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Art. 66 - Sentenza di esclusione della responsabilità dell’ente

1. Se l’illecito amministrativo contestato all’ente non sussiste, il giudice lo dichiara con sentenza, indicandone la causa nel dispositivo. Allo stesso modo procede quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova dell’illecito amministrativo.

Stralcio della relazione ministeriale di accompagnamento al D. Lgs. 231/2001

Rispetto all’articolazione delle formule assolutorie del processo penale, nel procedimento nei confronti dell’ente vi è spazio per una sola tipologia di sentenza, con la quale il giudice esclude la sussistenza della responsabilità (art. 66).

Tale causa decidendi, infatti, ricomprende tutte le ipotesi di esclusione della responsabilità amministrativa, che incidono sia sull’elemento reato, sia sui profili relativi all’imputabilità dell’illecito all’ente.

Naturalmente, il giudice deve pronunciare la sentenza di esclusione della responsabilità dell’ente, oltre che nei casi in cui emerga la prova positiva dell’insussistenza dell’illecito, anche quando, a contrario, manchi, o sia insufficiente o contraddittoria la prova della responsabilità dell’ente.

La regola di giudizio  analoga a quella contenuta nel secondo comma dell’art. 530 c.p.p.  è d’altronde codificata anche in sede di giudizio di opposizione all’ordinanza ingiunzione per gli illeciti amministrativi: l’art. 23 della legge 24 novembre 1981, n. 689, prevede infatti che l’opposizione è accolta quando non vi sono prove sufficienti della responsabilità dell’opponente.”

 

Rassegna di giurisprudenza

Non risultano decisioni in termini.

Si riporta pertanto una scelta di decisioni riferite all’art. 530 CPP.

 

Sentenza di assoluzione

Principi dell’al di là di ogni ragionevole dubbio (sentenze di condanna) e del ragionevole dubbio (sentenze di assoluzione)

I principi dell’al di là di ogni ragionevole dubbio e presunzione di innocenza concorrono alla definizione delle regole probatorie e di giudizio e dei metodi di accertamento del fatto, imponendo standard probatori (quello dell’art. 533 comma 1 corrisponde per la sentenza di condanna a quanto l’art. 530 comma 2 stabilisce per la sentenza di assoluzione) e protocolli logici di valutazione delle prove e delle contrapposte ipotesi ricostruttive del fatto fondati sulla tendenziale recessività dell’ipotesi d’accusa (in dubio pro reo) e finalizzati alla necessaria giustificazione razionale delle decisioni giudiziarie.

Con la formula introdotta dalla L. 46/2006 (art. 5) ad integrazione dell’art. 533 si è così proceduto a dare valore normativo alla consolidata affermazione giurisprudenziale secondo la quale la condanna è possibile solo in presenza di certezza processuale della penale responsabilità dell’imputato e si è con maggiore puntualità precisato che il dato probatorio acquisito deve essere tale da lasciar fuori soltanto eventualità remote, pur astrattamente formulabili e prospettabili come possibili in rerum natura, ma la cui effettiva realizzazione, nella fattispecie concreta, risulti priva del ben che minimo riscontro nelle emergenze processuali, ponendosi al di fuori dell’ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana.

Sicché, in caso di prospettazione di un’alternativa ricostruzione dei fatti, occorre che siano individuati gli elementi di conferma dell’ipotesi ricostruttiva accolta, in modo da far risultare la non razionalità del dubbio derivante dalla stessa ipotesi alternativa, non potendo detto dubbio fondarsi su un’ipotesi del tutto congetturale, seppure plausibile.

In tale prospettiva appare del tutto conseguente l’ulteriore approdo di legittimità che ha sintetizzato il principio nella cogenza di un metodo dialettico di verifica dell’ipotesi accusatoria secondo il criterio del “dubbio”, con la conseguenza che il giudicante deve effettuare detta verifica in maniera da scongiurare la sussistenza di dubbi interni (l’autocontraddittorietà o l’incapacità esplicativa) o esterni (l’esistenza di una ipotesi alternativa dotata di razionalità e plausibilità pratica).

La giurisprudenza di legittimità ha ulteriormente precisato che, in tema di valutazione della prova indiziaria, il giudice di merito non può limitarsi ad una valutazione atomistica e parcellizzata degli indizi, né procedere ad una mera sommatoria di questi ultimi, ma deve valutare, anzitutto, i singoli elementi indiziari per verificarne la certezza (nel senso che deve trattarsi di fatti realmente esistenti e non solo verosimili o supposti), saggiarne l’intrinseca valenza dimostrativa (di norma solo possibilistica) e poi procedere ad un esame globale degli elementi certi, per accertare se la relativa ambiguità di ciascuno di essi, isolatamente considerato, possa in una visione unitaria risolversi, consentendo di attribuire il reato all’imputato “al di là di ogni ragionevole dubbio” e, cioè, con un alto grado di credibilità razionale, sussistente anche qualora le ipotesi alternative, pur astrattamente formulabili, siano prive di qualsiasi concreto riscontro nelle risultanze processuali ed estranee all’ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana.

Va infine ribadito, a scanso di ogni equivoco, che il criterio del dubbio ragionevole (il dovere del dubbio) reagisce in modo diverso sugli esiti di condanna e su quelli assolutori: la sentenza di condanna deve superare il ragionevole dubbio sull’attendibilità e concludenza della prova dell’ipotesi accusatoria, mentre quella di assoluzione può (deve) limitarsi al ragionevole dubbio (Sez. 6, 40810/2018).

La regola compendiata nella formula “al di là di ogni ragionevole dubbio” riguarda tutte le componenti del giudizio e, pertanto, anche la capacità di intendere e di volere dell’imputato, il cui onere probatorio non è attribuito all’imputato, quale prova di una eccezione, ma alla pubblica accusa (Sez. 1, 9638/2017).

La regola di giudizio compendiata nella formula “al di là di ogni ragionevole dubbio”, impone di pronunciare condanna a condizione che il dato probatorio acquisito lasci fuori soltanto eventualità remote, pur astrattamente formulabili e prospettabili come possibili “in rerum natura” ma la cui effettiva realizzazione, nella fattispecie concreta, risulti priva del benché minimo riscontro nelle emergenze processuali, ponendosi al di fuori dell’ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana (Sez. 2, 2548/2015).

Il principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio, non può essere utilizzato, nel giudizio di legittimità, per valorizzare e rendere decisiva la duplicità di ricostruzioni alternative del medesimo fatto emerse in sede di merito su segnalazione della difesa, se tale duplicità sia stata oggetto di puntuale e motivata disamina da parte del giudice di appello (Sez. 1, 53512/2014).

 

Ragioni della prevalenza dell’assoluzione nel merito rispetto al riconoscimento di cause di estinzione di reato 

In presenza di una causa di estinzione del reato (nella specie, prescrizione), non sono rilevabili in sede di legittimità vizi di motivazione della sentenza impugnata perché l’inevitabile rinvio della causa all’esame del giudice di merito dopo la pronuncia di annullamento è incompatibile con l’obbligo dell’immediata declaratoria di proscioglimento stabilito dall’art. 129, salvo che nella sentenza impugnata si dia atto della sussistenza dei presupposti per la pronunzia di assoluzione, sia pure ai sensi del secondo comma dell’art. 530, atteso che, nel vigente sistema processuale, la assoluzione per insufficienza o contraddittorietà della prova è del tutto equiparata alla mancanza di prove e costituisce pertanto pronunzia più favorevole rispetto a quella di estinzione del reato.

Conseguentemente, solo allorquando nella sentenza impugnata si dia atto, ovvero risulti chiaramente, la sussistenza dei presupposti per la pronuncia assolutoria ex art. 530, comma 2, il ricorso per cassazione, con il quale si evidenzi la predetta situazione, potrà essere accolto e la statuizione resa conseguentemente riformata; quando invece, con il ricorso per cassazione, si faccia valere il vizio di difetto o illogicità della motivazione ovvero quello di travisamento della prova viene meno quell’evidenza cui l’art. 530, comma 2 subordina il proscioglimento di merito  (Sez. 2, 39960/2018).

Il concetto di ‘evidenza, richiesto dal secondo comma dell’art. 129, presuppone la manifestazione di una verità processuale così chiara e obiettiva, da rendere superflua ogni dimostrazione, concretizzandosi così in qualcosa di più di quanto la legge richiede per l’assoluzione ampia, oltre la correlazione ad un accertamento immediato.

Da ciò discende che, una volta sopraggiunta la prescrizione del reato, al fine di pervenire al proscioglimento nel merito dell’imputato, occorre applicare il principio di diritto secondo cui ‘positivamente’ deve emergere dagli atti processuali, senza necessità di ulteriore accertamento, l’estraneità dell’imputato a quanto allo stesso contestato, e ciò nel senso che si evidenzi l’assoluta assenza della prova di colpevolezza di quello, ovvero la prova positiva della sua innocenza, non rilevando l’eventuale mera contraddittorietà o insufficienza della prova che richiede il compimento di un apprezzamento ponderato tra opposte risultanze (Sez. 2, 39960/2018).

Non sussiste alcuna ragione per la quale, in sede di appello, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 578, non debba prevalere la formula assolutoria nel merito rispetto alla causa di estinzione del reato: e ciò, non solo nel caso di acclarata piena prova di innocenza, ma anche in presenza di prove ambivalenti, posto che alcun ostacolo procedurale, né le esigenze di economia processuale (che ... costituiscono, con riferimento al principio della ragionevole durata del processo, la ratio ed il fondamento della disposizione di cui all’art. 129, comma 2), possono impedire la piena attuazione del principio del favor rei con l’applicazione della regola probatoria di cui al secondo comma dell’art. 530 (SU, 35490/2009).

Il proscioglimento nel merito all’esito del giudizio, in caso di contraddittorietà o insufficienza della prova, prevale rispetto alla dichiarazione immediata di una causa di non punibilità, oltre che in caso di necessaria valutazione, in sede di appello, ai fini civilistici, del compendio probatorio, e in caso di ritenuta infondatezza nel merito dell’impugnazione del PM avverso una sentenza di assoluzione pronunciata ai sensi dell’art. 530 comma 2 anche laddove il giudice di appello debba valutare compiutamente gli elementi di prova al fine di pronunciarsi, per confermarla o revocarla, sulla confisca dei beni disposta con la sentenza di primo grado (Sez. 3, 6261/2010).

È illegittima, nel giudizio di rinvio, la declaratoria d’estinzione del reato per prescrizione, emessa in sede predibattimentale e senza la rituale comunicazione alla difesa dell’avviso di fissazione dell’udienza, allorché sussistano prove insufficienti e contraddittorie in ordine all’attribuibilità soggettiva del fatto, posto che ai sensi dell’art. 530, comma 2, si deve equiparare l’insufficienza e la contraddittorietà degli elementi probatori alla mancanza di prove (Sez. 1, 44848/2008).

La regola di giudizio di cui al comma 2 dell’art. 530 – cioè l’obbligo del giudice di pronunciare sentenza di assoluzione anche quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova della responsabilità – è dettata esclusivamente per il normale esito del processo sfociante in sentenza emessa dal giudice al compimento dell’attività dibattimentale con piena valutazione di tutto il complesso probatorio acquisitosi in atti.

Per contro, detta regola non può trovare applicazione in presenza di causa estintiva di reato.

In tale situazione vale la regola di cui all’art. 129, in base alla quale in presenza di causa estintiva del reato, l’inizio di prova ovvero la prova incompleta in ordine alla responsabilità dell’imputato non viene equiparata alla mancanza di prova, ma, per pervenire ad un proscioglimento nel merito soccorre la diversa regola di giudizio, per la quale deve “positivamente” («risulta evidente», art. 129, comma 2) emergere dagli atti processuali, senza necessità di ulteriore accertamento, l’estraneità dell’imputato per quanto contestatogli (Sez. 6, 1460/1998).

 

Formule assolutorie

Non vi è interesse ad impugnare per sostituire la formula assolutoria di cui al comma 2 con quella di cui al comma 1 dell’art. 530, non sussistendo alcuna sostanziale differenza, in termini giuridici, fra le due formule assolutorie in oggetto. È noto, infatti, che nel vigente codice di rito non esiste più la formula dubitativa dell’insufficienza di prove che caratterizzava il codice previgente.

I primi due commi dell’art. 530 delineano canoni di giudizio il cui valore finale è equivalente, visto che nel sistema (tendenzialmente) accusatorio che caratterizza l’attuale ordinamento processual-penalistico, l’onere della prova in ordine alla sussistenza del reato incombe solo sull’accusa: con la conseguenza che a seguito del mancato adempimento di tale onere probatorio – non importa se perché carente, contraddittorio o del tutto mancante – la regola di giudizio che si trae dal complesso della disciplina di cui ai primi due commi dell’art. 530 impone al giudice di pronunciare una sentenza di proscioglimento che ha comunque valore di assoluzione piena dal reato ascritto.

La prassi di specificare, nel dispositivo assolutorio, il primo o il secondo comma dell’art. 530 corrisponde soltanto ad un’esigenza (sentita da alcuni giudici di merito, ma non necessaria né imposta dalla legge) di rendere esplicito, al momento della decisione, il canone di giudizio adottato dal giudicante, ma non attribuisce un valore giuridico diverso alla pronuncia assolutoria, che resta piena in entrambi i casi.

Conseguentemente, nessun concreto pregiudizio può derivare all’imputato dalla specifica indicazione, nel dispositivo, del secondo comma dell’art. 530 piuttosto che del primo; tanto più che la spiegazione delle specifiche ragioni assolutorie, e quindi del canone di giudizio adottato, è operazione che il giudice deve, più propriamente, compiere mediante la stesura della motivazione della sentenza, come previsto dall’art. 546, comma 1, lett. e) (Sez. 4, 41369/2018).

Non sussiste l’interesse dell’imputato a proporre impugnazione avverso la sentenza di assoluzione per non aver commesso il fatto, pronunciata ai sensi dell’art. 530, comma 2, – per mancanza, insufficienza o contraddittorietà della prova – in quanto tale formula non comporta una minore pregnanza della pronuncia assolutoria ai sensi dell’art. 530, comma 1, anche in ordine agli effetti extrapenali; l’interesse ad impugnare difetta anche nell’ipotesi in cui le risultanze istruttorie avrebbero consentito un’assoluzione ai sensi del primo comma dell’art. 530 (Sez. 3, 51445/2016).

Quando un reato sia stato trasformato in illecito amministrativo, il giudice deve prosciogliere l’imputato con formula «perché il fatto non è previsto dalla legge come reato», che deve essere applicata sia per i fatti che sono ab origine privi di rilevanza penale che per quelli che hanno perso rilevanza a seguito di una legge di depenalizzazione.

Non è possibile dichiarare estinto il reato per intervenuta depenalizzazione, poiché questa non è prevista tra le cause di estinzione in nessun articolo del titolo VI del libro primo del codice penale.

La scelta dell’una o dell’altra formula comporta peraltro conseguenze differenti poiché la dichiarazione di estinzione di regola fa venir meno l’esecuzione della pena, ma fa salvi, al contrario dell’abolitio criminis, gli effetti penali della condanna (Sez. 3, 698/1996).

In tema di scelta tra le varie formule assolutorie, va pronunciata assoluzione con la formula «perché il fatto non sussiste» quando manchi uno degli elementi oggettivi del reato (azione, evento, nesso di causalità) mentre deve assolversi con la formula «perché il fatto non costituisce reato», quando manchi l’elemento soggettivo (dolo, colpa).

Ne deriva che, accertatosi il difetto del rapporto di causalità tra azione ed evento, la assoluzione con la formula «perché il fatto non sussiste» prevale su qualsiasi altra con formula diversa e, in particolare, rende superflua ogni valutazione della condotta poiché siffatto esame comporterebbe un giudizio che, comunque, si risolverebbe in un obiter dictum.

Ed infatti, pur se tale giudizio fosse favorevole all’imputato, la relativa formula di assoluzione e cioè «perché il fatto non costituisce reato» non troverebbe applicazione essendo su di essa prevalente l’altra formula assolutoria più favorevole e cioè «perché il fatto non sussiste» sia perché indicata con priorità nella elencazione di cui all’art. 129 sia perché preclusiva di azione civile ex art. 652 (Sez. 4, 1340/1993).

La formula assolutoria «per non avere commesso il fatto» deve essere usata quando manchi, sul piano puramente materiale, ogni rapporto tra l’attività dell’imputato e l’evento dannoso, mentre quella, più ampiamente liberatoria, «perché il fatto non sussiste» presuppone che nessuno degli elementi, integrativi della fattispecie criminosa contestata, risulti provato; quando, invece, sia stata accertata, sotto l’aspetto fenomenico, la sussistenza dell’elemento oggettivo del reato (quando cioè dalle risultanze processuali emerga che un fatto, corrispondente alla figura tipica di reato, sussiste), sicché la sentenza, non potendo escludere la riconducibilità dell’evento a tale fatto, si limiti ad affermare che nella condotta dell’imputato non si ravvisa l’elemento soggettivo della colpa (o del dolo), la formula è «perché il fatto non costituisce reato» (Sez. 4, 7557/1992).

 

Interesse ad impugnare le sentenze di assoluzione

Non sussiste alcun interesse dell’imputato a proporre impugnazione avverso la sentenza di assoluzione per non aver commesso il fatto, pronunciata ai sensi dell’art. 530, comma 2  per mancanza, insufficienza o contraddittorietà della prova  in quanto tale formula non comporta una minore pregnanza della pronuncia assolutoria ai sensi dell’art. 530, comma 1, anche in ordine agli effetti extra penali.

L’interesse ad impugnare difetta anche nell’ipotesi in cui le risultanze istruttorie avrebbero consentito un’assoluzione con formula piena (Sez, 4, 29507/2018).

Non sussiste l’interesse dell’imputato a proporre impugnazione avverso la sentenza di assoluzione perché il fatto non sussiste, pronunciata ex art. 530, comma 2  per mancanza, insufficienza o contraddittorietà della prova  in quanto tale formulazione non comporta una minore pregnanza della pronuncia assolutoria né segnala residue perplessità sulla innocenza dell’imputato, né spiega minore valenza con riferimento ai giudizi civili, come comprovato dal tenore letterale degli art. 652 e 654; pertanto, essa non può in alcun modo essere equiparata all’assoluzione per insufficienza di prove prevista dal previgente codice di rito (Sez. 5, 49580/2014).

Il PM ha interesse al ricorso per cassazione contro la sentenza d’appello che, in riforma di quella di condanna di primo grado, abbia assolto con la formula “il fatto non costituisce reato” pur in presenza di una sopravvenuta causa di estinzione del reato, e quindi in violazione della regola normativa della prevalenza dell’assoluzione nel merito soltanto in caso di evidenza della prova dell’innocenza, evidenza che è logicamente incompatibile con l’esistenza di una sentenza di condanna (Sez. 2, 23627/2011).

È inammissibile, per difetto di interesse concreto, il ricorso immediato per cassazione della parte civile, che sia diretto esclusivamente alla sostituzione della formula «perché il fatto non sussiste» con quella, corretta, «perché il fatto non costituisce reato» nella sentenza di assoluzione che abbia accertato l’esistenza della causa di giustificazione dell’esercizio di un diritto, in quanto detto accertamento, quale che sia la formula del dispositivo, ha efficacia di giudicato nell’eventuale giudizio civile (o amministrativo ) di danno (SU, 40049/2008).

L’imputato assolto con la formula ampiamente liberatoria «per non aver commesso il fatto», anche se per mancanza, insufficienza o contraddittorietà della prova ai sensi dell’art. 530, comma 2, non è legittimato a proporre appello, neanche incidentale, avverso la relativa sentenza, per carenza di un apprezzabile interesse all’impugnazione, salvo che nell’eccezionale ipotesi in cui l’accertamento di un fatto materiale oggetto del giudizio penale conclusosi con sentenza dibattimentale sia suscettibile, una volta divenuta irrevocabile quest’ultima, di pregiudicare, a norma e nei limiti segnati dall’art. 654 stesso codice, le situazioni giuridiche a lui facenti capo, in giudizi civili o amministrativi diversi da quelli di danno e disciplinari regolati dagli artt. 652 e 653 (SU, 45276/2003).

Sussiste l’interesse dell’imputato all’impugnazione della sentenza di assoluzione, pronunciata con la formula perché il fatto non costituisce reato, al fine di ottenere la più ampia formula liberatoria perché il fatto non sussiste, considerato che, a parte le conseguenze di natura morale, l’interesse giuridico risiede nei diversi e più favorevoli effetti che gli artt. 652 e 653, connettono al secondo tipo di dispositivi nei giudizi civili o amministrativi di risarcimento del danno e nel giudizio disciplinare, a fronte degli effetti pregiudizievoli in tali giudizi derivanti dall’adozione della prima formula assolutoria, salvo che il fatto reato non risulti, in concreto, accertato nella sua materialità, e, pertanto, non sussista alcun pregiudizio nella prospettiva di un successivo giudizio civile, stante la piena autonomia di cognizione e di valutazione dell’organo investito del relativo giudizio (Sez. 5, 19393/2018).

L’interesse all’impugnazione, sebbene non possa essere confinato nell’area dei soli pregiudizi penali derivanti dal provvedimento giurisdizionale, non può neppure essere concepito come aspirazione soggettiva al conseguimento di una pronuncia dalla cui motivazione siano rimosse tutte quelle parti che possono essere ritenute pregiudizievoli, perché esplicative di una perplessità sull’innocenza dell’imputato.

Ed invero, l’impugnazione si configura sempre come un rimedio a disposizione della parte per la tutela di posizioni soggettive giuridicamente rilevanti e non già di interessi di mero fatto, non apprezzabili dall’ordinamento giuridico (Sez. 1, 14699/2000).

Qualora il contenuto decisorio della sentenza sia costituito da statuizioni alternative o cumulative, favorevoli all’imputato, una di merito (insussistenza del fatto) e l’altra di puro diritto sostanziale (il fatto non è previsto dalla legge come reato) l’impugnazione del PM deve aggredire l’una e l’altra disposizione.

La mancata impugnazione della statuizione di merito, che esclude la responsabilità del soggetto anche ex art. 530 cpv., determina il passaggio in giudicato della disposizione non censurata (Sez. 5, 9357/1998).

 

Riforma in appello di una sentenza di condanna

Nell’ipotesi di riforma in senso assolutorio di una sentenza di condanna, il giudice di appello non ha l’obbligo di rinnovare l’istruzione dibattimentale mediante l’esame dei soggetti che hanno reso dichiarazioni ritenute decisive ai fini della condanna di primo grado.

Tuttavia, il giudice di appello (previa, ove occorra, rinnovazione della prova dichiarativa ritenuta decisiva ai sensi dell’art. 603) è tenuto ad offrire una motivazione puntuale e adeguata della sentenza assolutoria, dando una razionale giustificazione della difforme conclusione adottata rispetto a quella del giudice di primo grado (SU, 14800/2018).

In tema di motivazione della sentenza, il giudice di appello sia che riformi la decisione di condanna di primo grado, sia che riformi una decisione assolutoria, ha l’obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato (SU, 33748/2005).

 

Riforma in appello di una sentenza di assoluzione

La previsione contenuta nell’art. 6, par. 3, lett. d) CEDU implica che il giudice di appello, investito della impugnazione del PM avverso la sentenza di assoluzione di primo grado, anche se emessa all’esito del giudizio abbreviato, con cui si adduca una erronea valutazione delle prove dichiarative, non può riformare la sentenza impugnata, affermando la responsabilità penale dell’imputato, senza avere proceduto, anche d’ufficio, ai sensi dell’art. 603, comma 3, a rinnovare l’istruzione dibattimentale attraverso l’esame dei soggetti che abbiano reso dichiarazioni sui fatti del processo, ritenute decisive ai fini del giudizio assolutorio di primo grado: principio, questo, valido anche in caso di riforma ai soli fini civili, come nel caso di specie; costituiscono prove decisive, ai fini in esame, quelle che, sulla base della sentenza di primo grado, hanno determinato, o anche soltanto contribuito a determinare, l’assoluzione (SU, 27620/2016).

Lo stesso principio è applicabile al caso in cui la Corte d’appello riformi la sentenza di assoluzione disposta all’esito del giudizio abbreviato non condizionato (SU, 18620/2017).

In senso contrario: il giudice di appello, qualora il primo grado si sia svolto con rito abbreviato non condizionato, non è tenuto alla rinnovazione dell’istruzione ai fini della riforma della sentenza di assoluzione (Sez. 3, 43242/2016).

Il giudice di appello che riformi, ai soli fini civili, la sentenza assolutoria di primo grado sulla base di un diverso apprezzamento dell’attendibilità di una prova dichiarativa ritenuta decisiva, è obbligato a rinnovare l’istruzione dibattimentale, anche d’ufficio (Sez. 6, 52544/2016).

Si segnala infine la recentissima rimessione alle Sezioni unite della seguente questione: «se la dichiarazione resa dal perito o dal consulente tecnico costituisca o meno prova dichiarativa assimilabile a quella del testimone, rispetto alla quale, se decisiva, il giudice di appello avrebbe la necessità di procedere alla rinnovazione dibattimentale, nel caso di riforma della sentenza di assoluzione sulla base di un diverso apprezzamento di essa».

La necessità di un intervento delle Sezioni unite è nata dalla constatazione dell’esistenza di due contrastanti indirizzi.

Secondo il primo (Sez. 2, 34843/2015, Sez. 4, 6366/2017, Sez. 4, 9400/2017, Sez. 4, 14654/2018),  il giudice d’appello, qualora, ribaltando la pronuncia assolutoria di primo grado, intenda pervenire all’affermazione di responsabilità dell’imputato, non solo deve confutare specificamente i più rilevanti argomenti, sui quali era fondata la prima sentenza, ma deve anche provvedere, in ossequio al principio affermato dalla Corte di Strasburgo (Corte EDU, sentenza del 5 luglio 2011, Dan c. Moldavia), a rinnovare l’assunzione delle prove orali, ove il giudizio di condanna debba fondarsi su di un diverso apprezzamento dell’attendibilità delle relative fonti: la funzione svolta dal perito nel processo e l’acquisizione dei risultati a cui l’esperto è giunto nello svolgimento dell’incarico peritale – ossia l’esame in dibattimento secondo le disposizioni sull’esame dei testimoni – impongono che la rivalutazione della prova sia preceduta dal riascolto dello stesso.

Il secondo indirizzo (Sez. 5, 1691/2017, Sez. 3, 57863/2017) ritiene invece che la prova scientifica non sia equiparabile a quella dichiarativa, sicché non sussisterebbe l’obbligo per il giudice di procedere alla rinnovazione dibattimentale in caso di overturning accusatorio; pur se il perito ed i consulenti tecnici, sentiti in dibattimento, assumono la veste di testimoni, la loro relazione forma parte integrante della deposizione; essi, inoltre, sono chiamati a formulare un parere tecnico rispetto al quale il giudice può discostarsi, purché argomenti congruamente la propria diversa opinione.

La loro posizione non è, quindi, totalmente assimilabile al concetto di “prova dichiarativa”, espresso nella sentenza Dasgupta (SU, 27620/2016), tanto è vero che nella motivazione delle Sezioni Unite, laddove si elencano i casi in cui è necessaria la rinnovazione della prova dichiarativa, non si menzionano periti e consulenti (la riassunzione si deve a Sez. 2, 41737/2018).