Covid-19: responsabilità della struttura sanitaria o della RSA per contagio di pazienti
Sino ad ora spesso si è affrontato il problema sotto il profilo del lavoratore, domandandosi quali potessero essere le conseguenze per il prestatore di lavoro che rifiuta di vaccinarsi contro il Coronavirus.
Qui invece, si intende affrontare la questione sotto il profilo della responsabilità del datore di lavoro (struttura sanitaria o RSA) nei confronti dei terzi che si ammalano di Covid 19, contraendolo nell’ambito dell’azienda sanitaria o assistenziale, magari per averlo contratto da un lavoratore che non si è sottoposto al vaccino anti-Covid 19, pur avendone oggi la possibilità.
Il problema non è di poco conto, se si considerano le notizie di pochi giorni fa concernenti focolai (allo stato presunti, considerato che le notizie non paiono assumere al momento connotati di certezza) in alcune strutture sanitarie.
Ebbene, in forza del disposto della nota Legge Gelli-Bianco, la responsabilità della struttura sanitaria è di natura contrattuale.
Dispone invero l’articolo 7 che “1. La struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata che, nell'adempimento della propria obbligazione, si avvalga dell'opera di esercenti la professione sanitaria, anche se scelti dal paziente e ancorché non dipendenti della struttura stessa, risponde, ai sensi degli articoli 1218 e 1228 del codice civile, delle loro condotte dolose o colpose. 2. La disposizione di cui al comma 1 si applica anche alle prestazioni sanitarie svolte in regime di libera professione intramuraria ovvero nell'ambito di attività di sperimentazione e di ricerca clinica ovvero in regime di convenzione con il Servizio sanitario nazionale nonché attraverso la telemedicina”.
Trattasi, secondo l’interpretazione giurisprudenziale che si era già affermata prima dell’introduzione della Legge n. 24/2017, di un contratto, quello fra il paziente e la struttura, cosiddetto di “spedalità” o di “assistenza sanitaria”, in cui confluiscono prestazioni di tipo alberghiero, di messa a disposizione di personale medico e paramedico, di somministrazione di farmaci, di approntamento di attrezzature, macchinari e ambienti predisposti all’esecuzione di prestazioni sanitarie (sale operatorie, reparti, ecc.) (fra le tante, Cass. Civ. Sez. III, 19/10/2015, n. 21090; Cass. 20/10/2014 n. 22222).
Fondamento della responsabilità della struttura sanitaria, come espresso dal testo della riforma, è l’articolo 1228 Codice Civile, che disciplina la responsabilità per il fatto degli ausiliari, stabilendo che il debitore, il quale, nell’adempimento dell’obbligazione si avvale dell’opera di terzi, risponde anche dei fatti dolosi e colposi di questi ultimi.
In forza dell’articolo 7, la struttura sanitaria o sociosanitaria, sia pubblica che privata, che non esegue correttamente la prestazione dovuta è tenuta al risarcimento del danno se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa o lui non imputabile.
In tale contesto si collocano le infezioni correlate all’assistenza (ICA) o infezioni ospedaliere o infezioni nosocomiali.
La giurisprudenza ha ritenuto sussistente la responsabilità ex articolo 1218 Codice Civile per i danni sofferti dal paziente a seguito di infezioni nosocomiali contratte durante la degenza.
In una recente sentenza del Tribunale di Milano 20/6/2018, è stato ritenuto sussistente il nesso causale tra la procedura terapeutica eseguita e l’infezione contratta quando “risultano soddisfatti i presupposti integranti il legame eziologico, rappresentati dai criteri: - cronologico: complicanza settica insorta subito dopo l’intervento chirurgico; - topografico: corrispondenza topografica tra sede in cui venne effettuato l’intervento chirurgico e quello d’insorgenza della complicanza effettiva; - idoneità quali-quantitativa: l’intervento chirurgico (…) per caratteristiche intrinseche legate alla tecnica scelta (invasività, profondità e quindi strutture anatomiche lese), risulta del tutto idoneo a determinare la complicanza settica dei tessuti (…); - continuità fenomenica: la sintomatologia riferita dalla paziente a distanza di pochi giorni dall’intervento chirurgico ed il quadro clinico evolutivo sviluppatosi successivamente nel corso della vicenda clinica (…) risultano del tutto coerenti per modi e tempo d’incubazione alle caratteristiche d’esordio e d’incubazione delle infezioni dei tessuti (…); - di esclusione di altre cause: non sono emersi, nel corso della presente indagine, fattori idonei sotto il profilo causale nel determinismo delle sequele lesive patite”.
Si è sostenuto (Trib. Roma 22/11/2016) che “La struttura sanitaria risponde a titolo contrattuale ex articolo 1218 cc per danni patiti dal paziente a seguito di infezioni nosocomiali contratte durante la degenza, ove tali danni siano dipesi dall’inadeguatezza della struttura: di conseguenza, è a carico del danneggiato la prova dell’esistenza del contratto e dell’aggravamento della situazione patologica, nonché del relativo nesso di causalità con l’azione o l’omissione del personale della struttura; è, invece, a carico di quest’ultima la prova che la prestazione sia stata eseguita in modo diligente nel rispetti degli standard richiesti dalla disciplina di settore, e che l’evento lesivo sia stato determinato da un accadimento imprevisto e imprevedibile”.
Nel panorama giurisprudenziale, vi sono pronunce che propendono per una responsabilità colposa e quindi va ad approfondire tutte le specifiche carenze organizzative (Trib. Roma 29/5/2014; Cass. Civ. Sez. III 6/5/2015 n. 8995; Cass. Civ. Sez: III 14/5/2014 n. 10523) e altre in cui si arriva a configurare la responsabilità della struttura alla stregua di una responsabilità oggettiva (Trib. Trapani 20/2/2017).
La prova liberatoria consisterebbe nella “seria e rigorosa [prova, ndr] di aver fatto tutto il possibile per evitare l’insorgenza dell’infezione stessa (…) vale a dire provare di aver posto in essere ogni cautela e precauzione, funzionale, strutturale e di metodo, al fine di realizzare e mantenere costante un’ottimale sanificazione della struttura, dei locali, degli ambienti, dei mezzi e del personale addetto” (Trib. Roma 22/6/2015).
È stato asserito che è insufficiente, ai fini della prova liberatoria, la mera produzione di protocolli di sterilizzazione, in assenza della prova delle condotte concretamente poste in essere dall’istituto per un’efficace e consapevole opera di sanificazione (Trib. Roma 22/6/2015).
Ai fini della configurazione della responsabilità della struttura si è anche valutata la mancata prova di «avere adeguatamente formato ed aggiornato il personale infermieristico e medico, dimostrandone con allegazione di attestati la partecipazione a corsi in materia, né di aver compiuto controlli a campione per verificare il rispetto di tali regole», della corretta tenuta dello strumentario e del comportamento igienico dei sanitari (Trib. Roma 16/1/2019).
In sostanza, la struttura deve aver posto in essere tutte le cautele prescritte dalle normative vigenti e dalle leges artis onde scongiurare l’insorgenza di patologie infettive, oltre ad aver posto in essere anche il necessario e doveroso trattamento terapeutico successivo alla contrazione dell’infezione (Trib. Lecce 20/2/2018).
Si configura perciò una responsabilità quasi oggettiva della struttura sanitaria.
Nella fattispecie che qui ci riguarda inerente al Covid 19, è evidente che lo stesso possa certamente concretizzare un’infezione contraibile nell’ambito della struttura sanitaria.
Ora, è noto che in base all’articolo 4 del recentissimo Decreto Legge 1 aprile 2021 n. 44, il vaccino è obbligatorio per gli operatori sanitari. Se risultasse che a portare l’infezione da Covid 19 al paziente fosse proprio un lavoratore non vaccinato, come potrebbe la struttura sanitaria o la RSA fornire la prova liberatoria della propria responsabilità?