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E’ legittimo ridurre l’indennizzo per ingiusta detenzione se il richiedente è pregiudicato

Nota a Corte di Cassazione - Sezione Quarta Penale, Sentenza 22 giugno 2010, n. 34673
Corte di Cassazione - Sezione Quarta, Sentenza 22 giugno 2010, n. 34673

È legittima la riduzione, sulla somma giornaliera computata come frazione aritmetica di quella massima liquidabile per legge, dell’indennizzo dovuto a titolo di riparazione per l’ingiusta detenzione a soggetto pregiudicato, data, per esso, la minore afflittività della privazione della libertà personale, riconducibile sia al minore discredito che l’evento comporta per una persona la cui immagine sociale è già compromessa, sia al fatto che la sua dimestichezza con l’ambiente carcerario rende meno traumatica l’ingiusta privazione della libertà.

1. Riparazione per ingiusta detenzione

2. Struttura del danno

3. Fungibilità della pena

4. Autonomia dei due istituti

1. La riparazione per ingiusta detenzione prevista dagli artt. 314 e 315 c.p.p. costituisce una forma di indennizzo concessa in favore di chi sia stato ingiustamente privato della libertà personale in via cautelare o in sede di esecuzione di una decisione di condanna.

Si tratta, per definizione, di una forma di indennità per “atto lecito dannoso”; atto, cioè, emesso nell’esercizio di un’attività legittima e doverosa da parte degli organi dello Stato, della quale, tuttavia, in momenti procedimentali successivi, sia stata dimostrata l’erroneità o l’ingiustizia, rendendosi così necessario riparare il danno prodotto.

2. L’art. 315 c.p.p. comma 3 richiama, in quanto compatibili, le norme sulla riparazione dell’errore giudiziario e ciò consente di affermare che sia applicabile anche alla riparazione per l’ingiusta detenzione - sempre all’interno del tetto massimo previsto - la possibilità di commisurare l’entità della riparazione non solo alla durata della detenzione ma altresì alle "conseguenze personali e familiari" da essa derivanti (art. 643 c.p.p., comma 1), di cui l’istante dia prova.

Il "danno" subito, pertanto, riguarda principalmente la privazione della libertà personale già di per sè idonea, da sola, a procurare conseguenze irreparabili; ma si estende anche alle conseguenze sulle abitudini di vita, sull’attività lavorativa, oltre al nocumento inevitabile sui rapporti affettivi e interpersonali.

Per queste conseguenze ulteriori è richiesto - a differenza di quanto avviene per il pregiudizio derivante dalla mera privazione della libertà personale – che l’istante fornisca la prova della loro esistenza, anche se non del danno subito, la cui liquidazione può avvenire equitativamente.

Dal punto di vista concettuale, sembrerebbe sussistere una piena coincidenza tra il danno da ingiusta detenzione e le precipue caratteristiche astrattamente idonee a provocare quello sconvolgimento della vita personale e affettiva che va sotto il nome di danno esistenziale, inteso, appunto, quale deterioramento non temporaneo della qualità di vita dell’individuo; ben potrebbe rientrare anche il danno biologico, costituito dalla compromissione, di natura areddituale, dell’integrità psicofisica della persona, cui generalmente si accompagna una perdita o riduzione di funzioni vitali, anche non definitiva.

Proprio a causa di tale coincidenza e sostanziale sovrapponibilità, è stato più volte escluso che il danno non patrimoniale così inteso possa autonomamente formare oggetto di riparazione, in aggiunta all’indennizzo per l’ingiusta detenzione.

Così ragionando, e venendo alla sentenza in commento, la valutazione che giustifica la riduzione dell’indennizzo potrebbe fare riferimento ad una tipologia di danno non patrimoniale, quello morale, che, nel caso di soggetto pregiudicato, potrebbe mancare. Una lunga carcerazione preventiva per un soggetto, poi assolto, che risultava comunque inserito in un’organizzazione criminale, o che avesse già alle spalle esperienze carcerarie, se è sicuramente idonea a provocare un grave danno esistenziale, potrebbe risultare difficilmente fonte di danno morale, tradizionalmente costruito quale sofferenza psicologica o turbamento transitorio.

Peraltro, l’ordinamento non lascia privo di tutela chi versi in tali situazioni; anzi, il condannato potrà ricorrere ad un altro strumento probabilmente maggiormente idoneo a indennizzarlo: il computo della custodia cautelare e delle pene espiate senza titolo di cui all’art. 657 c.p.p.. Tale strumento, costituendo una sorta di reintegrazione in forma specifica, ha una ben maggior valenza rispetto ad una riparazione di carattere patrimoniale, la quale “monetizzando il sacrificio di una libertà inviolabile ne costituisce un pallido rimedio” (Corte Cost. sentenza n. 219/2008).

3. La disciplina di cui all’art. 657 c.p.p., inoltre, non richiede l’intervento di una statuizione irrevocabile volta a sancire l’infondatezza della misura restrittiva sofferta ed ha, al contempo, una portata molto più ampia rispetto alla riparazione per l’ingiusta detenzione ( tanto che anche il condannato al pagamento di una pena pecuniaria potrebbe richiedere la fungibilità, intervenendo i criteri di ragguaglio di cui all’art. 135 cp e art. 57 c. 3 L. 689/1981). Allo stesso modo, per quanto riguarda le pene accessorie, ai sensi dell’art. 662 c. 2 cpp., in sede di esecuzione della pena, si dovrà tener conto, al fine dell’esatta determinazione della durata della pena accessoria, anche della misura cautelare interdittiva, di contenuto corrispondente, eventualmente già applicata ai sensi degli artt. 288- 289- 290 cpp.

Tale disciplina normativa ha una ben precisa ratio la quale consiste nel privilegiare in via diretta il bene primario nonchè indisponibile della libertà, rendendo legittimo un determinato periodo di detenzione, che originariamente non lo era, escludendo che l’interessato debba scontare la pena detentiva per un ulteriore pari lasso temporale.

4. Ciò premesso, occorre chiedersi se i due istituti siano autonomamente azionabili e se siano cumulabili tra di loro. Si sono delineati, in proposito, nell’ambito della giurisprudenza di legittimità due fondamentali orientamenti, tra loro contrapposti:

Sentenza n. 358 del 23/11/2004. In tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, con riferimento all’ipotesi in cui la custodia cautelare ingiustamente sofferta venga computata a titolo di fungibilità sulla pena da espiare per altro reato ai sensi dell’art. 657 cod. proc. pen., la ratio della norma di cui all’art. 314 comma quarto del codice di rito - che, escludendo l’applicazione cumulativa degli istituti, vieta la riparazione - deve essere interpretata solo nel senso che va considerato irretrattabile il beneficio della fungibilità (con conseguente inapplicabilità del diverso beneficio di cui all’art. 314), ma non invece nel senso che, una volta accordato il ristoro economico, non possa più applicarsi, per la stessa carcerazione subita sine titulo, anche il beneficio della fungibilità, posto che lo Stato può sempre esercitare l’azione giudiziaria per indebito arricchimento nei confronti del soggetto il quale, avendo già ottenuto la riparazione, fruisca poi anche della fungibilità.

Sentenza n. 47001 del 05/12/2007. Qualora l’interessato, pur potendo attivare in contemporanea l’una o l’altra opzione, abbia per propria scelta chiesto e ottenuto la riparazione per ingiusta detenzione, non può poi chiedere l’applicazione della fungibilità della custodia cautelare sofferta senza titolo per lo stesso periodo, in modo da detrarla dalla pena da espiare per altro reato. In questo caso la richiesta di riparazione per ingiusta detenzione è irretrattabile, al pari della fungibilità. Il soggetto che, al momento in cui aveva promosso l’azione di riparazione per ingiusta detenzione, non aveva avuto, in concreto, la possibilità di chiedere l’applicazione della fungibilità della custodia sofferta senza titolo (non essendo ancora passata in giudicato la sentenza di condanna per un altro reato dalla cui pena avrebbe potuto detrarsi la custodia cautelare ingiustamente subita), può ottenere l’applicazione della fungibilità anche dopo avere usufruito della riparazione per ingiusta detenzione. In questo caso, inoltre, lo Stato può agire con l’azione di indebito arricchimento per ottenere la restituzione di quanto versato per la ingiusta detenzione.

Nel contrasto giurisprudenziale, sono intervenute le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la pronuncia n. 31416 del 10.07.08: Ai fini della determinazione della pena da eseguire vanno computati anche i periodi di custodia cautelare relativi ad altri fatti, per i quali il condannato abbia già ottenuto il riconoscimento del diritto alla riparazione per ingiusta detenzione, stante la inderogabilità della disciplina dettata dall’anzidetta disposizione normativa e dovendosi escludere l’esistenza di una facoltà di scelta, da parte dell’interessato (pur quando ne sussisterebbe la possibilità, attesa la già intervenuta esecutività della sentenza di condanna all’atto della richiesta di riparazione), tra il ristoro pecuniario di cui all’art. 314 cod. proc. pen. e lo scomputo dalla pena da espiare della custodia cautelare ingiustamente sofferta, fermo restando che, al fine di evitare che l’interessato consegua una indebita locupletazione, il giudice investito della richiesta di riparazione può sospendere il relativo procedimento, ove gli risulti l’esistenza di una condanna non ancora definitiva a pena dalla quale possa essere scomputato il periodo di custodia cautelare cui la detta richiesta si riferisce, e che, ove la somma liquidata a titolo di riparazione sia stata già corrisposta, lo Stato può agire per il suo recupero esperendo l’azione di ingiustificato arricchimento di cui all’art. 2041 cod. civ..

Le Sezioni Unite ritengono, pertanto, di aderire all’impostazione adottata dalla sentenza n. 358 del 2004 la quale riconosce, in generale e senza individuare limitazioni, l’applicabilità del beneficio della fungibilità, anche se il condannato abbia ottenuto la riparazione per l’ingiusta detenzione. I due istituti non sono dunque alternativi e non può con riguardo ai medesimi parlarsi di scelta, essendo destinato a prevalere quello contemplato dall’art. 657 c.p.p.

In tale ottica deve opportunamente ritenersi che il giudice della riparazione, nel caso in cui risulti che l’istante sia stato condannato con sentenza non definitiva ad una pena superiore a quella della custodia cautelare sofferta, possa sospendere il procedimento in attesa che venga definito quello nell’ambito del quale è intervenuta detta sentenza. D’altro canto, la procedura de qua, pur svolgendosi dinnanzi al giudice penale, assume connotazioni proprie, anche di carattere civilistico, avendo essa ad oggetto un rapporto patrimoniale tra l’istante ed l’amministrazione del Tesoro, dovendosi altresì considerare che l’intervento del pubblico ministero nella medesima ha natura identica a quella di cui all’art. 70 c.p.p.; pertanto potrebbe addivenirsi ad una sospensione anche alla luce della normativa processuale civilistica ai sensi dell’art. 337 c.p.c., onde evitare pronunce che vengano a trovarsi in rapporto di conflittualità dal punto di vista dei loro effetti pratici.

Corte di Cassazione - Sezione Quarta, Sentenza 22 giugno 2010, n. 34673

È legittima la riduzione, sulla somma giornaliera computata come frazione aritmetica di quella massima liquidabile per legge, dell’indennizzo dovuto a titolo di riparazione per l’ingiusta detenzione a soggetto pregiudicato, data, per esso, la minore afflittività della privazione della libertà personale, riconducibile sia al minore discredito che l’evento comporta per una persona la cui immagine sociale è già compromessa, sia al fatto che la sua dimestichezza con l’ambiente carcerario rende meno traumatica l’ingiusta privazione della libertà.

1. Riparazione per ingiusta detenzione

2. Struttura del danno

3. Fungibilità della pena

4. Autonomia dei due istituti

1. La riparazione per ingiusta detenzione prevista dagli artt. 314 e 315 c.p.p. costituisce una forma di indennizzo concessa in favore di chi sia stato ingiustamente privato della libertà personale in via cautelare o in sede di esecuzione di una decisione di condanna.

Si tratta, per definizione, di una forma di indennità per “atto lecito dannoso”; atto, cioè, emesso nell’esercizio di un’attività legittima e doverosa da parte degli organi dello Stato, della quale, tuttavia, in momenti procedimentali successivi, sia stata dimostrata l’erroneità o l’ingiustizia, rendendosi così necessario riparare il danno prodotto.

2. L’art. 315 c.p.p. comma 3 richiama, in quanto compatibili, le norme sulla riparazione dell’errore giudiziario e ciò consente di affermare che sia applicabile anche alla riparazione per l’ingiusta detenzione - sempre all’interno del tetto massimo previsto - la possibilità di commisurare l’entità della riparazione non solo alla durata della detenzione ma altresì alle "conseguenze personali e familiari" da essa derivanti (art. 643 c.p.p., comma 1), di cui l’istante dia prova.

Il "danno" subito, pertanto, riguarda principalmente la privazione della libertà personale già di per sè idonea, da sola, a procurare conseguenze irreparabili; ma si estende anche alle conseguenze sulle abitudini di vita, sull’attività lavorativa, oltre al nocumento inevitabile sui rapporti affettivi e interpersonali.

Per queste conseguenze ulteriori è richiesto - a differenza di quanto avviene per il pregiudizio derivante dalla mera privazione della libertà personale – che l’istante fornisca la prova della loro esistenza, anche se non del danno subito, la cui liquidazione può avvenire equitativamente.

Dal punto di vista concettuale, sembrerebbe sussistere una piena coincidenza tra il danno da ingiusta detenzione e le precipue caratteristiche astrattamente idonee a provocare quello sconvolgimento della vita personale e affettiva che va sotto il nome di danno esistenziale, inteso, appunto, quale deterioramento non temporaneo della qualità di vita dell’individuo; ben potrebbe rientrare anche il danno biologico, costituito dalla compromissione, di natura areddituale, dell’integrità psicofisica della persona, cui generalmente si accompagna una perdita o riduzione di funzioni vitali, anche non definitiva.

Proprio a causa di tale coincidenza e sostanziale sovrapponibilità, è stato più volte escluso che il danno non patrimoniale così inteso possa autonomamente formare oggetto di riparazione, in aggiunta all’indennizzo per l’ingiusta detenzione.

Così ragionando, e venendo alla sentenza in commento, la valutazione che giustifica la riduzione dell’indennizzo potrebbe fare riferimento ad una tipologia di danno non patrimoniale, quello morale, che, nel caso di soggetto pregiudicato, potrebbe mancare. Una lunga carcerazione preventiva per un soggetto, poi assolto, che risultava comunque inserito in un’organizzazione criminale, o che avesse già alle spalle esperienze carcerarie, se è sicuramente idonea a provocare un grave danno esistenziale, potrebbe risultare difficilmente fonte di danno morale, tradizionalmente costruito quale sofferenza psicologica o turbamento transitorio.

Peraltro, l’ordinamento non lascia privo di tutela chi versi in tali situazioni; anzi, il condannato potrà ricorrere ad un altro strumento probabilmente maggiormente idoneo a indennizzarlo: il computo della custodia cautelare e delle pene espiate senza titolo di cui all’art. 657 c.p.p.. Tale strumento, costituendo una sorta di reintegrazione in forma specifica, ha una ben maggior valenza rispetto ad una riparazione di carattere patrimoniale, la quale “monetizzando il sacrificio di una libertà inviolabile ne costituisce un pallido rimedio” (Corte Cost. sentenza n. 219/2008).

3. La disciplina di cui all’art. 657 c.p.p., inoltre, non richiede l’intervento di una statuizione irrevocabile volta a sancire l’infondatezza della misura restrittiva sofferta ed ha, al contempo, una portata molto più ampia rispetto alla riparazione per l’ingiusta detenzione ( tanto che anche il condannato al pagamento di una pena pecuniaria potrebbe richiedere la fungibilità, intervenendo i criteri di ragguaglio di cui all’art. 135 cp e art. 57 c. 3 L. 689/1981). Allo stesso modo, per quanto riguarda le pene accessorie, ai sensi dell’art. 662 c. 2 cpp., in sede di esecuzione della pena, si dovrà tener conto, al fine dell’esatta determinazione della durata della pena accessoria, anche della misura cautelare interdittiva, di contenuto corrispondente, eventualmente già applicata ai sensi degli artt. 288- 289- 290 cpp.

Tale disciplina normativa ha una ben precisa ratio la quale consiste nel privilegiare in via diretta il bene primario nonchè indisponibile della libertà, rendendo legittimo un determinato periodo di detenzione, che originariamente non lo era, escludendo che l’interessato debba scontare la pena detentiva per un ulteriore pari lasso temporale.

4. Ciò premesso, occorre chiedersi se i due istituti siano autonomamente azionabili e se siano cumulabili tra di loro. Si sono delineati, in proposito, nell’ambito della giurisprudenza di legittimità due fondamentali orientamenti, tra loro contrapposti:

Sentenza n. 358 del 23/11/2004. In tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, con riferimento all’ipotesi in cui la custodia cautelare ingiustamente sofferta venga computata a titolo di fungibilità sulla pena da espiare per altro reato ai sensi dell’art. 657 cod. proc. pen., la ratio della norma di cui all’art. 314 comma quarto del codice di rito - che, escludendo l’applicazione cumulativa degli istituti, vieta la riparazione - deve essere interpretata solo nel senso che va considerato irretrattabile il beneficio della fungibilità (con conseguente inapplicabilità del diverso beneficio di cui all’art. 314), ma non invece nel senso che, una volta accordato il ristoro economico, non possa più applicarsi, per la stessa carcerazione subita sine titulo, anche il beneficio della fungibilità, posto che lo Stato può sempre esercitare l’azione giudiziaria per indebito arricchimento nei confronti del soggetto il quale, avendo già ottenuto la riparazione, fruisca poi anche della fungibilità.

Sentenza n. 47001 del 05/12/2007. Qualora l’interessato, pur potendo attivare in contemporanea l’una o l’altra opzione, abbia per propria scelta chiesto e ottenuto la riparazione per ingiusta detenzione, non può poi chiedere l’applicazione della fungibilità della custodia cautelare sofferta senza titolo per lo stesso periodo, in modo da detrarla dalla pena da espiare per altro reato. In questo caso la richiesta di riparazione per ingiusta detenzione è irretrattabile, al pari della fungibilità. Il soggetto che, al momento in cui aveva promosso l’azione di riparazione per ingiusta detenzione, non aveva avuto, in concreto, la possibilità di chiedere l’applicazione della fungibilità della custodia sofferta senza titolo (non essendo ancora passata in giudicato la sentenza di condanna per un altro reato dalla cui pena avrebbe potuto detrarsi la custodia cautelare ingiustamente subita), può ottenere l’applicazione della fungibilità anche dopo avere usufruito della riparazione per ingiusta detenzione. In questo caso, inoltre, lo Stato può agire con l’azione di indebito arricchimento per ottenere la restituzione di quanto versato per la ingiusta detenzione.

Nel contrasto giurisprudenziale, sono intervenute le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la pronuncia n. 31416 del 10.07.08: Ai fini della determinazione della pena da eseguire vanno computati anche i periodi di custodia cautelare relativi ad altri fatti, per i quali il condannato abbia già ottenuto il riconoscimento del diritto alla riparazione per ingiusta detenzione, stante la inderogabilità della disciplina dettata dall’anzidetta disposizione normativa e dovendosi escludere l’esistenza di una facoltà di scelta, da parte dell’interessato (pur quando ne sussisterebbe la possibilità, attesa la già intervenuta esecutività della sentenza di condanna all’atto della richiesta di riparazione), tra il ristoro pecuniario di cui all’art. 314 cod. proc. pen. e lo scomputo dalla pena da espiare della custodia cautelare ingiustamente sofferta, fermo restando che, al fine di evitare che l’interessato consegua una indebita locupletazione, il giudice investito della richiesta di riparazione può sospendere il relativo procedimento, ove gli risulti l’esistenza di una condanna non ancora definitiva a pena dalla quale possa essere scomputato il periodo di custodia cautelare cui la detta richiesta si riferisce, e che, ove la somma liquidata a titolo di riparazione sia stata già corrisposta, lo Stato può agire per il suo recupero esperendo l’azione di ingiustificato arricchimento di cui all’art. 2041 cod. civ..

Le Sezioni Unite ritengono, pertanto, di aderire all’impostazione adottata dalla sentenza n. 358 del 2004 la quale riconosce, in generale e senza individuare limitazioni, l’applicabilità del beneficio della fungibilità, anche se il condannato abbia ottenuto la riparazione per l’ingiusta detenzione. I due istituti non sono dunque alternativi e non può con riguardo ai medesimi parlarsi di scelta, essendo destinato a prevalere quello contemplato dall’art. 657 c.p.p.

In tale ottica deve opportunamente ritenersi che il giudice della riparazione, nel caso in cui risulti che l’istante sia stato condannato con sentenza non definitiva ad una pena superiore a quella della custodia cautelare sofferta, possa sospendere il procedimento in attesa che venga definito quello nell’ambito del quale è intervenuta detta sentenza. D’altro canto, la procedura de qua, pur svolgendosi dinnanzi al giudice penale, assume connotazioni proprie, anche di carattere civilistico, avendo essa ad oggetto un rapporto patrimoniale tra l’istante ed l’amministrazione del Tesoro, dovendosi altresì considerare che l’intervento del pubblico ministero nella medesima ha natura identica a quella di cui all’art. 70 c.p.p.; pertanto potrebbe addivenirsi ad una sospensione anche alla luce della normativa processuale civilistica ai sensi dell’art. 337 c.p.c., onde evitare pronunce che vengano a trovarsi in rapporto di conflittualità dal punto di vista dei loro effetti pratici.