x

x

Cassazione Penale: l’epiteto “pregiudicato” va usato con attenzione

È configurabile il reato di diffamazione quando in sede pubblica si accentua lo status di pregiudicato di un soggetto senza che questo rilevi ai fini del discorso posto in essere e sopratutto senza che questa puntualizzazione sia in grado, nella descrizione della sincronia degli eventi illustrati, di suscitare “necessaria e pertinente reazione nei destinatari”.

Lo ha stabilito la quinta sezione penale della Corte di Cassazione che, nel caso di specie, era chiamata a statuire sul caso di un soggetto che, nel corso di un dibattito pubblico, aveva più volte apostrofato il collega avvocato con il termine di “pregiudicato”.

Il ricorrente, impugnando la sentenza di condanna, a sua difesa aveva addotto che l’appellativo in questione era realmente corrispondente a un capitolo della biografica giudiziaria del soggetto in questione, il quale era stato effettivamente destinatario di una sentenza di condanna per reato di diffamazione a mezzo stampa, nonché di contestuale condanna generica al risarcimento del danno commesso. Invocava inoltre a suo favore l’articolo 596 del codice penale in virtù della quale la prova della verità è sempre ammessa “se per il fatto attribuito alla persona offesa è tuttora aperto o s’inizia un procedimento penale”; nonché degli articolo 51 del Codice Penale e 21 della Costituzione Italiana che riconoscono, in forme diverse,  a chiunque di manifestare liberamente il proprio pensiero in forma di critica, nonché di asserzione di verità ponendo l’accento sul fatto che la condotta posta in essere era fondato sull’esercizio di un diritto o adempimento del dovere.

Tuttavia, dalla ricostruzione dei fatti, la Suprema Corte rileva la natura denigratoria delle frasi rivolte dal ricorrente al convenuto e al modus operandi dello studio professionale da questi diretto non possono considerarsi quali argomentazioni tecniche, bensì rappresentano mera reazione dello stesso all’accoglimento da parte del giudice della richiesta di rinviare il processo formulata dalla moglie del convenuto in qualità di avvocato e componente del medesimo studio professionale.

La Suprema Corte di Cassazione nel merito ha espresso il seguente principio interpretativo delle norme sul reato di diffamazione: “il riconoscimento del diritto di rimuovere l’antigiuridicità di lesioni ai diritti fondamentali della persona va comunque contemperato con l’esigenza, sancita dagli artt. 2 e 3 della Costituzione, di evitare che il cittadino che si trovi nella condizione personale e sociale di persona processata e/o condannata divenga, in maniera indenne, perenne bersaglio del discredito dei consociati.

Dalla considerazione del contesto, nonché dei destinatari della rievocazione del passato giudiziario del convenuto, la Corte ritiene che “l’epiteto utilizzato non abbia avuto necessaria e pertinente rilevanza nelle persone presenti all’udienza in questione”.

La Corte, pertanto, ha rigettato il ricorso e condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali avallando in questo modo le argomentazioni del giudice di merito.

(Corte di Cassazione, Quinta Sezione Penale, Sentenza 8 gennaio 2015, n. 475)

È configurabile il reato di diffamazione quando in sede pubblica si accentua lo status di pregiudicato di un soggetto senza che questo rilevi ai fini del discorso posto in essere e sopratutto senza che questa puntualizzazione sia in grado, nella descrizione della sincronia degli eventi illustrati, di suscitare “necessaria e pertinente reazione nei destinatari”.

Lo ha stabilito la quinta sezione penale della Corte di Cassazione che, nel caso di specie, era chiamata a statuire sul caso di un soggetto che, nel corso di un dibattito pubblico, aveva più volte apostrofato il collega avvocato con il termine di “pregiudicato”.

Il ricorrente, impugnando la sentenza di condanna, a sua difesa aveva addotto che l’appellativo in questione era realmente corrispondente a un capitolo della biografica giudiziaria del soggetto in questione, il quale era stato effettivamente destinatario di una sentenza di condanna per reato di diffamazione a mezzo stampa, nonché di contestuale condanna generica al risarcimento del danno commesso. Invocava inoltre a suo favore l’articolo 596 del codice penale in virtù della quale la prova della verità è sempre ammessa “se per il fatto attribuito alla persona offesa è tuttora aperto o s’inizia un procedimento penale”; nonché degli articolo 51 del Codice Penale e 21 della Costituzione Italiana che riconoscono, in forme diverse,  a chiunque di manifestare liberamente il proprio pensiero in forma di critica, nonché di asserzione di verità ponendo l’accento sul fatto che la condotta posta in essere era fondato sull’esercizio di un diritto o adempimento del dovere.

Tuttavia, dalla ricostruzione dei fatti, la Suprema Corte rileva la natura denigratoria delle frasi rivolte dal ricorrente al convenuto e al modus operandi dello studio professionale da questi diretto non possono considerarsi quali argomentazioni tecniche, bensì rappresentano mera reazione dello stesso all’accoglimento da parte del giudice della richiesta di rinviare il processo formulata dalla moglie del convenuto in qualità di avvocato e componente del medesimo studio professionale.

La Suprema Corte di Cassazione nel merito ha espresso il seguente principio interpretativo delle norme sul reato di diffamazione: “il riconoscimento del diritto di rimuovere l’antigiuridicità di lesioni ai diritti fondamentali della persona va comunque contemperato con l’esigenza, sancita dagli artt. 2 e 3 della Costituzione, di evitare che il cittadino che si trovi nella condizione personale e sociale di persona processata e/o condannata divenga, in maniera indenne, perenne bersaglio del discredito dei consociati.

Dalla considerazione del contesto, nonché dei destinatari della rievocazione del passato giudiziario del convenuto, la Corte ritiene che “l’epiteto utilizzato non abbia avuto necessaria e pertinente rilevanza nelle persone presenti all’udienza in questione”.

La Corte, pertanto, ha rigettato il ricorso e condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali avallando in questo modo le argomentazioni del giudice di merito.

(Corte di Cassazione, Quinta Sezione Penale, Sentenza 8 gennaio 2015, n. 475)