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Contratti tra imprese e abuso di dipendenza economica

L’art. 9 L. 192/1998, cd. legge sulla subfornitura, disciplina l’istituto dell’abuso di dipendenza economica e rappresenta, oggi, una norma rilevante al fine di colmare uno iatus ordinamentale, caratterizzato dall’assenza di qualsivoglia riferimento normativo alla tutela dell’imprenditore debole, vale a dire dell’imprenditore che, trovandosi in posizione di debolezza contrattuale nei confronti altro imprenditore, subisca l’abuso perpetrato da quest’ultimo nei suoi confronti.

Orbene, atteso che attualmente la prassi commerciale non prescinde dai rapporti contrattuali tra imprese, rilevante risulta l’esigenza di delineare le ipotesi abusive e di prevenirne la portata con relativi strumenti di tutela apprestati all’imprenditore debole. Numerose, infatti, sono le fattispecie contrattuali in cui i protagonisti negoziali siano imprenditori, con ciò rendendo legittima la configurabilità, per alcuni, di un ritorno ai cd. contratti commerciali. In particolare, tra le ipotesi in cui maggiormente si concretizzano fattispecie abusive, si possono annoverare i contratti tra imprese ad integrazione verticale, in virtù dei quali viene a mancare l’elemento della concorrenzialità ed in cui i soggetti appartengono a segmenti diversi della medesima filiera produttivo-distributiva. La peculiarità di tali rapporti attiene al controllo, posto in essere da una singola impresa, di una serie di processi od operazioni necessari e strumentali alla realizzazione di un prodotto. Tuttavia, negli ultimi anni, l’analisi giuridico-economica ha evidenziato la tendenza delle imprese a dare vita ad attività di decentramento produttivo ovvero di “deverticalizzazione” della propria attività verso altre imprese, in relazione a talune fasi più convenienti da compiersi rispetto ad una gestione interna all’azienda stessa.

Quanto appena detto merita di essere integrato con alcuni riferimenti alle modalità con le quali possano aversi rapporti negoziali tra imprese. Una recente figura di stampo legislativo riguarda il cd. contratto di rete, ex lege 99/2009. Tale istituto è destinato a trovare applicazione in molteplici contesti economici. Nonostante il lungo e travagliato iter legislativo precedente all’approvazione di detta normativa, l’istituto si presenta ancora scarno nei suoi elementi essenziali, per cui necessarie risulteranno le riflessioni, sia dottrinali che giurisprudenziali, discendenti dalla sua concreta applicazione. Trattasi, in sostanza, di un contratto in cui due o più imprese si obbligano ad esercitare in comune una o più attività economiche rientranti nei rispettivi oggetti sociali allo scopo di accrescere la reciproca capacità innovativa e la competitività sul mercato.

Ancora, possono aversi rapporti contrattuali tra imprese in cui una di esse sia pubblica. In tal caso, però, la controparte privata non potrà che essere quella scelta attraverso un procedimento ad evidenza pubblica che tenga conto del principio della concorrenza. Ma non bisogna trascurare la circostanza che è proprio in tali casi che, maggiormente, si presentano ipotesi abusive, stante la possibilità, per la parte pubblica, di predisporre strumenti contrattuali unilaterali e vessatori nei confronti dell’impresa privata in evidente stato di debolezza contrattuale.

Quanto testé detto, induce ad una riflessione di non poco momento. Per tutte le volte in cui sia configurabile una fattispecie abusiva da parte di un’impresa avente maggiore potere contrattuale rispetto ad un’altra, l’ordinamento non ha previsto uno strumento deterrente ovvero di tutela, ma sia la giurisprudenza che l’opinione più recente della dottrina civilistica, hanno ravvisato nella norma sull’abuso di dipendenza economica, di cui all’art. 9 L. 192/1998, lo strumento volto alla tutela di tali situazioni. Vero è che detta norma è inserita in una legge di settore, quale è quella sul contratto di subfornitura, ma soltanto a seguito di un travagliato iter parlamentare che ne aveva ipotizzato, ab origine, la collocazione all’ interno della normativa antitrust, si è deciso di limitarne la portata con il suo inserimento all’interno della legge 192/1998. Prima di addivenire, però, a quelle che sono le dispute dottrinali e giurisprudenziali sorte attorno all’istituto dell’abuso di dipendenza economica, dovute anche alla mancanza di un riferimento facente capo alla Corte di Cassazione, che con la sua funzione nomofilattica, ben ne avrebbe sopito i toni, giova, in questa sede, delineare i tratti essenziali di tale figura al fine di rendere maggiormente consapevole un’opinione circa la sua portata limitata alle sole ipotesi di subfornitura ovvero estesa a qualsiasi contratto tra imprese, con ciò rappresentando una nuova clausola generale del nostro ordinamento.

Va in primis rimarcato che lo stato di dipendenza economica, ai sensi del I comma, art. 9 legge sulla subfornitura, rileva quando vi è la possibilità, per l’impresa dominante, di determinare nei rapporti commerciali con la controparte un eccessivo squilibrio di diritti e obblighi e quando vi sia la reale possibilità, per l’impresa dipendente, di reperire sul mercato alternative soddisfacenti. Mentre quest’ultimo requisito, alla stregua dell’influenza tedesca e francese esercitata sul legislatore italiano, rappresenta, per l’orientamento dottrinale prevalente, l’unico requisito affinchè possa ravvisarsi una situazione di dipendenza economica, l’eccessivo squilibrio risulta essere un’espressione del tutto nuova, attesa la mancanza di qualsivoglia riferimento alla stessa, nelle normative degli ordinamenti giuridici stranieri di cui si è accennato. A tal guisa, pare opportuno ricordare che la mancata applicazione immediata di tale disposizione fu dovuta proprio alla genericità alle difficoltà ermeneutiche sottese al significato di “eccessivo squilibrio” ed “alternative soddisfacenti”.

In secondo luogo, necessaria risulta una riflessione in ordine al significato di “abuso” di dipendenza economica, ex comma II, art. 9, L. 192/1998. La disposizione, in verità, riporta un elenco di ipotesi pacificamente esemplificativo, che attiene al rifiuto di vendere o di comprare, nell’imposizione di condizioni contrattuali gravose o discriminatorie, nell’interruzione volontaria delle relazioni commerciali in atto. La prima ipotesi è da ritenersi impiegata in senso lato, vale a dire come il rifiuto, più generale, di intrattenere rapporti commerciali con un’impresa cliente o fornitrice. Si tratta di una norma che ha permesso di compensare una lacuna, spesso denunciata dalla dottrina, che invocava l’applicazione estensiva dell’art. 2597 c.c. (in tema di obbligo a contrarre per il monopolista legale) a tutti i casi in cui vi fosse una posizione di privilegio di una parte e da cui discendesse, per la controparte, l’impossibilità di trovare alternative soddisfacenti sul mercato. La seconda fattispecie di abuso è stata più volte oggetto di trattazione giurisprudenziale. Trattasi di ipotesi in cui l’interruzione può qualificarsi come disdetta di un contratto a tempo determinato, di comportamenti dilatori tenuti nel corso delle trattative ovvero di inadempimento contrattuale. Infine, la norma oggetto di analisi, parla di “imposizione di condizioni ingiustificatamente gravose o discriminatorie” e che la dottrina configura come ipotesi di abuso di sfruttamento, vale a dire quelle condotte nelle quali l’impresa dominante costringe la controparte dipendente a trasferire o a rinunciare ad utilità economiche.

Detto questo, pare opportuno accennare alla rilevanza del nesso causale tra abuso e dipendenza al fine di poter attivare i rimedi di tutela di cui al comma III, art. 9 l. subf.

Il primo è il rimedio risarcitorio che, secondo una tesi dottrinale accreditata, ha natura aquiliana e viene valutato in ragione dell’interesse negativo, variamente individuato, a non entrare in conflitto con l’impresa dominante. Secondo rimedio di tutela, concorrente al primo, è la nullità con cui si realizzi l’abuso, con ciò intendendosi nullità parziale e, quindi, rimedio di protezione. Infine, alla luce della riforma di cui alla l. 57/2001, il III comma è stato riformato con l’aggiunta del rimedio inibitorio, volto a tutelare l’imprenditore debole da comportamenti precontrattuali contrari a correttezza e buona fede.

Uno dei nodi interpretativi maggiormente dibattuto in dottrina e, soltanto di recente, delineato quasi in maniera definitiva dalla giurisprudenza attiene, però, all’ambito di applicazione del divieto di abuso di dipendenza economica ex art. 9 L. 192/1998. Il I comma, infatti, ha da sempre lasciato spazio ad interpretazioni discordanti circa la sua applicazione ai soli contratti di subfornitura, oppure, secondo l’interpretazione estensiva, a tutti i rapporti contrattuali tra imprese. Ed è proprio detta discrasia ermeneutica che non ha permesso che la norma potesse essere applicata fin dalla sua emanazione. Situazione che non trova giovamento nemmeno dalla circostanza che gli orientamenti giurisprudenziali ancora si riducono a mere pronunce da parte di Tribunali di merito, in seno all’emanazione di ordinanze cautelari. Fatto sta che la dizione di impresa “cliente”, di cui alla disposizione in esame, e l’assenza di qualsivoglia riferimento al contratto di subfornitura, costituiscono un argomento convincente affinchè una parte maggioritaria sia della dottrina che della giurisprudenza considerano l’istituto dell’abuso di dipendenza economica, come clausola generale dell’ordinamento giuridico estendibile a tutti i contratti tra imprese caratterizzati da un regolamento asimmetrico. Ab origine, tale orientamento era considerato da alcuni “scandaloso”, in quanto andava ad inoltrarsi in un campo, quello della tutela dell’impresa debole, fino ad allora mai calpestato. Oggi, invece, la medesima espressione appare pienamente, o quasi, integrata nel nostro ordinamento, tanto che appare l’unica recepita nei manuali di diritto privato e commerciale.

Ciò in considerazione anche di altri fattori.

Un primo attiene ai lavori preparatori che volevano la norma inserita all’interno della disciplina generale di cui alla legge 287/1990, cd. legge antitrust. In secondo luogo, si fa riferimento alla tutela dell’investimento e che la norma sull’abuso di dipendenza economica andrebbe a tutelare (teoria di Law&economics). In terzo luogo, risultano rilevanti gli interventi di stampo comunitario che arrecano tutela ai cd. soggetti deboli, con ciò legittimando una lettura ermeneutica della disposizione di rango estensivo. Un ulteriore argomento a sostegno della la tesi estensiva riguarda, infine, quanto affermato in una recente sentenza della Corte di Cassazione (Cass., Sez. III, 18 settembre 2009, n. 20106), in virtù della quale fa suoi alcuni dogmi inerenti all’applicazione del principio di buona fede ai fini della giustizia contrattuale, in linea con l’ordinamento nella sua missione di conferire tutela al contraente debole. Ad ogni modo, tale arresto si colloca al termine di una serie di pronunce di merito orientate in tal senso e rappresenterà, di sicuro, un riferimento valido per la giurisprudenza di legittimità futura che, finalmente, vorrà definire le linee interpretative in ordine alla norma di cui all’art.9, l. subf. In ordine a tale orientamento giurisprudenziale si segnala: Trib. Bari, ord. 06/05/2002; Trib. Roma, ord. 05/1172003; Trib. Catania, ord. 05/01/2004; Trib. Trieste, ord. 21/09/2006; Trib. Torre annunziata, ord. 30/03/2007; Trib. Roma, ord. 17/03/2009; Trib. Catania, ord. 09/07/2009; la già citata Cass., Sez. III, 18/09/2009 n. 20106.

Di contro, vale la pena ricordare le argomentazioni di quella parte della dottrina e della giurisprudenza minoritaria, nonché risalente ai primi anni di vigenza della norma ad oggetto, a sostegno della tesi restrittiva dell’abuso di dipendenza economica, applicabile ai soli contratti di subfornitura. La collocazione della disposizione all’interno di una normativa di settore, come quella sulla subfornitura, sembrerebbe riduttiva nonché semplicistica come spiegazione. A tal guisa, risulta necessario un approfondimento nell’assunto che, inizialmente, fosse considerato contrario ai principi di ermeneutica giuridica ritenere che una norma inserita in una disciplina di settore avesse un effetto così dirompente da stravolgere tutti i principi in materia contrattuale, introducendo un potere così penetrante in capo agli interpreti, soprattutto in un settore all’epoca semisconosciuto, quale quello dei rapporti contrattuali asimmetrici tra imprese. A detta di tale orientamento, inoltre, un’interpretazione estensiva della norma di cui all’art. 9, avrebbe causato un’inammissibile disparità di tutela tra consumatore e imprenditore debole, a favore di quest’ultimo, ragion per cui era appropriato contenere la norma entro i confini della legge sul contratto di subfornitura. Si veda al riguardo: Trib. Bari, ord. 02/07/2002; Trib. Taranto, ord. 17/09/2003, Trib. Taranto, ord. 21/12/2003; Trib. Bari, ord. 11/10/2004 e ord. 17/01/2005.

Ad ogni modo, quanto appena esposto non può che condurre all’adesione del primo orientamento, alla luce della direzione intrapresa dal nostro ordinamento, volto alla tutela dei contraenti deboli e risultando pacifica l’esigenza si colmare una lacuna normativa che non consente proroghe. Tutto ciò in attesa che il legislatore si esprima in maniera più specifica, così come accaduto per il “consumatore” ovvero in attesa che vi siano maggiori definizioni interpretative facenti capo alla nostra Corte Suprema.

L’art. 9 L. 192/1998, cd. legge sulla subfornitura, disciplina l’istituto dell’abuso di dipendenza economica e rappresenta, oggi, una norma rilevante al fine di colmare uno iatus ordinamentale, caratterizzato dall’assenza di qualsivoglia riferimento normativo alla tutela dell’imprenditore debole, vale a dire dell’imprenditore che, trovandosi in posizione di debolezza contrattuale nei confronti altro imprenditore, subisca l’abuso perpetrato da quest’ultimo nei suoi confronti.

Orbene, atteso che attualmente la prassi commerciale non prescinde dai rapporti contrattuali tra imprese, rilevante risulta l’esigenza di delineare le ipotesi abusive e di prevenirne la portata con relativi strumenti di tutela apprestati all’imprenditore debole. Numerose, infatti, sono le fattispecie contrattuali in cui i protagonisti negoziali siano imprenditori, con ciò rendendo legittima la configurabilità, per alcuni, di un ritorno ai cd. contratti commerciali. In particolare, tra le ipotesi in cui maggiormente si concretizzano fattispecie abusive, si possono annoverare i contratti tra imprese ad integrazione verticale, in virtù dei quali viene a mancare l’elemento della concorrenzialità ed in cui i soggetti appartengono a segmenti diversi della medesima filiera produttivo-distributiva. La peculiarità di tali rapporti attiene al controllo, posto in essere da una singola impresa, di una serie di processi od operazioni necessari e strumentali alla realizzazione di un prodotto. Tuttavia, negli ultimi anni, l’analisi giuridico-economica ha evidenziato la tendenza delle imprese a dare vita ad attività di decentramento produttivo ovvero di “deverticalizzazione” della propria attività verso altre imprese, in relazione a talune fasi più convenienti da compiersi rispetto ad una gestione interna all’azienda stessa.

Quanto appena detto merita di essere integrato con alcuni riferimenti alle modalità con le quali possano aversi rapporti negoziali tra imprese. Una recente figura di stampo legislativo riguarda il cd. contratto di rete, ex lege 99/2009. Tale istituto è destinato a trovare applicazione in molteplici contesti economici. Nonostante il lungo e travagliato iter legislativo precedente all’approvazione di detta normativa, l’istituto si presenta ancora scarno nei suoi elementi essenziali, per cui necessarie risulteranno le riflessioni, sia dottrinali che giurisprudenziali, discendenti dalla sua concreta applicazione. Trattasi, in sostanza, di un contratto in cui due o più imprese si obbligano ad esercitare in comune una o più attività economiche rientranti nei rispettivi oggetti sociali allo scopo di accrescere la reciproca capacità innovativa e la competitività sul mercato.

Ancora, possono aversi rapporti contrattuali tra imprese in cui una di esse sia pubblica. In tal caso, però, la controparte privata non potrà che essere quella scelta attraverso un procedimento ad evidenza pubblica che tenga conto del principio della concorrenza. Ma non bisogna trascurare la circostanza che è proprio in tali casi che, maggiormente, si presentano ipotesi abusive, stante la possibilità, per la parte pubblica, di predisporre strumenti contrattuali unilaterali e vessatori nei confronti dell’impresa privata in evidente stato di debolezza contrattuale.

Quanto testé detto, induce ad una riflessione di non poco momento. Per tutte le volte in cui sia configurabile una fattispecie abusiva da parte di un’impresa avente maggiore potere contrattuale rispetto ad un’altra, l’ordinamento non ha previsto uno strumento deterrente ovvero di tutela, ma sia la giurisprudenza che l’opinione più recente della dottrina civilistica, hanno ravvisato nella norma sull’abuso di dipendenza economica, di cui all’art. 9 L. 192/1998, lo strumento volto alla tutela di tali situazioni. Vero è che detta norma è inserita in una legge di settore, quale è quella sul contratto di subfornitura, ma soltanto a seguito di un travagliato iter parlamentare che ne aveva ipotizzato, ab origine, la collocazione all’ interno della normativa antitrust, si è deciso di limitarne la portata con il suo inserimento all’interno della legge 192/1998. Prima di addivenire, però, a quelle che sono le dispute dottrinali e giurisprudenziali sorte attorno all’istituto dell’abuso di dipendenza economica, dovute anche alla mancanza di un riferimento facente capo alla Corte di Cassazione, che con la sua funzione nomofilattica, ben ne avrebbe sopito i toni, giova, in questa sede, delineare i tratti essenziali di tale figura al fine di rendere maggiormente consapevole un’opinione circa la sua portata limitata alle sole ipotesi di subfornitura ovvero estesa a qualsiasi contratto tra imprese, con ciò rappresentando una nuova clausola generale del nostro ordinamento.

Va in primis rimarcato che lo stato di dipendenza economica, ai sensi del I comma, art. 9 legge sulla subfornitura, rileva quando vi è la possibilità, per l’impresa dominante, di determinare nei rapporti commerciali con la controparte un eccessivo squilibrio di diritti e obblighi e quando vi sia la reale possibilità, per l’impresa dipendente, di reperire sul mercato alternative soddisfacenti. Mentre quest’ultimo requisito, alla stregua dell’influenza tedesca e francese esercitata sul legislatore italiano, rappresenta, per l’orientamento dottrinale prevalente, l’unico requisito affinchè possa ravvisarsi una situazione di dipendenza economica, l’eccessivo squilibrio risulta essere un’espressione del tutto nuova, attesa la mancanza di qualsivoglia riferimento alla stessa, nelle normative degli ordinamenti giuridici stranieri di cui si è accennato. A tal guisa, pare opportuno ricordare che la mancata applicazione immediata di tale disposizione fu dovuta proprio alla genericità alle difficoltà ermeneutiche sottese al significato di “eccessivo squilibrio” ed “alternative soddisfacenti”.

In secondo luogo, necessaria risulta una riflessione in ordine al significato di “abuso” di dipendenza economica, ex comma II, art. 9, L. 192/1998. La disposizione, in verità, riporta un elenco di ipotesi pacificamente esemplificativo, che attiene al rifiuto di vendere o di comprare, nell’imposizione di condizioni contrattuali gravose o discriminatorie, nell’interruzione volontaria delle relazioni commerciali in atto. La prima ipotesi è da ritenersi impiegata in senso lato, vale a dire come il rifiuto, più generale, di intrattenere rapporti commerciali con un’impresa cliente o fornitrice. Si tratta di una norma che ha permesso di compensare una lacuna, spesso denunciata dalla dottrina, che invocava l’applicazione estensiva dell’art. 2597 c.c. (in tema di obbligo a contrarre per il monopolista legale) a tutti i casi in cui vi fosse una posizione di privilegio di una parte e da cui discendesse, per la controparte, l’impossibilità di trovare alternative soddisfacenti sul mercato. La seconda fattispecie di abuso è stata più volte oggetto di trattazione giurisprudenziale. Trattasi di ipotesi in cui l’interruzione può qualificarsi come disdetta di un contratto a tempo determinato, di comportamenti dilatori tenuti nel corso delle trattative ovvero di inadempimento contrattuale. Infine, la norma oggetto di analisi, parla di “imposizione di condizioni ingiustificatamente gravose o discriminatorie” e che la dottrina configura come ipotesi di abuso di sfruttamento, vale a dire quelle condotte nelle quali l’impresa dominante costringe la controparte dipendente a trasferire o a rinunciare ad utilità economiche.

Detto questo, pare opportuno accennare alla rilevanza del nesso causale tra abuso e dipendenza al fine di poter attivare i rimedi di tutela di cui al comma III, art. 9 l. subf.

Il primo è il rimedio risarcitorio che, secondo una tesi dottrinale accreditata, ha natura aquiliana e viene valutato in ragione dell’interesse negativo, variamente individuato, a non entrare in conflitto con l’impresa dominante. Secondo rimedio di tutela, concorrente al primo, è la nullità con cui si realizzi l’abuso, con ciò intendendosi nullità parziale e, quindi, rimedio di protezione. Infine, alla luce della riforma di cui alla l. 57/2001, il III comma è stato riformato con l’aggiunta del rimedio inibitorio, volto a tutelare l’imprenditore debole da comportamenti precontrattuali contrari a correttezza e buona fede.

Uno dei nodi interpretativi maggiormente dibattuto in dottrina e, soltanto di recente, delineato quasi in maniera definitiva dalla giurisprudenza attiene, però, all’ambito di applicazione del divieto di abuso di dipendenza economica ex art. 9 L. 192/1998. Il I comma, infatti, ha da sempre lasciato spazio ad interpretazioni discordanti circa la sua applicazione ai soli contratti di subfornitura, oppure, secondo l’interpretazione estensiva, a tutti i rapporti contrattuali tra imprese. Ed è proprio detta discrasia ermeneutica che non ha permesso che la norma potesse essere applicata fin dalla sua emanazione. Situazione che non trova giovamento nemmeno dalla circostanza che gli orientamenti giurisprudenziali ancora si riducono a mere pronunce da parte di Tribunali di merito, in seno all’emanazione di ordinanze cautelari. Fatto sta che la dizione di impresa “cliente”, di cui alla disposizione in esame, e l’assenza di qualsivoglia riferimento al contratto di subfornitura, costituiscono un argomento convincente affinchè una parte maggioritaria sia della dottrina che della giurisprudenza considerano l’istituto dell’abuso di dipendenza economica, come clausola generale dell’ordinamento giuridico estendibile a tutti i contratti tra imprese caratterizzati da un regolamento asimmetrico. Ab origine, tale orientamento era considerato da alcuni “scandaloso”, in quanto andava ad inoltrarsi in un campo, quello della tutela dell’impresa debole, fino ad allora mai calpestato. Oggi, invece, la medesima espressione appare pienamente, o quasi, integrata nel nostro ordinamento, tanto che appare l’unica recepita nei manuali di diritto privato e commerciale.

Ciò in considerazione anche di altri fattori.

Un primo attiene ai lavori preparatori che volevano la norma inserita all’interno della disciplina generale di cui alla legge 287/1990, cd. legge antitrust. In secondo luogo, si fa riferimento alla tutela dell’investimento e che la norma sull’abuso di dipendenza economica andrebbe a tutelare (teoria di Law&economics). In terzo luogo, risultano rilevanti gli interventi di stampo comunitario che arrecano tutela ai cd. soggetti deboli, con ciò legittimando una lettura ermeneutica della disposizione di rango estensivo. Un ulteriore argomento a sostegno della la tesi estensiva riguarda, infine, quanto affermato in una recente sentenza della Corte di Cassazione (Cass., Sez. III, 18 settembre 2009, n. 20106), in virtù della quale fa suoi alcuni dogmi inerenti all’applicazione del principio di buona fede ai fini della giustizia contrattuale, in linea con l’ordinamento nella sua missione di conferire tutela al contraente debole. Ad ogni modo, tale arresto si colloca al termine di una serie di pronunce di merito orientate in tal senso e rappresenterà, di sicuro, un riferimento valido per la giurisprudenza di legittimità futura che, finalmente, vorrà definire le linee interpretative in ordine alla norma di cui all’art.9, l. subf. In ordine a tale orientamento giurisprudenziale si segnala: Trib. Bari, ord. 06/05/2002; Trib. Roma, ord. 05/1172003; Trib. Catania, ord. 05/01/2004; Trib. Trieste, ord. 21/09/2006; Trib. Torre annunziata, ord. 30/03/2007; Trib. Roma, ord. 17/03/2009; Trib. Catania, ord. 09/07/2009; la già citata Cass., Sez. III, 18/09/2009 n. 20106.

Di contro, vale la pena ricordare le argomentazioni di quella parte della dottrina e della giurisprudenza minoritaria, nonché risalente ai primi anni di vigenza della norma ad oggetto, a sostegno della tesi restrittiva dell’abuso di dipendenza economica, applicabile ai soli contratti di subfornitura. La collocazione della disposizione all’interno di una normativa di settore, come quella sulla subfornitura, sembrerebbe riduttiva nonché semplicistica come spiegazione. A tal guisa, risulta necessario un approfondimento nell’assunto che, inizialmente, fosse considerato contrario ai principi di ermeneutica giuridica ritenere che una norma inserita in una disciplina di settore avesse un effetto così dirompente da stravolgere tutti i principi in materia contrattuale, introducendo un potere così penetrante in capo agli interpreti, soprattutto in un settore all’epoca semisconosciuto, quale quello dei rapporti contrattuali asimmetrici tra imprese. A detta di tale orientamento, inoltre, un’interpretazione estensiva della norma di cui all’art. 9, avrebbe causato un’inammissibile disparità di tutela tra consumatore e imprenditore debole, a favore di quest’ultimo, ragion per cui era appropriato contenere la norma entro i confini della legge sul contratto di subfornitura. Si veda al riguardo: Trib. Bari, ord. 02/07/2002; Trib. Taranto, ord. 17/09/2003, Trib. Taranto, ord. 21/12/2003; Trib. Bari, ord. 11/10/2004 e ord. 17/01/2005.

Ad ogni modo, quanto appena esposto non può che condurre all’adesione del primo orientamento, alla luce della direzione intrapresa dal nostro ordinamento, volto alla tutela dei contraenti deboli e risultando pacifica l’esigenza si colmare una lacuna normativa che non consente proroghe. Tutto ciò in attesa che il legislatore si esprima in maniera più specifica, così come accaduto per il “consumatore” ovvero in attesa che vi siano maggiori definizioni interpretative facenti capo alla nostra Corte Suprema.