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Famiglia, culla d’amore

Cofamiglia
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Famiglia, culla d’amore

 

Non sono i figli che fanno la famiglia, ma la famiglia che fa i figli

“Non credo che ci si debba amare solo per fare i figli. […] Dico solo che una società che considera i figli come seconda o terza priorità, che ne fa sempre meno e non li educa nel giusto modo, non ha futuro. Privilegiare la comodità, l’egoismo, avanzare come giustificazione il costo, i rischi e la rottura di scatole rispetto alla poesia, alla tenerezza, alla faticosa dolcezza di una di una maternità e di una paternità pazienti e presenti, non è segno di maturità e coscienza adulta. […] Ho solo una tristezza immensa che mi coglie, fino a portarmi alla domanda pericolosa: se l’amore sia sempre più straniero in questa nostra società preoccupata dalla recessione, ma sempre meno impegnata ad affrontare e a risolvere la vera recessione, ovvero quella riguardante la famiglia, l’amore, i figli, l’altruismo e la capacità di relazioni profonde e autentiche”. Così don Antonio Mazzi, cresciuto senza padre e divenuto “padre” di tante generazioni con problemi di tossicodipendenza o di altra natura. Parecchi ragazzi caduti nella tossicodipendenza o altra forma di dipendenza affermano che dai genitori hanno avuto tutto, anche il superfluo, ma non quello di cui avevano bisogno, come l’ascolto, l’attenzione, il tempo, anche qualche limite. Ciò che dovrebbe caratterizzare l’amore genitoriale, l’amore in famiglia. Non sono i figli che fanno la famiglia, ma la famiglia che fa i figli. “Ogni bambino ci dice a modo suo la bellezza e le ferite della vita e ci richiama così alla nostra responsabilità. La sua nascita rappresenta un’esperienza nuova per l’umanità che gli deve ciò che essa ha di meglio” (dalla Charte du BICE, Parigi, giugno 2007). Ogni bambino suscita amore e stupore (anche se non sempre è così, altrimenti non si spiegherebbero i casi di infanticidio), come quello che manifestano i genitori i figli con disabilità: “Desideravo la bellezza e l’ho avuta: ho avuto te” (la scrittrice Ada D’Adamo nei confronti della figlia disabile).

“[...] in una famiglia, l’arrivo di una sofferenza può avere l’effetto di una bomba a mano. Di solito gli uomini entrano in una sofferenza che unisce il dolore per l’altro perduto all’incapacità di accettare di non essere il centro esclusivo delle cose. Per una donna il dolore è sempre una sfida da accettare, qualcosa da cui è impensabile fuggire” (cit.). Se l’uomo e la donna si unissero nel provare il dolore, o almeno lo convogliassero, sarebbe l’estrema, o forse la più sublime, forma d’amore: anche questa è una forma di assistenza, innanzitutto morale (art. 143 comma 2 cod. civ.).

Lo scrittore francese Pierre-Marc-Gaston de Lévis: “Il segno che non si ama più lo si ha quando i sacrifici cominciano a costare; il segno che si ama poco lo si ha quando ci si accorge di farne”. Quando in una coppia o in famiglia si parla in termini di sacrifici e rinunce significa che non si è compreso il senso e il linguaggio dell’amore. Quello che si fa è una scelta nella libertà e responsabilità: questo è l’amore.

Ada Fonzi, esperta di psicologia dello sviluppo, spiega: “Si deve al grande etologo austriaco del secolo scorso Konrad Lorenz la scoperta dell’imprinting, termine inglese che sta a indicare una forma di apprendimento precoce che fa sì che l’animale poche ore dopo la nascita riceva una sorta di impronta dal primo oggetto in movimento che compare nel suo campo visivo. Ne resta «impressionato» e non può fare a meno di seguirlo, corteggiarlo e restargli legato, assumendo tutti i suoi comportamenti. Lorenz addirittura si era immerso in un lago e aveva fatto in modo che allo schiudersi delle uova gli anatroccoli vedessero per prima cosa la sua massiccia figura. Così era stato e i piccoli avevano continuato ad andargli dietro, al punto che una volta che il ricercatore introdusse nel lago la vera madre biologica, si rifiutarono di seguirla. Questo tipo di apprendimento segue, però, regole ben precise e può verificarsi soltanto in quelli che sono definiti «periodi sensibili» che spesso si consumano nell’arco di pochissimi giorni”. I primi giorni di vita e soprattutto alcuni momenti sono fondamentali perché i bambini hanno bisogno di cure che sono l’espressione massima dell’amore gratuito. Esplicativo in tal senso l’art. 4 della Carta dei diritti del bambino nato prematuro (2010): “Il neonato prematuro ha diritto al contatto immediato e continuo con la propria famiglia, dalla quale deve essere accudito. A tal fine nel percorso assistenziale deve essere sostenuta la presenza attiva del genitore accanto al bambino, evitando ogni dispersione tra i componenti il nucleo familiare”. L’amore è un bisogno umano, un’esigenza vitale per ciascuno, ancor di più per i bambini, per i neonati. Nelle fonti normative si è parlato di “bisogno di amore” per la prima volta nell’art. 6 della Dichiarazione dei diritti del fanciullo (1959), oggi se ne parla diffusamente (anche in “carte” e documenti vari stilati da psicologi e altri esperti) tanto che si può profilare un diritto d’amore (il giurista Stefano Rodotà).

L’art. 8 par. 1 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia recita: “[…] il diritto del fanciullo di conservare la propria identità, nazionalità, nome e relazioni familiari”. Si noti che in quest’articolo si usa il verbo “conservare”, con tutta la pregnanza che può avere, e la successione dei diritti si conclude con “relazioni familiari”, che ha una portata più vasta e profonda di “famiglia”. Inoltre, quest’articolo è da leggere alla luce di quelli precedenti e in particolare dell’art. 3 ove si enuncia, tra l’altro, l’interesse superiore del fanciullo. Così nel procedere all’affidamento o all’adozione di un bambino. La psicologa Rosa Rosnati: “Il bisogno del bambino ha tempi che possono anche non essere i tempi di cui un adulto può avere bisogno per fruire di un percorso o di un programma, penso ad esempio a un programma di cura nel caso di una dipendenza… a volte questi tempi non corrispondono ai tempi del bambino, che restano però prioritari. Inoltre si investe troppo poco per la prevenzione, troppo poco per diffondere l’affido e per sostenere le famiglie affidatarie, troppo poco per sostenere le famiglie adottive. L’affido e l’adozione hanno una valenza sociale che merita di essere sostenuta, mentre la risonanza che episodi di cronaca come quello della Val d’Enza [cosiddetto “caso di Bibbiano”] hanno sull’opinione pubblica purtroppo rischia di offuscare questa valenza sociale. Teniamo presente che ad oggi ci sono in Italia circa 15mila minori che vivono in comunità: molte sono ottime, ma anche in quel caso la comunità può andar bene per periodi brevi o in emergenza ma non può essere il luogo dove un bambino può crescere. Il bambino per crescere deve poter sperimentare un legame di attaccamento sicuro. L’appello allora è per valorizzare forme di affido anche più fluide, che ad esempio permettano a un bambino di trascorrere il pomeriggio o il weekend o le vacanze nella famiglia affidataria, sperimentando legami famigliari solidi e di lungo periodo. Lo chiamano “affido leggero” ma è leggero solo in termini di tempo perché la valenza psicologica per il bambino è tutt’altro che leggera” (in un’intervista del 17 luglio 2019). Ogni figlio in famiglia dovrebbe essere considerato in “affido leggero”.

“A vederla luccicare tra le colline sulla stradina di campagna, la giardinetta rossa piena zeppa di bambini – bambine nella fattispecie – sembrava venir fuori da una di quelle scene di famigliole felici che, appena possono, i pubblicitari infilano nei loro filmati. Eppure, nella macchina mancava la mamma […]” (lo scrittore Gaetano Cappelli). Esistono molte famiglie monogenitoriali anche in presenza di entrambi i genitori, a danno dei figli, nel presente e per il futuro: coniugi separati in casa; genitore cui non si fa o che non sa esercitare la propria distinta funzione genitoriale; omologazione o duplicazione della figura genitoriale (con eclissi del padre) e altro ancora (sempre attuale sui figli alla mercé delle scelte dei genitori il film drammatico “I bambini ci guardano”). 

Il sociologo Pietro Boffi sottolinea: “Non si tratta di essere più o meno catastrofisti, ma di guardare in faccia la realtà. E domandarsi: una società in cui le famiglie che l’Istat tecnicamente definisce “unipersonali”, e che qualcuno già chiama “famiglie single”, sono ormai un terzo del totale e – se le tendenze che abbiamo delineato non subiranno un deciso cambio di rotta – sembrano destinate a diventare la maggioranza, può ancora stare in piedi? La frammentazione della popolazione che emerge dai dati sarà in grado di reggere il tessuto economico, sociale, civico che finora – bene o male – ha retto il nostro Paese?” (nell’articolo “Una su tre è single: la famiglia “Lilliput” fa bene all’Italia?” del 30-12-2019). La famiglia non può essere definita unipersonale o single perché viene meno la sua essenza (o funzione) come le è riconosciuta dalla Costituzione (artt. 29-31), dagli atti internazionali e dalle scienze umane in generale.

Il saggista Goffredo Fofi evidenzia: “E quanti oggi soffrono davvero di questo sentimento di inadempimento, di non essere all’altezza, di non fare tutto quel che si dovrebbe fare per combattere i mali del mondo, per attenuarne la forza? La società odierna mira a tutt’altro, mira a deresponsabilizzare, ad accentrare il senso di colpa sul privato famigliare e sessuale, a eliminare quell’altro, che è certamente di ostacolo al dominio dei pochissimi sui tantissimi. Viva dunque i sensi di colpa, viva la paura del rimprovero, se collocati al posto giusto nei nostri sentimenti, e richiamo alle nostre responsabilità”. Nella Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia vi è un richiamo alla responsabilità sin dal Preambolo: “Convinti che la famiglia, quale nucleo fondamentale della società e quale ambiente naturale per la crescita ed il benessere di tutti i suoi membri ed in particolare dei fanciulli debba ricevere l’assistenza e la protezione necessarie per assumere pienamente le sue responsabilità all’interno della comunità”. Deresponsabilizzarsi e fare a scaricabarile tra i due genitori, tra famiglia e scuola, tra i vari ordini di scuola e così via è un’appropriazione indebita della vita dei bambini e degli altri.

Un sociologo americano: “Le nuove idee hanno bisogno di antichi luoghi”. Le nuove vite hanno bisogno di antichi luoghi: le famiglie.

Lo psicologo Simone Olianti conclude: “Essere fecondi non è solo generare vita biologica, ma coltivare la vita, custodirla e proteggerla. Ed è solo quando la nostra vita genera vita bella intorno a noi, ed è fertile per qualcun altro, che siamo davvero felici”. Essere fecondi non è concepire figli ma generare amore, quello sano e sanante.