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Art. 21

Lavoro all’esterno

1. I detenuti e gli internati possono essere assegnati al lavoro all’esterno in condizioni idonee a garantire l’attuazione positiva degli scopi previsti dall’art. 15. Tuttavia, se si tratta di persona condannata alla pena della reclusione per uno dei delitti indicati nei commi 1, 1-ter e 1-quater dell’art. 4-bis, l’assegnazione al lavoro all’esterno può essere disposta dopo l’espiazione di almeno un terzo della pena e, comunque, di non oltre cinque anni. Nei confronti dei condannati all’ergastolo l’assegnazione può avvenire dopo l’espiazione di almeno dieci anni.

2. I detenuti e gli internati assegnati al lavoro all’esterno sono avviati a prestare la loro opera senza scorta, salvo che essa sia ritenuta necessaria per motivi di sicurezza. Gli imputati sono ammessi al lavoro all’esterno previa autorizzazione della competente autorità giudiziaria.

3. Quando si tratta di imprese private, il lavoro deve svolgersi sotto il diretto controllo della direzione dell’istituto a cui il detenuto o l’internato è assegnato, la quale può avvalersi a tal fine del personale dipendente e del servizio sociale.

4. Per ciascun condannato o internato il provvedimento di ammissione al lavoro all’esterno diviene esecutivo dopo l’approvazione del magistrato di sorveglianza.

4-bis. Le disposizioni di cui ai commi precedenti e la disposizione di cui al secondo periodo del comma 13 dell’articolo 20 si applicano anche ai detenuti ed agli internati ammessi a frequentare corsi di formazione professionale all’esterno degli istituti penitenziari. (1)

4-ter. I detenuti e gli internati possono essere assegnati a prestare la propria attività a titolo volontario e gratuito a sostegno delle famiglie delle vittime dei reati da loro commessi. L’attività è in ogni caso svolta con modalità che non pregiudichino le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute dei detenuti e degli internati. Sono esclusi dalle previsioni del presente comma i detenuti e gli internati per il delitto di cui all’articolo 416-bis del codice penale e per i delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste. Si applicano, in quanto compatibili, le modalità previste nell’articolo 54 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274. (2)

(1) Comma così modificato dall’art. 2, comma 1, lett. d), D.Lgs. 124/2018.

(2) Comma così modificato dall’art. 2, comma 1, lett. e), D.Lgs. 124/2018.

Rassegna di giurisprudenza

Principi generali

Non è in dubbio che il lavoro costituisca componente essenziale del trattamento rieducativo e lo stesso carattere obbligatorio del lavoro penitenziario dei condannati e degli internati (art. 15, comma 3) “si pone come uno dei mezzi al fine del recupero della persona, valore centrale per il (...) sistema penitenziario non solo sotto il profilo della dignità individuale ma anche sotto quello della valorizzazione delle attitudini e delle specifiche capacità lavorative del singolo” (Corte costituzionale, 158/2001). La legge penitenziaria prevede (art. 20, comma 1: Negli istituti penitenziari devono essere favorite in ogni modo la destinazione dei detenuti e degli internati al lavoro...; art. 15: Ai fini del trattamento rieducativo, salvo casi di impossibilità, al condannato ... è assicurato il lavoro") per l’appunto, che al condannato sia, salvo casi di impossibilità, assicurato un lavoro, nella forma consentita più idonea, all’interno o all’esterno dell’istituto e, se è vero che il lavoro del detenuto, intramurario o esterno, presenta, per i profili di accesso e per gli aspetti organizzativi, disciplinari, di sicurezza, inevitabili peculiarità che giustificano varianti o deroghe rispetto alla regolamentazione del rapporto di lavoro in generale, tuttavia né la sua specificità, né la circostanza che il datore di lavoro possa coincidere con il soggetto che sovrintende alla esecuzione della pena «valgono ad affievolire il contenuto minimo di tutela che, secondo la Costituzione, deve assistere ogni rapporto di lavoro subordinato» (Corte costituzionale, 158/2001); il lavoro dei detenuti implica, dunque, «una serie di diritti (...) modulati sulla base contrattuale dei singoli rapporti instaurati» che possono non coincidere con quelli che contrassegnano il lavoro libero, se ciò risulta necessario per mantenere integre le modalità essenziali di esecuzione della pena, restando comunque illegittima «ogni irrazionale, ingiustificata discriminazione, con riguardo ai diritti inerenti alle prestazioni lavorative, tra i detenuti e gli altri cittadini» (Corte costituzionale, 341/2006). Alla luce dei parametri normativi di riferimento e, massimamente, dei pronunciamenti del giudice delle leggi, si può, dunque, affermare che solo nello svolgimento del rapporto di lavoro e dell’attività lavorativa si è in presenza di diritti soggettivi perfetti, che non si esauriscono in quelli riconosciuti e garantiti dall’art. 36 Cost., ma sono tendenzialmente assimilabili ai diritti riconosciuti ai lavoratori liberi, con i soli limiti derivanti dallo stato di privazione della libertà personale. Tanto posto, l’ammissione al lavoro all’esterno non è misura alternativa alla detenzione, ma specifica modalità trattamentale: “I detenuti e gli internati possono essere assegnati al lavoro esterno in condizioni idonee a garantire l’attuazione positiva degli scopi dell’art. 15” (art. 21). L’ordinamento non riconosce al magistrato di sorveglianza né il potere di concedere né quello di revocare in autonomia il provvedimento di ammissione, essendo tale facoltà espressamente rimessa all’Amministrazione e l’intervento del primo essendo previsto in funzione di mera approvazione dell’iniziativa della seconda. E tuttavia, posto che l’assegnazione deve essere disposta in condizioni idonee a garantire gli scopi previsti dall’art. 15, è evidente che essa non è rimessa alla discrezionalità del direttore dell’istituto, ma è subordinata, come espressamente stabilito dall’art. 48, comma 1, Reg., alla sua indefettibile previsione nel programma di trattamento rieducativo, formulato - secondo una logica di individualizzazione dei relativi protocolli e all’esito dell’osservazione scientifica della personalità del singolo detenuto e dell’individuazione dei suoi bisogni specifici- dal gruppo di osservazione previsto dall’art. 29 Reg., lo stesso gruppo che esamina gli sviluppi del trattamento praticato e i suoi risultati, predisponendo e apportando le modifiche che si rendano necessarie. È evidente allora che in capo al detenuto condannato è configurabile un diritto al trattamento, quale aspetto del più generale diritto alla rieducazione, restando riservata all’autorità amministrativa (e all’approvazione preliminare del magistrato di sorveglianza nell’ambito della valutazione del programma) l’offerta degli interventi finalizzati alla rieducazione e risocializzazione del condannato, ossia l’individuazione delle più consone modalità trattamentali e, tale essendo il lavoro all’esterno, non è configurabile né un diritto soggettivo alla sua ammissione né, correlativamente, un diritto alla stabilità e prosecuzione dello stesso, in quanto il provvedimento di revoca dell’ammissione non si atteggia alla stregua di un licenziamento, ma rientra anch’esso nell’attività trattamentale, periodicamente riscontrata e valutata in relazione alla modificazione dei comportamenti e della personalità. Nei sensi sopra indicati va riaffermato il principio, secondo il quale in materia di lavoro all’esterno i provvedimenti di ammissione e di revoca hanno natura amministrativa e identica natura amministrativa hanno i provvedimenti che, nel corso del procedimento finalizzato alla loro adozione, la legge riserva all’autorità giudiziaria, avverso i quali non è ipotizzabile il ricorso per cassazione ex art. 111 Cost., in quanto la materia in esame non può farsi rientrare in quella della libertà personale (Sez. 1, 35730/2018).

L’art. 15 stabilisce che il lavoro è uno dei principali elementi del trattamento penitenziario e che, proprio ai fini del trattamento rieducativo, esso è assicurato salvo casi di impossibilità. La valenza rieducativa del lavoro è ribadita dall’art. 20, ove è precisato che negli istituti penitenziari devono essere favorite in ogni modo la destinazione dei detenuti e degli internati al lavoro e la loro partecipazione ai corsi di formazione professionale (comma 1) e che il lavoro penitenziario non ha carattere afflittivo ed è remunerato (comma 2). Anche il lavoro all’esterno è modalità trattamentale (art. 21, comma 1, “ I detenuti e gli internati possono essere assegnati al lavoro esterno in condizioni idonee a garantire l’attuazione positiva degli scopi dell’art. 15"), come espressamente ribadito anche dall’art. 48, comma 1, Reg., che ne subordina l’ammissione alla sua indefettibile previsione nel programma di trattamento. L’ordinamento non riconosce al magistrato di sorveglianza né il potere di concedere né quello di revocare, in autonomia, il provvedimento di ammissione al lavoro esterno del detenuto. Tale facoltà è, invece, espressamente rimessa dall’art. 48 Reg. all’Amministrazione, e l’intervento del magistrato di sorveglianza è previsto in funzione di mera approvazione dell’iniziativa di quella. L’applicazione della specifica modalità trattamentale del lavoro esterno non dipende esclusivamente dalla discrezionalità del direttore dell’istituto, ma presuppone, all’esito di un’osservazione scientifica della personalità del detenuto, la formulazione di un programma di interventi, tra i quali sia espressamente prevista l’ammissione al lavoro esterno. Compete, invece, all’Amministrazione, che è tenuta ad indicare i posti di lavoro disponibili in apposita tabella distinta tra lavorazioni interne, lavorazioni esterne e servizi di istituto (art. 47, comma 10, Reg.), la verifica di ulteriori condizioni, quali l’affidabilità del soggetto, la carenza di attività lavorative interne, le caratteristiche del posto di lavoro all’esterno, ossia di tutti quegli elementi che potrebbero negativamente incidere sulle finalità dell’istituto e che ne rappresentano altrettante condizioni di ammissibilità; nel provvedimento devono essere, poi, indicate le prescrizioni che il detenuto o internato deve impegnarsi per iscritto a rispettare durante il tempo da trascorrere fuori dall’istituto, nonché quelle relative agli orari di uscita e di rientro (art. 48, comma 13, Reg.). La Direzione dell’istituto è tenuta a motivare (art. 48, comma 3, “deve motivare") la richiesta di approvazione del provvedimento, con la specificazione dei concreti elementi in base ai quali è stato esercitato il potere discrezionale e con la valutazione delle indagini svolte nell’istruzione della pratica. Se, dunque, il potere di iniziativa e di scelta dei soggetti da ammettere al lavoro esterno è affidato dalla legge all’autorità amministrativa, il provvedimento di ammissione per diventare esecutivo necessita dell’approvazione del magistrato di sorveglianza, cui spetta un esame circa le modalità di ammissione e di svolgimento dell’attività prevista, potendo dissentire dalla decisione del direttore dell’istituto e restituire il provvedimento con le osservazioni ritenute necessarie al fine di una nuova formulazione, e dovendo altresì necessariamente tenere conto nella sua approvazione, resa con decreto non motivato (art. 69-bis, comma 5), del tipo di reato, della durata della pena, dell’esigenza di prevenire il pericolo che l’ammesso al lavoro esterno commetta altri reati (art. 48, comma 4, Reg.). Anche l’iniziativa della revoca del provvedimento di ammissione compete al direttore dell’istituto e diviene esecutiva dopo l’approvazione del magistrato di sorveglianza, pur essendo riconosciuta al primo la possibilità di disporre, con provvedimento motivato, la sospensione dell’efficacia dell’ammissione del lavoro all’esterno, nelle more dell’approvazione del provvedimento di revoca (art. 48, comma 15, Reg.). Tanto precisato, non v’è dubbio che il lavoro dei detenuti costituisca una delle principali componenti del trattamento rieducativo, tant’è che “lo stesso carattere obbligatorio del lavoro penitenziario dei condannati e degli internati si pone come uno dei mezzi al fine del recupero della persona, valore centrale per il (...) sistema penitenziario non solo sotto il profilo della dignità individuale ma anche sotto quello della valorizzazione delle attitudini e delle specifiche capacità lavorative del singolo”. Ciò che la legge prevede è, per l’appunto, che al condannato sia, salvo caso di impossibilità, assicurato un lavoro, nella forma consentita più idonea, all’interno o all’esterno dell’istituto e, se è vero, che il lavoro del detenuto, intramurario o esterno, « presenta le peculiarità derivanti dalla inevitabile connessione tra profili del rapporto di lavoro e profili organizzativi, disciplinari e di sicurezza (...) per cui è ben possibile che la regolamentazione di tale rapporto conosca delle varianti o delle deroghe rispetto a quella del rapporto dì lavoro in generale (...) Tuttavia, né tale specificità, né la circostanza che il datore di lavoro possa coincidere con il soggetto che sovrintende alla esecuzione della pena, valgono ad affievolire il contenuto minimo di tutela che, secondo la Costituzione, deve assistere ogni rapporto di lavoro subordinato» (Corte costituzionale,  158/2001); «Il lavoro dei detenuti, sia che venga svolto in favore dell’amministrazione penitenziaria, sia che venga effettuato alle dipendenze di terzi, implica una serie di diritti e di obblighi delle parti, modulati sulla base contrattuale dei singoli rapporti instaurati. (...) La configurazione sostanziale e la tutela giurisdizionale dei diritti nascenti dai rapporti di lavoro dei detenuti possono (...) non coincidere con quelle che contrassegnano il lavoro libero, se ciò risulta necessario per mantenere integre le modalità essenziali di esecuzione della pena», è comunque illegittima «ogni irrazionale ingiustificata discriminazione, con riguardo ai diritti inerenti alle prestazioni lavorative, tra i detenuti e gli altri cittadini» (Corte costituzionale, 341/2006). Sicché, alla luce del chiaro dato normativo e, massimamente, dei principi più volte ribaditi dal giudice delle leggi, discende che solo nello svolgimento del rapporto di lavoro o dell’attività lavorativa si è in presenza di diritti soggettivi perfetti, che non si esauriscono in quelli riconosciuti e garantiti dall’art. 36 Cost. Ad esempio l’art. 48, comma 11, Reg., stabilisce che í detenuti e gli internati ammessi al lavoro esterno esercitano i diritti riconosciuti ai lavoratori liberi, con le sole limitazioni che conseguono agli obblighi inerenti all’esecuzione della misura privativa della libertà; pertanto, è stato ritenuto che ai medesimi siano riconosciuti il diritto di sciopero, lo svolgimento di attività sindacali, la partecipazione ad assemblee sindacali sui luoghi di lavoro, quando si svolgano nel periodo nel quale possono rimanere all’esterno. E, viceversa, essendo anche il lavoro esterno una specifica modalità trattamentale, per la cui applicazione è necessaria a monte, la sua previsione nello specifico programma rieducativo, predisposto all’esito dell’osservazione e della valutazione della personalità e degli specifici bisogni del singolo detenuto, approvato dal magistrato di sorveglianza ed integrato o modificato secondo le esigenze che si prospettano nel corso dell’esecuzione, non è configurabile un diritto soggettivo né all’ammissione, né, correlativamente, un diritto alla stabilità e prosecuzione dello stesso, ché la revoca dell’ammissione al lavoro non si atteggia alla stregua di un licenziamento, ma rientra anch’essa nell’attività trattamentale e nelle previste e consentite modifiche del programma rieducativo individuale. In tal senso deve, pertanto, essere ribadito il principio di diritto secondo il quale «è inammissibile il ricorso per cassazione avverso il provvedimento del magistrato di sorveglianza in tema di ammissione al lavoro all’esterno, in quanto esso ha natura amministrativa e non può farsi rientrare nell’ambito degli atti che incidono comunque sulla libertà personale, ricorribili ex art. 111 Cost. (Sez. 1, 4979/2018).

L’ordinamento penitenziario richiede che le prescrizioni connesse al regime del lavoro all’esterno siano formalizzate in documento scritto da sottoporre alla accettazione del detenuto, e ciò al fine di documentare la presa di coscienza da parte del detenuto degli obblighi connessi. La violazione delle prescrizioni alle quali il detenuto si era obbligato costituisce di per sé dato significativo della inaffidabilità del soggetto. Nel caso in cui, invece, la condotta del detenuto non costituisca violazione di una prescrizione inerente al programma, si deve compiere una specifica considerazione di tutti gli elementi disponibili, onde fondare adeguatamente la valutazione circa il permanere o meno delle condizioni per il beneficio (Sez. 1, 22276/2018).

Requisiti necessari per la revoca dell’assegnazione al lavoro esterno

La revoca del lavoro all’esterno va fondata su un giudizio di inadeguatezza del beneficio rispetto alla finalità rieducativa, tenuto conto della condotta tenuta dal soggetto. Nel caso in esame il Tribunale, che ha valorizzato la violazione della prescrizione orale che inibiva l’uso del telefono cellulare, ha dato motivazione solo apparente, in quanto la condotta in rilievo non è in sé illecita, né viola una specifica prescrizione accettata dallo stesso all’atto di ammissione al lavoro all’esterno. L’ordinamento penitenziario richiede che le prescrizioni connesse al regime del lavoro all’esterno siano formalizzate in documento scritto da sottoporre alla accettazione del detenuto, e ciò al fine di documentare la presa di coscienza da parte del detenuto degli obblighi connessi. La violazione delle prescrizioni alle quali il detenuto si era obbligato costituisce di per sé dato significativo della inaffidabilità del soggetto. Nel caso in cui, invece, la condotta del detenuto non costituisca violazione di una prescrizione inerente al programma, si deve compiere una specifica considerazione di tutti gli elementi disponibili, onde fondare adeguatamente la valutazione circa il permanere o meno delle condizioni per il beneficio (Sez. 1, 22277/2018).