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Art. 294 - Attentati contro i diritti politici del cittadino

1. Chiunque con violenza, minaccia o inganno impedisce in tutto o in parte l’esercizio di un diritto politico, ovvero determina taluno a esercitarlo in senso difforme dalla sua volontà, è punito con la reclusione da uno a cinque anni.

Rassegna di giurisprudenza

Consolidata e condivisa è l’osservazione che l’elemento oggettivo del reato di attentato contro i delitti politici del cittadino, di cui all’art. 294, consiste in una condotta connotata da violenza, minaccia o inganno che si traduce nell’impedimento all’esercizio dei diritti politici in senso stretto, correlati al diritto di elettorato attivo e passivo, e non invece di qualsiasi manifestazione del pensiero che possa riguardare scelte politiche, il cui impedimento integra gli estremi della fattispecie generica e sussidiaria del reato di violenza privata di cui all’art. 610 (Sez. 6, 51722/2016).

Fra i diritti politici, l’impedimento all’esercizio dei quali ricade nel fuoco dell’incriminazione dell’art. 294, vanno tuttavia sicuramente annoverati il diritto all’elettorato, attivo e passivo (art. 51 Cost.), il diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale (art. 49 Cost.), il diritto di rivolgere petizioni alle Camere (art. 50 Cost.), il diritto di esercizio dell’iniziativa legislativa (art. 71, secondo comma, Cost.), il diritto di referendum (artt. 75, 123, 132 Cost. e art. 138, secondo comma, Cost.). Il concetto di diritto politico, che sta alla base dello schema descrittivo dell’art. 294, inerisce  nell’ordinamento democratico vigente, con l’impianto costituzionale che ne determina le linee portanti  a una serie di facoltà inviolabili riconosciute al cittadino il cui libero esercizio è coordinato al suo concorso all’organizzazione ed al funzionamento dello Stato che da esso promana.

Posto ciò, è assodato che il sistema costituzionale distingue i diritti politici dalle libertà costituzionali, essendo, i primi, riconosciuti in via originaria quali strumenti garantiti a ciascuno per la sua essenziale partecipazione alla vita  costituzionale ed amministrativa  dello Stato; afferendo, le seconde, alla titolarità ed all’esercizio di quei diritti personali dell’individuo con i quali egli esprime in modo infungibile la sua personalità.

Né può dubitarsi, come anticipato, che fra i diritti politici vada annoverato quello di elettorato passivo. L’art. 51 Cost. stabilisce che tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge.

Anche l’elettorato amministrativo è considerato diritto politico del cittadino perché anche con esso si esercitano facoltà riguardanti l’organizzazione ed il funzionamento di Regioni, Province e Comuni, le cui strutture partecipano con rilevanza incontestabile all’organizzazione istituzionale promanante dall’ordinamento costituzionale. In questa direzione si è chiarito che diritti politici, nell’attuale assetto costituzionale, sono quelli che permettono al cittadino di partecipare all’organizzazione ed al funzionamento dello Stato e degli altri enti di rilevanza costituzionale, come le Regioni, le Province e i Comuni, ai quali è attribuita la funzione di indirizzo politico in relazione ad un determinato aggregato di persone stanziate su una parte del territorio, e che, nel novero dei diritti politici rientra, pertanto, quello di elettorato passivo configurabile in riferimento alla carica di consigliere comunale (Sez. 1, 11055/1994).

È però contestato che nell’ambito dei diritti politici in senso proprio vadano inclusi i diritti politici definiti "funzionali", da alcuni intendendosi con tale locuzione quei diritti che hanno per oggetto non solo l’esercizio dei poteri derivanti dalle pubbliche funzioni, ma anche, in senso lato, l’investitura di pubbliche funzioni e il mantenimento di esse. Non mancano, infatti, opinioni che, muovendo dalla categoria dei diritti funzionali, ne individua il carattere saliente nella tutela, attraverso il loro esercizio, dell’interesse al buon andamento della pubblica Amministrazione: interesse rispetto al quale degraderebbe l’interesse di natura politica, quello al funzionamento ed all’organizzazione dello Stato, sicché la loro violazione, determinando in via diretta la lesione di un interesse amministrativo dello Stato, esulerebbe dall’area di applicazione dell’art. 294.

In tal senso si valorizza l’indicazione fornita dalla Relazione ministeriale al progetto del codice penale lì dove evidenzia che  quando il cittadino sia già investito di pubbliche funzioni  le ipotesi di impedimento, con violenza o con minaccia, dell’esercizio delle funzioni medesime, al pari delle ipotesi di costringimento ad esercitarle in modo difforme dalla sua volontà, esulano dalla sfera di applicazione dell’art. 294, essendo invece applicabili le norme di diritto comune, relative alla tutela del pubblico ufficiale dalla violenza o dalla minaccia.

Nell’esegesi pratica della norma si è, quindi, evidenziato, in particolare, che l’elemento materiale del reato di attentato contro i delitti politici del cittadino, previsto dall’art. 294, consiste in una condotta esplicantesi in violenza, minaccia o inganno che si traduce nell’impedimento all’esercizio di un diritto politico o nella determinazione del cittadino stesso ad esercitarlo in maniera difforme dalla sua volontà (Sez. 1, 17333/2005). E in ciò sta la differenza rispetto alla fattispecie configurata dall’art. 610, che prevede il reato di violenza privata e delinea una fattispecie generica e sussidiaria, sicché questa è destinata ad essere assorbita in quella specifica di cui all’art. 294, in virtù del principio di specialità fissato dall’art. 15: ciò, in fattispecie connotata dalla minaccia nei confronti di un candidato alla carica di consigliere comunale, al fine di costringerlo a ritirare la candidatura (Sez. 1, 11055/1993).

Quel che pare certo è, però, che la tutela penale apprestata dall’art. 294 del diritto di elettorato passivo non può ricondursi al solo momento, per così dire, "genetico" inerente al suo esercizio. Significativo, in questo senso, è che, nella giurisprudenza costituzionale, non si è mai dubitato che gli effetti di atti o leggi che colpiscano l’eletto nel corso del mandato ottenuto a seguito del positivo esercizio del diritto di elettorato passivo, determinandone a qualsivoglia titolo la decadenza o le dimissioni, influiscano direttamente sullo stesso diritto di elettorato, inteso come diritto al mantenimento della carica.

Si richiama, per tutte, l’analisi della Corte costituzionale, sentenza 276/2016, che (dichiarando non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’istituto della sospensione dalle cariche elettive locali prevista dall’art. 8 DLGS 235/2012, che stabilisce, fra l’altro, al comma 1, che sono sospesi di diritto dalle cariche indicate all’articolo 7, comma 1, coloro che hanno riportato una condanna non definitiva per uno dei delitti indicati all’articolo 7, comma 1, lettere a, b e c) ne ha valutato la natura movendo dal presupposto che la stessa fosse idonea ad incidere sul diritto di elettorato passivo del soggetto interessato, sebbene la ritenuta natura non penale e non punitiva, nel senso più ampio affermato dalla Corte EDU, abbia condotto il giudice delle leggi a considerare legittima la sospensione stessa. Nello stesso senso Corte costituzionale, sentenza 236/2015, ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 11, comma 1, lett. a), DLGS 235/2012, nella parte in cui dispone che sono sospesi di diritto dalle cariche di presidente della provincia, sindaco, assessore e consigliere provinciale e comunale coloro che hanno riportato una condanna non definitiva per uno dei delitti indicati dall’art. 10, lett. a), b) e c), stesso DLGS, in riferimento agli artt. 2, 4, secondo comma, 51, primo comma, e 97, secondo comma, Cost.

D’altronde, l’attenzione della giurisprudenza costituzionale alla verifica del vaglio e degli effetti delle questioni di incompatibilità, in relazione a quelle di ineleggibilità, pure in rapporto alle peculiarità degli ordinamenti regionali, muove da un concetto di elettorato passivo che rinviene il dispiegarsi della corrispondente posizione soggettiva sicuramente anche in momento successivo rispetto a quello della elezione. In questa ed in altre occasioni la Corte costituzionale ha evidenziato la portata del diritto di elettorato passivo quale diritto politico fondamentale che l’art. 51 Cost. riconosce e garantisce ad ogni cittadino con i caratteri propri dell’inviolabilità (ex art. 2 Cost.), diritto che, essendo intangibile nel suo contenuto di valore, è suscettibile di essere disciplinato unicamente da leggi generali che possono limitarlo al solo fine di realizzare altri interessi costituzionali altrettanto fondamentali e generali, senza porre discriminazioni sostanziali tra cittadino e cittadino, qualunque sia la regione o il luogo di appartenenza.

Con esso, dunque, si impone un vincolo costituzionale, comune a tutti i diritti dell’uomo e del cittadino, di carattere inviolabile. Si è, in definitiva, reiteratamente affermato che è proprio il principio di cui all’art. 51 Cost. a svolgere il ruolo di garanzia generale di un diritto politico fondamentale, riconosciuto a ogni cittadino con i caratteri dell’inviolabilità ex art. 2 Cost. (Corte costituzionale, sentenze 288/2007 e 539/1990), e che il diritto di elettorato passivo si riferisce al mantenimento della carica così come al diritto di essere eletto. Non appare secondario rilevare, inoltre, che anche dall’analisi della giurisprudenza civile si desume la considerazione che il diritto di elettorato passivo non si esaurisce con la partecipazione all’elezione, ma si estende all’effettivo mantenimento della carica alla quale cittadino è stato eletto (SU civili, 11131/2015, in tema di provvedimento di sospensione della carica di sindaco).

Tale affermazione, resa anch’essa nell’interpretazione della disciplina introdotta dal già citato DLGS 235/2012, è di notevole interesse anche per la presente analisi, lì dove segnala come l’elezione alla carica di sindaco determini l’assunzione di funzioni pubbliche e lo svolgimento di dette funzioni costituisca elemento da valutarsi alla luce del principio di buon andamento della pubblica amministrazione. Invero, una volta che il cittadino sia eletto, le vicende soggettive che lo riguardano e che sono tali da incidere sulla possibilità di continuare a svolgere le funzioni per le quali egli è stato eletto, dispiegano effetti rilevanti non solo dal punto di vista del diritto di elettorato passivo, del quale anche l’esercizio delle funzioni elettive costituisce manifestazione, ma anche dal punto di vista del buon andamento dell’ente locale.

Le considerazioni svolte, confermando l’immanenza del diritto di elettorato passivo pur dopo il momento dell’avvenuta elezione, inducono a ritenere, senza per questo addivenire ad alcuna alterazione della tipicità formale della fattispecie in parola, che la protezione assicurata dalla norma incriminatrice di cui all’art. 294 al diritto di elettorato passivo, così come agli altri diritti politici, se colloca la sua sfera applicativa anzitutto nella fase corrispondente all’esercizio dello stesso in vista dell’elezione del cittadino, non esaurisce l’intero ambito di detta sfera in quella fase. In effetti  essendo volta a sanzionare anche l’esercizio del diritto in modo difforme dalla volontà del titolare  essa ha ad oggetto anche quelle condotte che, pur successivamente alla fase in cui attraverso il suo esercizio il cittadino abbia avuto accesso alla pubblica funzione, la condotta violenta, intimidatoria o decettiva messa in essere ai suoi danni persegua e determini il radicale abbandono da parte sua della pubblica funzione elettivamente conseguita, in tal senso vanificando, a posteriori, ma in modo parimenti incisivo, l’esercizio del diritto politico.

È dunque vero che altre norme prevedono e puniscono gli attentati (non all’esercizio dei diritti politici del cittadino, bensì) al libero esercizio delle pubbliche attività funzionali, essendo evidente il rinvio, al riguardo, agli artt. 289, 336, 337, 339 e 339. Ed è corretto ritenere che l’ipotesi di cui all’art. 294 non riguarda l’esercizio di specifiche attività funzionali che, ove incise da condotte violente, minatorie o ingannatrici nei confronti dell’esercente la pubblica funzione, vanno ricondotte alle norme penali che tutelano, appunto, l’espletamento delle pubbliche funzioni.

Ma nettamente distinto da quest’ultimo ambito è quello relativo, non già all’espletamento delle singole attività funzionali, bensì al mantenimento stesso della carica, ovverosia al persistente esercizio del diritto politico, nella specie del diritto di elettorato passivo, quando la condotta censurata risulti mirata, attraverso violenza, minaccia od inganno, alla sua eradicazione, pur postuma rispetto alla fase dell’elezione, ma in guisa tale che, perseguendo e conseguendo l’obiettivo delle dimissioni dell’eletto dalla funzione, impedisca di fatto il compiuto esercizio del diritto politico stesso. In quest’ultimo la lesione non afferisce alla mera sfera funzionale delle prerogative assegnate al cittadino eletto, ma al suo stesso diritto di elettorato passivo, il cui esercizio, a cagione del comportamento antigiuridico dell’imputato, è stato posto nel nulla mediante il costringimento della persona eletta ad abbandonare la carica a cui l’esercizio del succitato diritto politico l’aveva, con l’elezione, assegnata (Sez. 1, 20755/2018).

L’azione di disturbo all’espressione della manifestazione del pensiero, funzionalmente preliminare alla scelta sul futuro esercizio del diritto politico, va qualificata come violenza privata rispetto alla quale la disposizione di cui all’art. 294 costituisce un reato speciale (Sez. 1, 11055/1993).