Cassazione Penale: obbligo di assistenza per il genitore divorziato
La Corte di Cassazione ha stabilito il principio in base al quale il genitore non può sottrarsi agli obblighi di assistenza inerenti la potestà genitoriale. Il completo disinteresse nei confronti del figlio è contrario all’ordine e alla morale della famiglia, ed è idoneo ad arrecare al minore un danno patrimoniale e non patrimoniale per la forte incidenza del rapporto genitoriale sulla formazione del bambino.
Il caso concreto vede imputato il padre di un minore (il quale aveva divorziato e non conviveva da tempo con la madre del bambino), dichiarato in primo grado colpevole del reato di cui all’articolo 570 del Codice Penale, rubricato “Violazione degli obblighi di assistenza familiare”, per essersi sottratto agli obblighi di assistenza inerenti alla potestà genitoriale e dei relativi obblighi economici. La sentenza della Corte d’Appello ha sostanzialmente confermato la pronuncia del Tribunale, ridefinendo la durata della pena detentiva cui era stato condannato.
Avverso la pronuncia della Corte d’Appello del luogo, è stato proposto ricorso in Cassazione. Il ricorso presenta un unico motivo in cui si denuncia violazione delle norme di legge da parte dei giudici di merito, “per aver confuso, con motivazione carente e contraddittoria, la condotta penalmente rilevante, ossia il rifiuto del genitore di vedere il figlio, con l’effetto, ossia la violazione dell’obbligo di assistenza, dovendo essere necessario la dimostrazione in concreto di tale violazione. Occorre la concretizzazione di un nocumento effettivo in capo al minore”.
I giudici di legittimità hanno constatato in capo al soggetto imputato l’effettivo disinteresse e indifferenza nei confronti del minore e della sua situazione, fin dal momento della nascita, proseguendo con tale condotta anche in seguito alla pronuncia di primo grado.
Essendo un dovere (oltre che un diritto) dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori dal matrimonio, come espressamente previsto dall’articolo 30 della Carta Fondamentale, per garantire loro uno sviluppo e una maturazione integrale della personalità (ex articolo 2 e 3 della Costituzione), è giocoforza ritenere che il soggetto non può sottrarsi a tale vincolo, che trova fondamento nel rapporto di filiazione.
Richiamando la giurisprudenza della Corte di Strasburgo e quella comunitaria, i giudici di Cassazione hanno precisato come debba considerarsi parte essenziale della “vita familiare” il godimento, da parte del genitore e del figlio, della reciproca compagnia, indipendentemente dalla situazione relazionale dei genitori.
In particolare, l’aperto rifiuto e disinteresse a instaurare un qualsiasi rapporto relazionale con il minore è idoneo a “indurre nel bambino sentimenti di colpa, di abbandono e di scarsa autostima, anche in ragione della sofferenza derivante dal confronto con gli altri coetanei, inseriti in un quadro di relazioni familiari stabilmente costituite, o comunque in grado di rapportarsi continuamente con la figura genitoriale del padre”. Ciò determina un evidente danno allo sviluppo e alla formazione del bambino, quale soggetto “debole” e bisognoso di protezione.
I giudici di legittimità hanno definito la condotta del genitore idonea a ledere il bene giuridico dell’ordine e della morale della famiglia, oggetto di tutela della norma penale richiamata. Hanno dunque rigettato il ricorso e confermato la condanna inflitta.
(Corte di Cassazione - Sezione Sesta Penale, Sentenza 19 dicembre 2013, n. 51488)
La Corte di Cassazione ha stabilito il principio in base al quale il genitore non può sottrarsi agli obblighi di assistenza inerenti la potestà genitoriale. Il completo disinteresse nei confronti del figlio è contrario all’ordine e alla morale della famiglia, ed è idoneo ad arrecare al minore un danno patrimoniale e non patrimoniale per la forte incidenza del rapporto genitoriale sulla formazione del bambino.
Il caso concreto vede imputato il padre di un minore (il quale aveva divorziato e non conviveva da tempo con la madre del bambino), dichiarato in primo grado colpevole del reato di cui all’articolo 570 del Codice Penale, rubricato “Violazione degli obblighi di assistenza familiare”, per essersi sottratto agli obblighi di assistenza inerenti alla potestà genitoriale e dei relativi obblighi economici. La sentenza della Corte d’Appello ha sostanzialmente confermato la pronuncia del Tribunale, ridefinendo la durata della pena detentiva cui era stato condannato.
Avverso la pronuncia della Corte d’Appello del luogo, è stato proposto ricorso in Cassazione. Il ricorso presenta un unico motivo in cui si denuncia violazione delle norme di legge da parte dei giudici di merito, “per aver confuso, con motivazione carente e contraddittoria, la condotta penalmente rilevante, ossia il rifiuto del genitore di vedere il figlio, con l’effetto, ossia la violazione dell’obbligo di assistenza, dovendo essere necessario la dimostrazione in concreto di tale violazione. Occorre la concretizzazione di un nocumento effettivo in capo al minore”.
I giudici di legittimità hanno constatato in capo al soggetto imputato l’effettivo disinteresse e indifferenza nei confronti del minore e della sua situazione, fin dal momento della nascita, proseguendo con tale condotta anche in seguito alla pronuncia di primo grado.
Essendo un dovere (oltre che un diritto) dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori dal matrimonio, come espressamente previsto dall’articolo 30 della Carta Fondamentale, per garantire loro uno sviluppo e una maturazione integrale della personalità (ex articolo 2 e 3 della Costituzione), è giocoforza ritenere che il soggetto non può sottrarsi a tale vincolo, che trova fondamento nel rapporto di filiazione.
Richiamando la giurisprudenza della Corte di Strasburgo e quella comunitaria, i giudici di Cassazione hanno precisato come debba considerarsi parte essenziale della “vita familiare” il godimento, da parte del genitore e del figlio, della reciproca compagnia, indipendentemente dalla situazione relazionale dei genitori.
In particolare, l’aperto rifiuto e disinteresse a instaurare un qualsiasi rapporto relazionale con il minore è idoneo a “indurre nel bambino sentimenti di colpa, di abbandono e di scarsa autostima, anche in ragione della sofferenza derivante dal confronto con gli altri coetanei, inseriti in un quadro di relazioni familiari stabilmente costituite, o comunque in grado di rapportarsi continuamente con la figura genitoriale del padre”. Ciò determina un evidente danno allo sviluppo e alla formazione del bambino, quale soggetto “debole” e bisognoso di protezione.
I giudici di legittimità hanno definito la condotta del genitore idonea a ledere il bene giuridico dell’ordine e della morale della famiglia, oggetto di tutela della norma penale richiamata. Hanno dunque rigettato il ricorso e confermato la condanna inflitta.
(Corte di Cassazione - Sezione Sesta Penale, Sentenza 19 dicembre 2013, n. 51488)