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Art. 734-bis (1) - Divulgazione delle generalità o dell’immagine di persona offesa da atti di violenza sessuale

1. Chiunque, nei casi di delitti previsti dagli articoli 600-bis, 600-ter e 600-quater, anche se relativi al materiale pornografico di cui all’articolo 600-quater.1, 600-quinquies, 609-bis, 609-ter, 609-quater, 609-quinquies e 609-octies, divulghi, anche attraverso mezzi di comunicazione di massa, le generalità o l’immagine della persona offesa senza il suo consenso, è punito con l’arresto da tre a sei mesi.

(1) Articolo aggiunto dall’art. 12, L. 66/1996 e successivamente modificato dall’art. 8, L. 269/1998 e dall’art. 9, L. 38/2006.

Rassegna di giurisprudenza

La condotta penalmente rilevante ex art. 734-bis consiste nel portare a conoscenza di un numero indeterminato di persone le generalità o l’immagine della vittima, senza il suo consenso, attraverso delle modalità che comunque consentano di poter risalire alla persona offesa dei reati indicati dalla norma (Sez. 3, 2887/2014).

L’art. 734-bis punisce “chiunque, nei casi di delitti previsti dagli articoli 600-bis, 600-ter, 600-quater, anche se relativi al materiale pornografico di cui all’articolo 600-quater, 600-quinquies, 609-bis, 609-ter, 609-quater, 609-quinquies e 609-octies, divulghi, anche attraverso mezzi di comunicazione di massa, le generalità o l’immagine della persona offesa senza il suo consenso.

In assenza di consenso della persona offesa, dunque, l’illiceità della condotta s’incentra sull’attività di “divulgazione”, consistente nel portare a conoscenza di un numero indeterminato di persone notizie riservate (nel caso che ci occupa le generalità o l’immagine di “qualsiasi” persona offesa di quegli specifici reati), con ogni modalità, prevedendosi espressamente che ciò possa avvenire “anche attraverso mezzi di comunicazione di massa”, tra cui rientrano, evidentemente, non soltanto i mass media tradizionali (stampa, televisione, radio), ma anche quelli diffusisi con le nuove tecnologie (siti web, blog, social network, mailing list).

Si tratta di un reato contravvenzionale, quindi procedibile d’ufficio, e pertanto nessuna conseguenza in ordine alle statuizioni penali può avere l’intervenuta remissione di querela e la successiva revoca della costituzione di parte civile da parte dei genitori in proprio e nell’interesse dei minori. Ma occorre proprio soffermarsi sulla scelta del legislatore di punire il reato in questione come contravvenzione.

Si è voluto che in alcun modo potesse aggiungersi al già grave danno di essere stati parte offesa dei gravi reati indicati nella norma il rischio di portare a conoscenza di quei fatti la collettività. Ebbene, per far ciò, il legislatore del 1996 ha optato per l’introduzione di un reato di pericolo.

La condotta di divulgazione dei dati o dell’immagine è vietata  e la sanzione a titolo di contravvenzione sottrae la stessa alla possibilità di estinzione del reato attraverso la remissione di querela  perché potrebbe essere fonte di pericolo per la parte offesa di essere riconosciuta in quanto tale rispetto a reati che finiscono, nel comune sentire collettivo, per essere in qualche modo infamanti anche per chi li subisce.

Pertanto, la sussistenza nel caso concreto di tale ulteriore danno non deve essere accertata. Ciò che si deve accertare è, invece, soltanto il verificarsi di quel comportamento (la divulgazione delle generalità o delle immagini) che il legislatore ha ritenuto normalmente pericoloso per il bene-interesse tutelato dalla norma. Il legislatore, dunque, incrimina un fatto ritenuto, in base ad una valutazione generale ed astratta, pericoloso per un determinato bene giuridico. E lo fa con una contravvenzione, mostrando di non voler richiedere soltanto l’esistenza del dolo.

La ratio legis è quella di tutelare i soggetti coinvolti da ogni divulgazione. E prescinde dalla volontarietà della stessa. Ugualmente punibile, sarebbe, ad esempio, una pubblicazione che avvenga per colpa consistita nell’imperizia di chi prepara un servizio televisivo convinto che ne sta curando il montaggio mentre lo sta mandando in onda. O di chi, su internet, inoltri per errore un allegato o un messaggio.

Ci si può dunque spingere ad affermare che è ormai chiara negli anni, a seguito degli interventi normativi succedutisi a partire dalla fine degli anni Novanta (vedasi, ad esempio, anche l’art. 52, comma quinto, DLGS 196/2003) la volontà del legislatore di affermare un vero e proprio “diritto all’anonimato” per chi sia vittima di determinati reati, anche solo secondo una prospettazione accusatoria, e che tale diritto debba essere garantito – salvo l’espresso consenso della medesima persona offesa, peraltro difficilmente verificabile  impedendo la “divulgazione”, con ogni mezzo, delle generalità o dell’immagine della persona offesa  sebbene maggiorenne  da atti di violenza sessuale (Sez. 3, 2887/2014).