FIRENZE
FIRENZE
Da lontano, la cosa attrae. Andiamo a Firenze un paio di giorni, visiteremo le mostre medicee: le più importanti, ché altrimenti si rischia l’indigestione, tra quei programmi pomposi, pesanti come titoli di dissertazioni dell’Accademia del Cimento, montati su parole logore per tendenziosi abusi, come il potere, lo spazio, il principe, la dialettica.
Fuori di Palazzo Vecchio, c’è la coda. Aspettiamo che sfolli, ma è illusione, perché arrivano torpedoni a getto continuo, pieni di massaie, scolari, sudamericani, sindacalisti, arabi, infermiere, monache in gita aziendale. Facciamo un giro sulla piazza. La scalinata del Palazzo è impraticabile. Transenne sgangherate, bianche e rosse, separano come stazzi le mandrie in blue-jeans distese sulla pietra. Immense barbe, baffi, e tutto l’immaginabile pelo umano, conci e orecchini, ragazzette che fumano come piroscafi si fanno palpare con occhi esaltati. Aleggia un odore di fumo e stallatico, il vento porta polvere e acute folate di puzzo d’orina. L’odore, nell’insieme, lo ricordo bene, è l’odore dei suk, dei vicoletti sordidi del Cairo; il modello, mica tanto lontano, del nostro sviluppo. “Ràpido, ràpido ràpido” bercia un fotografo ambulante, quasi afferrando grappoli di sudamericani che scendono da un autobus.
Torme subumane assediano l’ala vasariana, le porte degli Uffizi ne ingoiano quante possono, salgono schiene curve sotto gli zaini e i sacchi a pelo. Ah, la cultura. In terra è una distesa di cartacce unte, sacchetti di plastica, bicchierini di carta, e cicche, e cicche, cerotti, bidoncini di bibite, vetri rotti, giornali gualciti, pacchetti di sigarette. Il cesto dei rifiuti con la scritta “Firenze pulita” si erge patetico, intonso in mezzo alla pattumiera. IL selciato è sconvolto da orride toppe, profonde buche recintate da stanghe cadenti infisse in ruote vecchie d’automobile: uno stile di lavori già visto in Siria, in Cecoslovacchia, in Indocina. Grandi manifesti blu, in italiano e arabo, esortano opportunamente a sostenere “le lotte del terzo mondo”.
Il portico a terreno è impercorribile per la folla dei banchi stracarichi di borse e cappelli, scacchiere, damine, bambocci, conchiglie, scatole. Non mancano i piccoli cessi di porcellana con le iscrizioni fatidiche “Tromba di culo sanità di corpo”. “Tutto arriva a chi sa aspettare”. Sotto la targa – “Archivio di Stato – Sovrintendenza Archivistica per la Toscana” una scritta misteriosa: “Micael Bue pube Culo”.
L’angolo del Palazzo Vecchio nascosto dalla fontana del Nettuno è il luogo comodo. Ci si bagna i piedi nell’acqua che sgorga dai capezzoli delle ninfe di bronzo, si può fare i propri bisogni dietro la fontana. L’orina stagionata si stende in chiazze gialle, omaggio alla diffusione della cultura e alla comprensione dei popoli. Stronzi umani e canini animano la zona, qua e là. Ai piedi della statua equestre di Cosimo primo, staziona una masnada barbuta, sul piedistallo sono incollati messaggi privati. Il signor Gino Trombone è avvisato che gli amici lo aspettano alle due all’ingresso delle Cascine. All’imbocco il Vicolo dei Cerchi, le chiazze gialle assumono proporzioni allarmanti. Si cercano invano i cavalli che possano averle prodotte. Una barricata di pattume sbarra gran parte della piccola via.
Ritorniamo all’ingresso, comperiamo i biglietti. I sudamericani si sono adornati, in massa, di cappelli di paglia, e con quelli si sono messi in fila per vedere la “committenza medicea”. Penetriamo negli umidi antri del pianterreno di Palazzo Vecchio, trasandati e sudici, e tuttavia stipati di arazzi. E’ faticoso salire per le rapide scale, e muoversi tra gli anditi, i soffocanti stambugi di pietra di questo nido di gufi, trasformato per scommessa in reggia rinascimentale. Vedere, ma che dico, indovinar qualcosa, costa spintoni, schienate, culate. Uno spesso odore umano stagna nelle stanze chiuse. Un giovanotto spiega ai clienti che proprio qui dormiva Cosimo in persona, che amava circondarsi di lusso e di sfarzo, e ogni mattina rivedeva ‘esti ha polavori, e ogni volta che e’ si svegliava, gli pareva ‘e fossero novi.
La mostra della “committenza”, a parte alcuni oggetti venuti di fuori, armature e bronzetti, risulta messa su con gli arredi del Palazzo e altre cose arraffate spogliando i bellissimi musei dei paraggi. Il Salone del Cinquecento pare un bivacco. Vedremo almeno lo Studiolo, questo incredibile sacrario del manierismo lunatico e sessuale. Vano pensiero, lo Studiolo è sbarrato. Non si entra. Domandiamo perché. Ma perché non c’è personale per custodirlo, la gente è troppa, si creano ingorghi, c’è pericolo che ne approfittino per rovinare i dipinti. La mezza cultura crepa per indigestione, intasamento, autofagia.
E’ un bel giuoco far venire da Vienna armature e bronzetti, e poi chiudere lo Studiolo. Speriamo almeno di trovarlo, trasferito in prestito, quando andremo a Vienna. Gli scambi culturali, si sa.
Anche la fuga è difficile. Come nei labirinti la mostra della “committenza” ha una sola direzione d’uscita: o seguire quella, o risalire la corrente, in un mare di sudore e d’imprecazioni, tra i richiami dei capigruppo con la paletta innalzata per radunare il loro gregge. Guadagniamo l’uscita, ci mettiamo in salvo. Tentiamo l’ingresso a Santa Maria del Fiore, ugualmente ingombro di torme accosciate. Ci spingiamo a San Lorenzo, di dove ci scaccia il vociare dei ciceroni che offendono, in varie lingue, il silenzio delle tombe michelangiolesche. Trovar un luogo dove mangiare è impresa sovrumana. Davanti trattorie e pizzerie staziona la mandria impaziente, in attesa di entrare. Infine, scoviamo un’oasi di eleganza e silenzio. Dove, non lo dirò se non a persone fidate, come in confessione. Di dietro i vetri schermati, contempliamo scorrere l’orda turistica, come dal recinto di una concessione europea in Cina, ai tempi della rivolta dei Boxers.