Cassazione Penale: detenzione di programmi in supporti non contrassegnati dalla SIAE
Secondo la Cassazione occorre valutare "se l’utilizzo dei programmi in questione nell’ambito della attività uno studio di un libero professionista possa farsi rientrare nella nozione di attività di impresa", posto che "il giudice di primo grado ha ritenuto che l’attività libero professionale non può essere equiparata ad un utilizzo personale, perché consiste in una attività economica diretta alla prestazione di servizi ed alla produzione di redditi, sicché va qualificata come attività di impresa, sia pure individuale e non gestita in forma societaria".
La Cassazione ritiene che "il reato previsto dall’art. 171 bis, primo comma, primo periodo, seconda ipotesi, legge 22 aprile 1941, n. 633 (illecita detenzione, a scopo commerciale o Imprenditoriale, di programmi per elaboratore privi di contrassegno Siae) laddove richiede che detenzione avvenga «a scopo commerciale o imprenditoriale» non si riferisce anche alla detenzione ed utilizzazione nell’ambito di una attività libero professionale, alla quale pertanto non si applica la norma in esame".
Secondo la Cassazione, infatti, "è erroneo equiparare l’utilizzo in una attività libero professionale ad una attività imprenditoriale solo perché il primo utilizzo non potrebbe essere equiparato a quello meramente privato. Questo assunto si fonda su un presupposto che non corrisponde assolutamente alla realtà, ossia che il legislatore abbia stabilito che esistono solo tre categorie di utilizzi: quello commerciale, quello imprenditoriale e quello meramente privato, con la conseguenza che tutti gli utilizzi che non siano meramente privati debbano necessariamente essere fatti rientrare in una delle altre due categorie. La realtà invece è - come risulta dalla lettera e dalla ratio della disposizione - che il legislatore, tra tutti gli innumerevoli utilizzi possibili, ne ha individuati due (commerciale ed imprenditoriale) che ha ritenuto meritevoli di sanzione penale. A tutti gli altri utilizzi che non rientrano in una di queste due categorie, ovviamente, la sanzione penale non sarà applicabile.
Non può poi ritenersi che alla soluzione del giudice di primo grado possa pervenirsi sulla base di una interpretazione estensiva. Ed infatti, per quanto possa dilatarsi il significato della parola «imprenditoriale» in essa non potrà mai rientrare anche l’attività di un libero professionista che non sia esercitata nell’ ambito di una attività organizzata nella forma di impresa. Si è invece in presenza di una vera e propria applicazione analogica della norma dettata per la fattispecie dell’utilizzo a scopo imprenditoriale alla diversa fattispecie dell’utilizzo a scopo libero professionale. Non si è esteso il significato di una norma preesistente, bensì si è creata una nuova norma, che prima non esisteva. In altre parole, si è ipotizzato che nella normativa esiste una lacuna per l’attività libero professionale e si è quindi ritenuta applicabile la norma prevista per la diversa fattispecie l’attività imprenditoriale, sul presupposto che fra le due fattispecie esisterebbe una identità di ratio che appunto giustificherebbe il ricorso all’analogia.
Sennonché, nella specie non esistono (e comunque non è dimostrato che esistono) nemmeno i presupposti logici dell’applicazione analogica, per la quale non è sufficiente una mera somiglianza, ma occorre una somiglianza rilevante, ossia che le due fattispecie siano somiglianti in quell’elemento che costituisce la ragione sufficiente della previsione normativa (cioè la ratio legis). Nel caso in esame l’elemento in comune, quello somigliante, è stato individuato nel fatto che sia l’utilizzo imprenditoriale sia quello libero professionale sono diversi dall’utilizzo meramente privato. Si tratta però di una somiglianza non rilevante, perché la ragione sufficiente per cui allo scopo commerciale ed a quello imprenditoriale sono state riconnesse certe conseguenze penali non risiede certamente nel fatto che in entrambi i casi si tratta di attività non meramente privata. Manca quindi l’identità di ratio sicché non è possibile nemmeno in astratto una applicazione analogica. L’applicazione analogica peraltro non sarebbe possibile in nessun caso, in quanto vietata dall’art. 14 delle preleggi (e dall’art. 25, comma 2, Cost.) perché porterebbe alla applicazione in malam partem di una nonna penale ad un caso non espressamente previsto dalla legge.
Nemmeno potrebbe pensarsi che il legislatore, nella sola disposizione in esame, abbia inteso confondere l’attività imprenditoriale e quella libero professionale, che per il resto sono state dallo stesso legislatore tenute distinte e disciplinate in modo diverso (cfr. artt. 2084 ss. cod. civ. per l’attività dell’imprenditore; art. 2222 cod. civ. per l’attività propria del lavoro autonomo; ed in particolare artt. 2229 ss. cod. civ. per le professioni intellettuali). In realtà, per «imprenditoriale» può intendersi anche l’esercizio di una attività di produzione di meri servizi, sempre però in quanto sia esercitata industrialmente. E’ quindi certo che vi è una netta contrapposizione tra l’attività imprenditoriale industriale, disciplinata appunto dagli artt. 2188 ss. cod. civ., e l’attività libero professionale intellettuale, regolata invece dagli artt. 2229 ss. cod. civ. Tale contrapposizione non viene meno neppure quando l’attività professionale intellettuale viene esercitata con l’aiuto di ausiliari o in forma collaborativa associata.
Nella specie si tratta della attività di geometra, che ha appunto natura libero professionale e non imprenditoriale, in quanto rientra tra le professioni che l’art. 2229, comma 1, cod. civ. tipizza come intellettuali ad ogni effetto, è disciplinata come tale da una apposita legge (r.d. n. 271/1929) ed è richiesta l’iscrizione in un apposito albo per poterla esercitare lecitamente.
Poiché quindi la detenzione ed utilizzazione dei programmi in questione non è stata fatta nell’ambito di una attività imprenditoriale/ma dell’attività di un libero professionista, la sentenza impugnata dovrebbe, già per questa ragione, essere annullata perché il fatto non è previsto dalla legge come reato.
Sennonché deve rilevarsi che sussiste un’altra ragione per un pieno proscioglimento nel merito. L’art. 171 bis, comma 1, legge 22 aprile 1941, n. 633 come già rilevato, punisce, da un lato, la abusiva duplicazione, per trame profitto, di programmi per elaboratore (prima ipotesi di reato) e, dall’altro lato, l’importazione, distribuzione, vendita, detenzione a scopo commerciale e imprenditoriale, concessione in locazione non già di programmi abusivamente duplicati ma esclusivamente di programmi contenuti in supporti non contrassegna dalla SIAE. In questo caso il legislatore, per i programmi per elaboratore, ha volutamente utilizzato un criterio diverso da quello scelto per le opere musicali o audiovisive dal successivo art. 171 ter, primo comma, il quale punisce, da un lato, l’abusiva duplicazione e riproduzione (lett. a) e b» e, dall’altro Iato, sia la detenzione per la vendita di opere abusivamente duplicate o riprodotte (lett. c) sia la detenzione per la vendita di opere prive del contrassegno Siae (lett. d). Dunque, l’art. 171 ter, da una parte, ha ad oggetto, oltre alle opere su supporti privi del contrassegno Siae anche quelle abusivamente riprodotte, ma, dall’altra parte, punisce soltanto la detenzione per la vendita (o la trasmissione per radio o per televisione o l’ascolto in pubblico). L’art. 171 bis, da parte sua, punisce non solo la detenzione per la vendita o a scopo di commercializzazione, ma anche quella a scopo imprenditoriale, ma ha però ad oggetto soltanto i programmi su supporti privi di contrassegno Siae e non anche quelli abusivamente riprodotti.
Deve ritenersi che questa diversità di disciplina corrisponda ad una precisa finalità del legislatore, che ha voluto calibrare le diverse conseguenze giuridiche della pluralità dei comportamenti ipotizzabili in materia. E come si è in precedenza ricordato, nell’interpretare le diverse disposizioni della legge 22 aprile 1941, n. 633, questa Corte si è sempre ispirata alla necessità di osservare i principi di tassatività e determinatezza delle fattispecie penali ribadendo che in materia penale, nella quale vige il divieto di applicazione analogica, il giudice non può rimediare ad ipotetiche sviste legislative dilatando la fattispecie penale al di là del suo contenuto tassativo.
Di conseguenza, alla luce dei richiamati principi costituzionali, deve ritenersi che la seconda ipotesi di reato di cui all’art. 171 bis, primo comma, cit., abbia ad oggetto esclusivamente i programmi per elaboratore contenuti su supporti privi del contrassegno Siae e non anche i programmi abusivamente riprodotti. Del resto, non potrebbe sicuramente pervenirsi ad una eventuale applicazione della nonna penale ai programmi abusivamente duplicati attraverso una interpretazione estensiva della disposizione, essendo evidente che il significato dell’ espressione «programmi contenuti in supporti non contrassegnati dalla Società degli autori ed editori (SIAE») non può essere dilatato fino a fargli comprendere anche i programmi abusivamente duplicati. Anche in questo caso, quindi, non si estenderebbe il significato di una norma preesistente, ma si creerebbe una nuova norma che prima non esisteva. Si opererebbe quindi una applicazione analogica della norma dettata per il caso tiei supporti privi di contrassegno Siae al diverso caso dei programmi abusivamente duplicati. Qui probabilmente sussisterebbero i presupposti logici per l’analogia, dal momento che i due casi sono simili proprio per l’elemento che è stato la ragione sufficiente per la previsione normativa (identità di rafia). L’analogia tuttavia è vietata perché riguarderebbe una norma penale.
Il reato di illecita importazione, distribuzione, vendita, detenzione, concessione in locazione di programmi per elaboratore di cui alla seconda ipotesi dell’art. 171 bis, dunque, ha ad oggetto unicamente i programmi contenuti su supporti privi del contrassegno Siae, ossia, in sostanza, punisce la violazione dell’ obbligo di apporre tale contrassegno sui supporti nel caso di detenzione degli stessi a fine commerciale o imprenditoriale (o di importazione, distribuzione, vendita, concessione in locazione).
(Corte di Cassazione - Sezione Terza Penale, Sentenza 22 dicembre 2009, n.49385).
Secondo la Cassazione occorre valutare "se l’utilizzo dei programmi in questione nell’ambito della attività uno studio di un libero professionista possa farsi rientrare nella nozione di attività di impresa", posto che "il giudice di primo grado ha ritenuto che l’attività libero professionale non può essere equiparata ad un utilizzo personale, perché consiste in una attività economica diretta alla prestazione di servizi ed alla produzione di redditi, sicché va qualificata come attività di impresa, sia pure individuale e non gestita in forma societaria".
La Cassazione ritiene che "il reato previsto dall’art. 171 bis, primo comma, primo periodo, seconda ipotesi, legge 22 aprile 1941, n. 633 (illecita detenzione, a scopo commerciale o Imprenditoriale, di programmi per elaboratore privi di contrassegno Siae) laddove richiede che detenzione avvenga «a scopo commerciale o imprenditoriale» non si riferisce anche alla detenzione ed utilizzazione nell’ambito di una attività libero professionale, alla quale pertanto non si applica la norma in esame".
Secondo la Cassazione, infatti, "è erroneo equiparare l’utilizzo in una attività libero professionale ad una attività imprenditoriale solo perché il primo utilizzo non potrebbe essere equiparato a quello meramente privato. Questo assunto si fonda su un presupposto che non corrisponde assolutamente alla realtà, ossia che il legislatore abbia stabilito che esistono solo tre categorie di utilizzi: quello commerciale, quello imprenditoriale e quello meramente privato, con la conseguenza che tutti gli utilizzi che non siano meramente privati debbano necessariamente essere fatti rientrare in una delle altre due categorie. La realtà invece è - come risulta dalla lettera e dalla ratio della disposizione - che il legislatore, tra tutti gli innumerevoli utilizzi possibili, ne ha individuati due (commerciale ed imprenditoriale) che ha ritenuto meritevoli di sanzione penale. A tutti gli altri utilizzi che non rientrano in una di queste due categorie, ovviamente, la sanzione penale non sarà applicabile.
Non può poi ritenersi che alla soluzione del giudice di primo grado possa pervenirsi sulla base di una interpretazione estensiva. Ed infatti, per quanto possa dilatarsi il significato della parola «imprenditoriale» in essa non potrà mai rientrare anche l’attività di un libero professionista che non sia esercitata nell’ ambito di una attività organizzata nella forma di impresa. Si è invece in presenza di una vera e propria applicazione analogica della norma dettata per la fattispecie dell’utilizzo a scopo imprenditoriale alla diversa fattispecie dell’utilizzo a scopo libero professionale. Non si è esteso il significato di una norma preesistente, bensì si è creata una nuova norma, che prima non esisteva. In altre parole, si è ipotizzato che nella normativa esiste una lacuna per l’attività libero professionale e si è quindi ritenuta applicabile la norma prevista per la diversa fattispecie l’attività imprenditoriale, sul presupposto che fra le due fattispecie esisterebbe una identità di ratio che appunto giustificherebbe il ricorso all’analogia.
Sennonché, nella specie non esistono (e comunque non è dimostrato che esistono) nemmeno i presupposti logici dell’applicazione analogica, per la quale non è sufficiente una mera somiglianza, ma occorre una somiglianza rilevante, ossia che le due fattispecie siano somiglianti in quell’elemento che costituisce la ragione sufficiente della previsione normativa (cioè la ratio legis). Nel caso in esame l’elemento in comune, quello somigliante, è stato individuato nel fatto che sia l’utilizzo imprenditoriale sia quello libero professionale sono diversi dall’utilizzo meramente privato. Si tratta però di una somiglianza non rilevante, perché la ragione sufficiente per cui allo scopo commerciale ed a quello imprenditoriale sono state riconnesse certe conseguenze penali non risiede certamente nel fatto che in entrambi i casi si tratta di attività non meramente privata. Manca quindi l’identità di ratio sicché non è possibile nemmeno in astratto una applicazione analogica. L’applicazione analogica peraltro non sarebbe possibile in nessun caso, in quanto vietata dall’art. 14 delle preleggi (e dall’art. 25, comma 2, Cost.) perché porterebbe alla applicazione in malam partem di una nonna penale ad un caso non espressamente previsto dalla legge.
Nemmeno potrebbe pensarsi che il legislatore, nella sola disposizione in esame, abbia inteso confondere l’attività imprenditoriale e quella libero professionale, che per il resto sono state dallo stesso legislatore tenute distinte e disciplinate in modo diverso (cfr. artt. 2084 ss. cod. civ. per l’attività dell’imprenditore; art. 2222 cod. civ. per l’attività propria del lavoro autonomo; ed in particolare artt. 2229 ss. cod. civ. per le professioni intellettuali). In realtà, per «imprenditoriale» può intendersi anche l’esercizio di una attività di produzione di meri servizi, sempre però in quanto sia esercitata industrialmente. E’ quindi certo che vi è una netta contrapposizione tra l’attività imprenditoriale industriale, disciplinata appunto dagli artt. 2188 ss. cod. civ., e l’attività libero professionale intellettuale, regolata invece dagli artt. 2229 ss. cod. civ. Tale contrapposizione non viene meno neppure quando l’attività professionale intellettuale viene esercitata con l’aiuto di ausiliari o in forma collaborativa associata.
Nella specie si tratta della attività di geometra, che ha appunto natura libero professionale e non imprenditoriale, in quanto rientra tra le professioni che l’art. 2229, comma 1, cod. civ. tipizza come intellettuali ad ogni effetto, è disciplinata come tale da una apposita legge (r.d. n. 271/1929) ed è richiesta l’iscrizione in un apposito albo per poterla esercitare lecitamente.
Poiché quindi la detenzione ed utilizzazione dei programmi in questione non è stata fatta nell’ambito di una attività imprenditoriale/ma dell’attività di un libero professionista, la sentenza impugnata dovrebbe, già per questa ragione, essere annullata perché il fatto non è previsto dalla legge come reato.
Sennonché deve rilevarsi che sussiste un’altra ragione per un pieno proscioglimento nel merito. L’art. 171 bis, comma 1, legge 22 aprile 1941, n. 633 come già rilevato, punisce, da un lato, la abusiva duplicazione, per trame profitto, di programmi per elaboratore (prima ipotesi di reato) e, dall’altro lato, l’importazione, distribuzione, vendita, detenzione a scopo commerciale e imprenditoriale, concessione in locazione non già di programmi abusivamente duplicati ma esclusivamente di programmi contenuti in supporti non contrassegna dalla SIAE. In questo caso il legislatore, per i programmi per elaboratore, ha volutamente utilizzato un criterio diverso da quello scelto per le opere musicali o audiovisive dal successivo art. 171 ter, primo comma, il quale punisce, da un lato, l’abusiva duplicazione e riproduzione (lett. a) e b» e, dall’altro Iato, sia la detenzione per la vendita di opere abusivamente duplicate o riprodotte (lett. c) sia la detenzione per la vendita di opere prive del contrassegno Siae (lett. d). Dunque, l’art. 171 ter, da una parte, ha ad oggetto, oltre alle opere su supporti privi del contrassegno Siae anche quelle abusivamente riprodotte, ma, dall’altra parte, punisce soltanto la detenzione per la vendita (o la trasmissione per radio o per televisione o l’ascolto in pubblico). L’art. 171 bis, da parte sua, punisce non solo la detenzione per la vendita o a scopo di commercializzazione, ma anche quella a scopo imprenditoriale, ma ha però ad oggetto soltanto i programmi su supporti privi di contrassegno Siae e non anche quelli abusivamente riprodotti.
Deve ritenersi che questa diversità di disciplina corrisponda ad una precisa finalità del legislatore, che ha voluto calibrare le diverse conseguenze giuridiche della pluralità dei comportamenti ipotizzabili in materia. E come si è in precedenza ricordato, nell’interpretare le diverse disposizioni della legge 22 aprile 1941, n. 633, questa Corte si è sempre ispirata alla necessità di osservare i principi di tassatività e determinatezza delle fattispecie penali ribadendo che in materia penale, nella quale vige il divieto di applicazione analogica, il giudice non può rimediare ad ipotetiche sviste legislative dilatando la fattispecie penale al di là del suo contenuto tassativo.
Di conseguenza, alla luce dei richiamati principi costituzionali, deve ritenersi che la seconda ipotesi di reato di cui all’art. 171 bis, primo comma, cit., abbia ad oggetto esclusivamente i programmi per elaboratore contenuti su supporti privi del contrassegno Siae e non anche i programmi abusivamente riprodotti. Del resto, non potrebbe sicuramente pervenirsi ad una eventuale applicazione della nonna penale ai programmi abusivamente duplicati attraverso una interpretazione estensiva della disposizione, essendo evidente che il significato dell’ espressione «programmi contenuti in supporti non contrassegnati dalla Società degli autori ed editori (SIAE») non può essere dilatato fino a fargli comprendere anche i programmi abusivamente duplicati. Anche in questo caso, quindi, non si estenderebbe il significato di una norma preesistente, ma si creerebbe una nuova norma che prima non esisteva. Si opererebbe quindi una applicazione analogica della norma dettata per il caso tiei supporti privi di contrassegno Siae al diverso caso dei programmi abusivamente duplicati. Qui probabilmente sussisterebbero i presupposti logici per l’analogia, dal momento che i due casi sono simili proprio per l’elemento che è stato la ragione sufficiente per la previsione normativa (identità di rafia). L’analogia tuttavia è vietata perché riguarderebbe una norma penale.
Il reato di illecita importazione, distribuzione, vendita, detenzione, concessione in locazione di programmi per elaboratore di cui alla seconda ipotesi dell’art. 171 bis, dunque, ha ad oggetto unicamente i programmi contenuti su supporti privi del contrassegno Siae, ossia, in sostanza, punisce la violazione dell’ obbligo di apporre tale contrassegno sui supporti nel caso di detenzione degli stessi a fine commerciale o imprenditoriale (o di importazione, distribuzione, vendita, concessione in locazione).
(Corte di Cassazione - Sezione Terza Penale, Sentenza 22 dicembre 2009, n.49385).