Cassazione SU Civili: il curatore non può esercitare il riscatto della polizza vita stipulata dal fallito

Le Sezioni Unite della Cassazione, con la sentenza n. 8271 del 31 marzo 2008, hanno risolto il contrasto giurisprudenziale (tra Cass. n. 8676/00 e le precedenti Cass. nn. 1811/65; 2802/72; 11975/99) in ordine alla questione se sia o non sia legittimato il curatore del fallimento ad esercitare il riscatto della polizza vita stipulata dal fallito, già in bonis, con l’impresa assicuratrice, stabilendo che “non essendo (per la loro funzione previdenziale) acquisibili al fallimento le somme dovute al fallito in base a contratto di assicurazione sulla vita, non è conseguentemente legittimato il curatore ad agire nei confronti dell’assicuratore per ottenere il [valore di] riscatto della correlativa polizza”.

Le disposizioni di riferimento in base alla quale il giudice di legittimità ha risolto il quesito sono l’articolo 1923 Codice Civile - secondo cui, in tema di assicurazione sulla vita, “le somme dovute dall’assicuratore al contraente o al beneficiario non possono essere sottoposte ad azione esecutiva” – e l’articolo 46 n. 5 Legge Fallimentare per cui “Non sono compresi sul fallimento … le cose che non possono essere pignorate per disposizione di legge”.

Secondo gli ermellini, “la questione sulla legittimazione del curatore all’esercizio del riscatto (che dovrebbe precludere all’incameramento della somma rappresentativa del correttivo valore) rimanda così al punto nodale della individuazione della ratio dell’art. 1923 c.c. e della eventuale forza di resistenza, anche al fallimento dell’assicurato, del divieto, ivi sancito, di sottoponibilità ad azione esecutiva o cautelare delle somme dovutegli dall’assicuratore”.

Le Sezioni Uniti sottolineano come “risolutiva, ai fini dell’opzione esegetica sia, per un verso, la considerazione, in chiave di interpretazione costituzionalmente orientata, del rilievo e spessore – costituzionale appunto – che va riconosciuto al valore della “previdenza” [qui legata ai bisogni dell’età postlavorativa o derivante dall’evento morte di colui che percepisce redditi dei quali anche altri si avvalga], che la norma in esame [unitamente ad eventuali e, in varia misura, concorrenti finalità di risparmio] è volta a tutelare [in via sia diretta, attraverso la garanzia del credito del singolo assicurato, sia indiretta attraverso la protezione del patrimonio dell’assicuratore, posto così al riparo dal contenzioso dei creditori, i cui costi andrebbero a detrimento degli assicurati per via di innalzamento dei premi]; e, per altro verso, la percezione, in termini di diritto vivente, ontologicamente inteso, della dimensione evolutivamente assunta, nell’attuale contesto economico sociale, dallo strumento (che in ragione, appunto, della sua funzione previdenziale, il “divieto” sub art. 1923 c.c. è volto a presidiare) della assicurazione sulla vita, quale forma di assicurazione privata (pur nelle possibili sue varie modulazioni negoziali) maggiormente affini agli istituti di previdenza elaborati dalle assicurazioni sociali”.

Sulla base di tale passaggio argomentativo è stata respinta “una interpretazione restrittiva dell’art. 1923 c.c., escludendo per ciò che la rete di protezione, da azioni esecutive o cautelari, che detta norma appresta al credito dell’assicurato, per le somme dovutegli dall’assicuratore in base al contratto di cui al precedente art. 1919, si dissolva a fronte di esecuzione concorsuale, e che – nel quadro di questa – il bilanciamento degli opposti interessi possa risolversi privilegiando quella dei creditori, con forme di tutela ulteriori rispetto a quella (revocatoria) espressamente, all’uopo, già prevista dalla disposizione di cui al comma secondo dello stesso art. 1923”.

Pertanto secondo la Corte “anche dopo la dichiarazione di fallimento, rimane in vigore (nei sensi e, nei limiti, ex articolo 1924 Codice Civile, di cui già si è detto) il contratto di assicurazione sulla vita stipulato (in bonis) dal fallito”.

Inoltre, “stante la impignorabilità, ex articolo 1923 come sopra interpretato, dei crediti del fallito derivanti (nelle forme alternative di cui al successivo articolo 1925) dal non disciolto contratto di che trattasi, gli stessi rientrano le “cose” (per tali dovendosi intendere tutte le entità economicamente apprezzabili) “non comprese nel fallimento”, in ragione appunto della loro non pignorabilità ex lege, ai sensi dell’articolo 46 n. 5 Legge Fallimentare. Con l’ulteriore conseguenza che il curatore non è legittimato a chiedere lo scioglimento di quel contratto per acquisire alla massa il correlativo valore di riscatto; esclusivamente potendo, viceversa (nei casi in cui il contratto appaia stipulato non per reali finalità previdenziali ma in pregiudizio dei creditori), agire in revocatoria relativamente “ai premi pagati” ex comma 2 articolo 1923 cit. e 67 Legge Fallimentare”.

La sentenza è integralmente consultabile sul sito della Cassazione.

(Corte di Cassazione - Sezioni Unite Civili, Sentenza 31 marzo 2008, n.8271)

[Dott. Donato Vozza]

Le Sezioni Unite della Cassazione, con la sentenza n. 8271 del 31 marzo 2008, hanno risolto il contrasto giurisprudenziale (tra Cass. n. 8676/00 e le precedenti Cass. nn. 1811/65; 2802/72; 11975/99) in ordine alla questione se sia o non sia legittimato il curatore del fallimento ad esercitare il riscatto della polizza vita stipulata dal fallito, già in bonis, con l’impresa assicuratrice, stabilendo che “non essendo (per la loro funzione previdenziale) acquisibili al fallimento le somme dovute al fallito in base a contratto di assicurazione sulla vita, non è conseguentemente legittimato il curatore ad agire nei confronti dell’assicuratore per ottenere il [valore di] riscatto della correlativa polizza”.

Le disposizioni di riferimento in base alla quale il giudice di legittimità ha risolto il quesito sono l’articolo 1923 Codice Civile - secondo cui, in tema di assicurazione sulla vita, “le somme dovute dall’assicuratore al contraente o al beneficiario non possono essere sottoposte ad azione esecutiva” – e l’articolo 46 n. 5 Legge Fallimentare per cui “Non sono compresi sul fallimento … le cose che non possono essere pignorate per disposizione di legge”.

Secondo gli ermellini, “la questione sulla legittimazione del curatore all’esercizio del riscatto (che dovrebbe precludere all’incameramento della somma rappresentativa del correttivo valore) rimanda così al punto nodale della individuazione della ratio dell’art. 1923 c.c. e della eventuale forza di resistenza, anche al fallimento dell’assicurato, del divieto, ivi sancito, di sottoponibilità ad azione esecutiva o cautelare delle somme dovutegli dall’assicuratore”.

Le Sezioni Uniti sottolineano come “risolutiva, ai fini dell’opzione esegetica sia, per un verso, la considerazione, in chiave di interpretazione costituzionalmente orientata, del rilievo e spessore – costituzionale appunto – che va riconosciuto al valore della “previdenza” [qui legata ai bisogni dell’età postlavorativa o derivante dall’evento morte di colui che percepisce redditi dei quali anche altri si avvalga], che la norma in esame [unitamente ad eventuali e, in varia misura, concorrenti finalità di risparmio] è volta a tutelare [in via sia diretta, attraverso la garanzia del credito del singolo assicurato, sia indiretta attraverso la protezione del patrimonio dell’assicuratore, posto così al riparo dal contenzioso dei creditori, i cui costi andrebbero a detrimento degli assicurati per via di innalzamento dei premi]; e, per altro verso, la percezione, in termini di diritto vivente, ontologicamente inteso, della dimensione evolutivamente assunta, nell’attuale contesto economico sociale, dallo strumento (che in ragione, appunto, della sua funzione previdenziale, il “divieto” sub art. 1923 c.c. è volto a presidiare) della assicurazione sulla vita, quale forma di assicurazione privata (pur nelle possibili sue varie modulazioni negoziali) maggiormente affini agli istituti di previdenza elaborati dalle assicurazioni sociali”.

Sulla base di tale passaggio argomentativo è stata respinta “una interpretazione restrittiva dell’art. 1923 c.c., escludendo per ciò che la rete di protezione, da azioni esecutive o cautelari, che detta norma appresta al credito dell’assicurato, per le somme dovutegli dall’assicuratore in base al contratto di cui al precedente art. 1919, si dissolva a fronte di esecuzione concorsuale, e che – nel quadro di questa – il bilanciamento degli opposti interessi possa risolversi privilegiando quella dei creditori, con forme di tutela ulteriori rispetto a quella (revocatoria) espressamente, all’uopo, già prevista dalla disposizione di cui al comma secondo dello stesso art. 1923”.

Pertanto secondo la Corte “anche dopo la dichiarazione di fallimento, rimane in vigore (nei sensi e, nei limiti, ex articolo 1924 Codice Civile, di cui già si è detto) il contratto di assicurazione sulla vita stipulato (in bonis) dal fallito”.

Inoltre, “stante la impignorabilità, ex articolo 1923 come sopra interpretato, dei crediti del fallito derivanti (nelle forme alternative di cui al successivo articolo 1925) dal non disciolto contratto di che trattasi, gli stessi rientrano le “cose” (per tali dovendosi intendere tutte le entità economicamente apprezzabili) “non comprese nel fallimento”, in ragione appunto della loro non pignorabilità ex lege, ai sensi dell’articolo 46 n. 5 Legge Fallimentare. Con l’ulteriore conseguenza che il curatore non è legittimato a chiedere lo scioglimento di quel contratto per acquisire alla massa il correlativo valore di riscatto; esclusivamente potendo, viceversa (nei casi in cui il contratto appaia stipulato non per reali finalità previdenziali ma in pregiudizio dei creditori), agire in revocatoria relativamente “ai premi pagati” ex comma 2 articolo 1923 cit. e 67 Legge Fallimentare”.

La sentenza è integralmente consultabile sul sito della Cassazione.

(Corte di Cassazione - Sezioni Unite Civili, Sentenza 31 marzo 2008, n.8271)

[Dott. Donato Vozza]