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Concorso magistratura: come sopravvivere agli scritti

Parte seconda: lo stile
graduatorie concorsuali
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Concorso magistratura: come sopravvivere agli scritti

Parte seconda: lo stile


Concorso magistratura: lo stile siamo noi

Eccoci di fronte a una di quelle parole che se chiedessimo a cento persone di definirla avremmo cento risposte.

Ne resteremmo confusi ma cominceremmo comunque a capire che lo stile è qualcosa di fortemente soggettivo.

Basta quindi dire che è un segno espressivo della personalità degli individui, di ciò che sono e che vogliono comunicare di sé stessi.

Viene piuttosto facile associarlo a come ci comportiamo nella quotidianità, come ci vestiamo, come mangiamo e come parliamo.

Meno facile sembrerebbe l’accostamento al modo in cui ci esprimiamo in uno scritto giuridico ma in realtà anche in questo caso lo stile non ci abbandona e racconta di noi più di quanto possiamo immaginare.

Di più: lo stile, tanto quanto ciò che sappiamo o non sappiamo, può salvarci o dannarci.

Vedremo come.


Concorso magistratura: lo stile come consapevolezza di sé in relazione all’altro

Credo si possa essere tutti d’accordo che il sostantivo “empatia”, al pari di altri come “resilienza” o di espressioni come “assolutamente sì” o “come se non ci fosse un domani” o “non bello, di più (ma al posto di bello si può infilare qualunque aggettivo)”, sia tra i più abusati in questa stagione.

Ciò nonostante, l’empatia è una dote essenziale del candidato e gli individui verso cui manifestarla sono i commissari, senza se e senza ma.

Essere empatici significa immedesimarsi nell’altro così da poterci comunicare nel modo più efficiente.

Proviamo adesso a immedesimarci nello stato d’animo di un commissario giunto al decimo mese di correzione degli elaborati scritti. Immaginiamo che sia luglio, 35° gradi all’ombra e che il tipo stia correggendo il nostro elaborato e lo stia facendo dopo averne corretti altri 498 sullo stesso argomento. Introduciamo due complicazioni e ipotizziamo che il nostro soffra di reflusso gastroesofageo e che abbia litigato qualche ora prima con la moglie.

È ovvio che nel momento in cui scriviamo quel commissario ipotetico non esiste, non ancora, ma ci conviene convincerci che o prima o poi diventerà reale. Stiamo scrivendo (anche, forse soprattutto) per lui e dobbiamo agire di conseguenza.


Concorso magistratura: lo stile e l’incipit

Teniamo conto di quanto detto sopra e immaginiamo adesso di dovere scrivere un elaborato sul contatto sociale (traccia effettivamente predisposta ma non estratta nel concorso indetto con DM 31 maggio 2017).

Si ipotizzi adesso questo inizio: “Il contatto sociale è quel contatto che perché no potremmo anche definire rapporto il che ci porta a una relazione tra due soggetti ma si badi bene tra i quali non corre alcun rapporto contrattuale che però fa nascere lo stesso qualcosa e questo qualcosa è in buona sostanza un affidamento di uno dei due del rapporto sull’altro del rapporto in virtù del quale affidamento lo stesso primo del contatto/rapporto può pretendere dal medesimo secondo del contatto/rapporto l’adempimento di un dovere di diligenza che grava proprio sul secondo, mai dimenticando purtuttavia che proprio questo secondo incappa nel dovere di diligenza in quanto più che dotato in termini di competenze tecniche e senz’altro anche professionali”.

Scegliamo adesso un’altra traccia, estratta nel concorso per Bolzano (sì, si fanno concorsi solo per Bolzano, così va la vita) indetto con DM 27 febbraio 2008: “Premessi brevi cenni alla responsabilità patrimoniale generica, tratti il candidato dei limiti alla stessa ed in particolare dell’atto di destinazione di cui all’art. 2645-ter c.c.”.

Ipotizziamo un inizio anche per questa traccia: “Ai sensi e per gli effetti dell’art. 2740, comma 1, cod. civ., rubricato “Responsabilità patrimoniale”, il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri. Il comma 2 del medesimo articolo precisa che le limitazioni della responsabilità non sono ammesse se non nei casi stabiliti dalla legge. A sua volta, l’art. 2465-ter cod. civ., rubricato “Trascrizione di atti di destinazione per la realizzazione di interessi meritevoli di tutela riferibili a persone con disabilità, a pubbliche amministrazioni, o ad altri enti o persone fisiche”, che si anticipa fin d’ora per comodità espositiva, recita testualmente che gli atti in forma pubblica con cui beni immobili o beni mobili iscritti in pubblici registri sono destinati, per un periodo non superiore a novanta anni o per la durata della vita della persona fisica beneficiaria, alla realizzazione di interessi meritevoli di tutela riferibili a persone con disabilità, a pubbliche amministrazioni, o ad altri enti o persone fisiche ai sensi dell’articolo 1322, secondo comma, possono essere trascritti al fine di rendere opponibile ai terzi il vincolo di destinazione; per la realizzazione di tali interessi può agire, oltre al conferente, qualsiasi interessato anche durante la vita del conferente stesso. I beni conferiti e i loro frutti possono essere impiegati solo per la realizzazione del fine di destinazione e possono costituire oggetto di esecuzione, salvo quanto previsto dall’articolo 2915, primo comma, solo per debiti contratti per tale scopo”.

Torniamo adesso all’artefice del primo incipit.

A pensarci bene la definizione d’esordio è corretta ma il suo autore è già (metaforicamente) morto.

Lo è per ragioni stilistiche. Un suo stile l’ha mostrato ma sarebbe indigesto per il commissario in stato di perfetta armonia, figuriamoci per quello con disturbi gastroesofagei e irritato dal litigio coniugale.

Ma perché?

Si potrebbero azzardare varie risposte plausibili: per eccesso di parole, per incapacità di sintesi, per ignoranza irrecuperabile della punteggiatura, per difetto di slang tecnico.

La verità è però una sola: lo stile è identità e quell’identità non è piaciuta, è risultata inappropriata e respingente, ha dato l’idea di uno passato per caso (anzi, per usare un altro tormentone, di uno scappato di casa).

Spostiamoci sul secondo inizio.

Non contiene errori e se ci fossero sarebbero del legislatore.

Ma il suo autore, se non è ancora morto (sempre metaforicamente) come il suo collega di prima, è quantomeno in via d’estinzione.

Perché? Per l’invincibile noia che ha suscitato nel suo lettore, per avergli comunicato assenza radicale di brio, fantasia, intraprendenza, pensiero laterale e qualunque altra cosa sarebbe servita a distinguerlo da tutti gli altri e dargli un’identità riconoscibile.

Quali inizi sarebbero andati bene?

Ce ne sono tanti possibili e non ha senso sceglierne uno.

Una cosa è certa: l’incipit è il biglietto da visita del candidato, quello che consegna al padrone di casa sperando di essere ricevuto.

E poiché chiede di entrare in una casa dove si apprezzano (almeno così si spera) cultura, intelligenza, intuito e personalità, quel biglietto deve già contenere i semi di ognuna di questa qualità.


Concorso magistratura: lo stile e lo spirito critico

Ho detto che lo stile è il segno esteriore della nostra identità.

Da questa consapevolezza deriva un dilemma da sciogliere.

Un’identità non è mai un monolite indifferenziato, ognuno di noi è molte cose insieme.

Possiamo essere, sebbene in proporzioni assai differenti gli uni dagli altri, razionali e avventati, acquiescenti e bastian contrari, leader e gregari.

Ci possono piacere sia la tutela della sicurezza sociale che quella delle libertà individuali, oppure solo una delle due, oppure nessuna perché ci interessa soltanto di noi stessi.

Ognuna di queste caratteristiche è un’arma a doppio taglio, può darci un vantaggio o uno svantaggio.

Dobbiamo quindi scegliere come servircene nel modo migliore.

Le opzioni sono essenzialmente due: possiamo presentarci come fedeli e leali sudditi dell’esistente oppure come suoi contestatori.

Nel primo caso le norme e il significato loro attribuito dagli interpreti qualificati assumeranno per noi il valore di condizioni date e immodificabili per il solo fatto di esistere.

Nel secondo caso rivendicheremo il diritto di mettere in discussione e sottoporre a critica una qualsiasi o perfino tutte quelle condizioni.

Se sceglieremo la prima strada avremo il vantaggio di seguire la mainstream e nessun commissario potrà contestarci di essere andati fuori dal seminato. Avremo però lo svantaggio di essere legione, cioè di far parte di una foltissima schiera da cui sarà difficile differenziarci.

Se sceglieremo la seconda strada saremo immediatamente distinguibili ma il rischio di deragliare aumenterà parecchio.

In entrambi i casi dovremo comunque padroneggiare l’esistente.

Per assecondarlo in modo ineccepibile così da emergere sì come suoi sudditi ma colti e consapevoli (e quindi apprezzati e coccolati da chi comanda).

Oppure per contestarlo motivatamente senza che nessuno possa accusarci di un ragionamento critico fondato su falsi presupposti.

È perfino superfluo ricordare che una volta scelta la veste con cui presentarci non ci sarà dato cambiarla in corso d’opera.

Qui non vale quello che sarebbe tollerato nella vita reale, cioè, ad esempio, nascere rivoluzionari e invecchiare borghesi.

Qui se si è kelseniani all’inizio non si potrà finire affermando che il diritto è l’oppio dei popoli e se si comincia da barricaderi non si potrà chiudere invocando Dio, Patria e Popolo o – fa lo stesso – Legge e Ordine.

Molto altro ci sarebbe da dire in questo paragrafo ma questo vuole essere uno scritto breve, fatto di piccole suggestioni, e quindi ci si ferma qui.


Concorso magistratura: lo stile e il linguaggio

Il linguaggio sta in cima alla piramide se si parla di stile.

Le cose che diciamo e scriviamo sono il nostro segno più potente.

È però anche uno strumento massimamente duttile che possiamo e dobbiamo mettere al servizio di un’idea.

Nascono da qui ulteriori scelte (lo so, sono tante, ma mica è colpa mia) da fare.

La prima è questa: per chi stiamo parlando? Per gli antichi, per i contemporanei o per quelli che verranno?

La nostra mente è rivolta ai grandi del passato perché sentiamo il bisogno di confrontarci con loro e ci piacerebbe molto, ma proprio tanto, dimostrare di esserne degni?

Oppure vogliamo stare tra la gente di ora perché è appunto qui e ora che vogliamo vivere e lavorare?

Oppure ancora riteniamo passato il passato, miserabile e privo di interesse il presente, sicché l’unica sfida sfidante è viaggiare nel futuro, magari un futuro creato da noi stessi?

Abbandono la semi-neutralità di prima e consiglio vivamente la scelta della contemporaneità: il passato ci renderebbe stantii e il futuro presuntuosi e velleitari.

E siccome – lo ha detto Spiderman – da un grande potere (in questo caso la scelta) derivano grandi responsabilità, una volta scelto l’ambito temporale dobbiamo essere conseguenti e scrivere per essere capiti qui e ora.

Non significa ovviamente sincopare la nostra scrittura e uniformarla a ciò che faremmo su WhatsApp o in un post su Facebook o Instagram.

Significa invece servirci in modo elegante e colto del linguaggio di oggi per trasmettere in modo chiaro e attrattivo il nostro pensiero.

Questa conclusione impone alcune rinunce.

No a qualsiasi maledetto brocardo in latinetto e qui mi serve un esempio.

Immaginate di entrare in un bar e di chiedere un latte macchiato freddo per poi rendervi conto che lo volevate macchiato caldo.

Fate presente il vostro sbaglio al barista e gli chiedete la cortesia di cambiare. Come vi sentireste se rispondesse che “electa una via non datur recursus ad alteram”?

Via i brocardi allora.

Via le espressioni regionali.

Via il gergo di strada e anche quello burocratico e giuridico.

No, non mi sto contraddicendo. Non sto dicendo che bisogna tornare al classico, mi limito solo a ricordare che il candidato deve essere interprete dell’oggi ma ad un livello alto in cui la chiarezza non sacrifichi la grazia della scrittura e la sua universalità.

Raccomando quindi di liberarsi di tutte le espressioni che contengono “tra” ed “e” (esempio: l’appropriazione indebita tra ansia di possesso e rischio di perderlo), “nel prisma di” (esempio: l’efficacia nel prisma dell’ineffettività), “al netto di” (esempio: consuetudini e usi al netto degli abusi), “in disparte” (esempio: il furto, in disparte lo stress che provoca, è un reato contro il patrimonio) e le cento altre che chiunque legga letteratura giuridica trova per ogni dove. È anche questo un modo per uscire dal gregge.


Concorso magistratura: lo stile narrativo: i tempi verbali e l’io narrante

Chi scrive, qualunque cosa scriva, è un narratore perché racconta una storia.

Una buona storia dipende da molti fattori e tra questi spiccano i riferimenti temporali e quindi i tempi verbali che li esprimono in parole.

I tempi verbali sono essenziali per il ritmo narrativo e le sue variazioni.

Se al candidato serve citare una decisione della Consulta dei primi anni Sessanta dello scorso secolo, probabilmente non è una buona idea usare il presente o il passato prossimo. Funzioneranno meglio l’imperfetto o il passato remoto.

Se continuerà una rievocazione storica, si servirà degli stessi tempi per sottolineare l’unitarietà temporale degli eventi descritti.

Se giungerà al nostro tempo, lo farà immediatamente comprendere col passaggio al presente.

C’è infine un altro aspetto da prendere in considerazione ed è la prospettiva.

Le parole scritte hanno bisogno di essere collocate secondo una prospettiva unitaria.

Hanno bisogno di essere espressione di uno sguardo e uno soltanto.

Lo sguardo è l’io narrante, cioè l’entità cui lo scrittore attribuisce i pensieri e le azioni immessi nello scritto.

Questo scritto è mio, non ho alcuna ritrosia a manifestarlo e lo rendo palese con l’uso della prima persona singolare, ma ho la serenità di chi non deve convincere commissari arcigni.

Potrei usare la prima plurale ma l’unico effetto che otterrei è di passare giustamente per arrogante, attribuendomi una maestà che non mi spetta.

Potrei anche ricorrere alla terza impersonale, spogliandomi della soggettività e lasciando fluire le mie parole come se venissero da un’entità indistinta e incorporea e in effetti lo faccio spesso ma qui mi pare più appropriato uno stile colloquiale.

Ma cosa è meglio per il candidato?

Mi limito a dire che non ho mai letto uno scritto giuridico concorsuale redatto in prima persona.

Potrebbe sostenerlo, forse, una personalità straripante ed eccelsa ma il rischio di scadere nel delirio di onnipotenza sarebbe altissimo e quasi certamente fatale.

Ho letto rari scritti col plurale maiestatico e posso assicurare che l’effetto era tragicomico, soprattutto nei casi di elaborati puramente compilativi.

Resta quindi una sana e robusta terza impersonale che ha il pregio di assicurare tendenzialmente una maggiore obiettività senza peraltro privare chi scrive della possibilità di soggettivizzare il suo lavoro con incursioni mirate.

C’è ancora qualcosa da dire e la dirò nella terza e ultima parte.