella storia del Novecento e oltre.
Il più brillante teologo del suo tempo, un intelletto supremo, gentile e riservato, tradizionalista e amante della musica si discostava completamente dall’immagine carismatica e pop del predecessore Giovanni Paolo II. Il suo progetto principale, da pontefice, fu il recupero della cultura occidentale e di un concetto integrato di ragione. Benedetto XVI, scrive sempre Waters nell’Introduzione, “si è rivelato come una voce totalmente nuova nella cultura moderna, parlando con chiarezza e profondità enormi dell’umanità in un mondo che cerca di vivere senza Cristo. Le sue parole taglienti come ghiaccio hanno penetrato i paradossi della realtà estraendone i segreti, come un poeta.”
Ratzinger aveva previsto tutto: la cesura del Sessantotto, il collasso della sua Chiesa, il dominio del relativismo, l’addio dell’Europa al cattolicesimo che si compie senza lacrime né nostalgia, la forza e il fanatismo islamico, il neomarxismo della Chiesa del popolo, l’ecologismo dirompente, il mondo nuovo delle Nazioni Unite, l’eugenetica democratica, il paradosso di un Occidente che al massimo della propria potenza materiale raggiunge l’apice dell’insicurezza culturale, l’avvento di un’Europa post-europea.
Ecco un rilevante estratto, che racchiude l’essenza del libro:
«Era il 1990: il primo governo post-comunista era già nato nella Polonia di Karol Wojtyla, il Muro di Berlino era un ricordo, i cechi e gli slovacchi in piazza San Venceslao con Václav Havel avevano fatto la “rivoluzione di velluto”, la Romania aveva fucilato la satrapia socialista di Nicolae Ceauşescu, l’Unione Sovietica stava crollando come un gigante di argilla e la storia era tutta “dalla nostra parte”, dell’Occidente, o almeno così sembrava. Ora che tutta l’Europa aveva affermato il valore della libertà e della democrazia, non era ovvio che l’Occidente avrebbe conquistato il mondo? E non era forse vero che l’Occidente ormai coincideva con il mondo?
Eccola, “la fine della storia”, dove non esistevano più avversari visibili, credibili, all’unica idea trionfante del XX secolo che era la democrazia liberale. Sono gli “ultimi uomini” di cui aveva parlato Friedrich Nietzsche, parcheggiati nel binario morto della storia, siamo noi, che avevamo vinto la guerra ideologica ma che non sapevamo cosa fare di tale vittoria. Ci comportavamo come orfani di un grande nemico. Il male era chiaramente percepibile, e di riflesso anche il bene. Ratzinger invece stava già mettendo in guardia l’Europa da un imminente rischio di “suicidio”. Vedeva più lontano di tutti gli altri. Vedeva un Occidente adagiato su immaginari trofei, stordito dall’ebbrezza del trionfo, inebetito dal senso di onnipotenza, che aveva cominciato a impigrirsi, a farsi avvolgere dalle ragnatele del tedio di vivere. Ratzinger aveva capito che in Occidente si era imposto un nuovo potere deideologizzato ma non meno granitico di prima, che non cerca più di influenzare il pensiero ma di toglierlo, imponendo un conformismo puramente esterno.
Il deserto avanza, affermava Nietzsche a fine Ottocento nell’esaurimento nichilista dei valori occidentali. Anche Ratzinger dirà che siamo di fronte a una «desertificazione spirituale». Ha ragione Jean Mercier quando definisce quella di Ratzinger «la generazione del deserto». Tutto gli è apparso mitigato e anestetizzato, ma nel profondo di un deserto interiore Ratzinger ha visto annidato il germe della dissoluzione. In questo caos, la Chiesa avrebbe costituito «la memoria dell’essere uomini di fronte a una civiltà dell’oblio, che ormai conosce soltanto se stessa e il proprio criterio di misure». Poteva esserci una definizione più bella in cui si riconoscessero anche i laici allarmati dalla discontinuità storica e culturale che già si intravedeva?
L’“Occidente” è stato un’impresa colossale, alla quale avrebbe legato il proprio nome questo che sarebbe diventato uno dei giganti del Novecento e che, non appena parlava e scriveva, accresceva la mappa dei nemici, dentro e fuori la Chiesa, fra i progressisti, i cattolici liberal, i musulmani. Il duecentosessantacinquesimo successore di Pietro, che si stabilì negli appartamenti papali con i libri, il tavolo comprato negli anni Cinquanta, il pianoforte dove suonare Mozart e i fedeli gatti, è l’uomo che avrebbe fatto dell’Europa un’ossessione, parlandone in luoghi significativi della sua storia: Monaco (1979), Cracovia (1980), Spira (1990), Berlino (2000), Roma (2004) e, alla vigilia della morte di Giovanni Paolo II, a Subiaco, una delle radici spirituali e intellettuali della storia europea.
«La modernità senz’anima è giunta al termine», aveva scritto all’inizio dell’era ratzingeriana il giornalista cattolico Martin Lohmann. L’Europa secondo Ratzinger era la matrice culturale del cristianesimo e la Chiesa non poteva concepire di abbandonarla, come invece avrebbe fatto. Parlando al Palazzo della Musica e dei Congressi di Strasburgo il 29 aprile 1979, Ratzinger disse: «Le società occidentali di oggi mi sembrano già in gran parte società post-europee.» Gli attacchi che il futuro pontefice avrebbe ricevuto dimostrarono l’importanza che il cristianesimo svolgeva ancora nella coscienza occidentale. Era anche l’attacco a uno degli intellettuali più prolifici della recente storia europea: prima di diventare papa, Ratzinger aveva scritto ottantasei libri, quattrocentosettantuno fra articoli e prefazioni e trentadue altri contributi per una media di circa trenta saggi all’anno, senza contare i documenti ufficiali della sua Congregazione.
Nel 1980, da Cracovia, Ratzinger lo spiegò chiaramente, quando quella parte di Europa si pensava avesse cancellato le radici cristiane europee tramite il marxismo e l’ateismo: «Ogni popolo europeo può e deve riconoscere che la fede ha creato la propria patria e che perderemmo noi stessi sbarazzandoci della nostra fede.» E vent’anni dopo, il mite professore e cardinale avrebbe spiegato che anche l’Europa occidentale rischiava di perdersi.
Non è un caso che nel libero Occidente il processo di scristianizzazione, apparentemente indolore, si sia realizzato prima che nei paesi dell’Est. A Ovest avevano avuto il Sessantotto all’insegna della “liberazione”, a Est della libertà. Nella fase di massimo splendore dell’Occidente europeo, Ratzinger, che ha sempre avuto il coraggio di smuovere acque chete, scorgeva le ombre di un imminente tramonto. La sua lampada ha illuminato, almeno per un attimo, la faccia nascosta del Vecchio Continente.»