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Giorgio Caproni: 110 anni di poesia

110 anni fa nasceva a Livorno Giorgio Caproni (Livorno, 7 gennaio 1912 – Roma, 22 gennaio 1990)
Giorgio Caproni
Giorgio Caproni

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110 anni fa esatti, il 7 gennaio 1912, nasceva a Livorno Giorgio Caproni, tra i maggiori poeti del ventesimo secolo.

Per ricordarle Giorgio Caproni e festeggiarlo come merita, abbiamo deciso di ripubblicare un articolo dedicato a Giorgio Caproni uscito originariamente sulla rivista online "Il sommo poeta" curata da Marco Catania, che ringraziamo di cuore per averci dato l'autorizzazione.

Buon compleanno, Giorgio Caproni! Evviva la poesia!


Giorgio Caproni: 110 anni di poesia

Giorgio Caproni è stato un poeta tra i meno noti nel panorama novecentesco, la cui figura è però di assoluta importanza. Nato a Livorno nel 1912, a dieci anni si trasferì con i genitori a Genova dove frequentò le scuole, studiò musica e imparò a suonare il violino. La passione per la musica non lo abbandonò mai, tanto da divenire una caratteristica fondamentale della sua produzione poetica. A diciotto anni decise di dedicarsi alla lettura dei poeti in cui ritrovava il fascino della parola e della musica insieme, iniziando lui stesso a scrivere poesie.
Nella sua personale biblioteca si potevano trovare vari vocabolari italiani e dizionari francesi fittamente annotati, libri da messa e Vangeli con molte note a margine, numerose copie della Divina Commedia tutte piene di appunti in quanto grande appassionato di Dante, infine i Canti di Giacomo Leopardi e le Odi barbare di Giosuè Carducci.

Possedeva i classici della moderna poesia francese, da Charles Baudelaire a Paul Verlaine e capolavori del nostro Novecento come L'allegria di Giuseppe Ungaretti; il Canzoniere di Umberto SabaOssi di seppiaLe occasioniLa bufera e altro di Eugenio Montale; i Canti Orfici di Dino Campana. Teneva con sé anche alcuni testi degli amici Camillo Sbarbaro, Mario Luzi e Pier Paolo Pasolini.
In ambito filosofico due erano i testi per lui fondamentali: le Confessioni di Sant'Agostino e Il concetto dell'angoscia di Søren Kierkegaard.

A seguito del diploma magistrale cominciò ad insegnare alle scuole elementari, ma la sua vita fu segnata dalla morte della fidanzata poco prima delle nozze. Nel 1938 si trasferì a Roma, intanto aveva conosciuto Rina, la "nuova speranza", che presto divenne sua moglie. Finita la Seconda guerra mondiale scelse definitivamente l'insegnamento come principale professione, presso una scuola di Roma, "felice di vivere fra i ragazzi", continuando nel frattempo a scrivere poesie e racconti, a collaborare a riviste letterarie e a tradurre autori francesi tra cui Marcel Proust, Charles Baudelaire, Gustave Flaubert e Apollinaire. Spesso faceva ritorno a Genova per stare con la moglie, viaggiando in treno di notte, momento di grande ispirazione come nel primo primo sonetto della raccolta Il passaggio d'Enea, intitolato Alba. Il titolo del libro si rifà ad una statua situata a Genova in cui Enea porta sulle spalle il padre. I temi principali del componimento, ricorrenti nella sua produzione, sono la passione per i mezzi di trasporto pubblici come il treno o il tram e lo scenario dell'alba. Composto nel 1945, è ambientato in un bar nei pressi della stazione, a Roma, dove il poeta nelle prime luci dell'alba aspetta l'arrivo della moglie in treno. L'immagine del tram che apre e chiude in continuazione le porte passando di fermata in fermata senza che salga né scenda alcuna persona è l'emblema struggente di una solitudine infinita. L'autore stesso ci narra del motivo di questa composizione: "A Roma, verso la fine del 1945. Ero in una latteria, solo, vicino alla stazione, e aspettavo mia moglie Rina che doveva arrivare da Genova. Una latteria di quelle con i tavoli di marmo, con le stoviglie mal rigovernate che sanno appunto di “rifresco”. Mia moglie non poteva stare con me a Roma perché non trovavo casa e dovevo stare in pensione. Erano tempi tremendi". 

Amore mio, nei vapori d’un bar

all’alba, amore mio che inverno

lungo e che brivido attenderti! Qua

dove il marmo nel sangue è gelo, e sa

di rifresco anche l’occhio, ora nell’ermo

rumore oltre la brina io quale tram

odo, che apre e richiude in eterno

le deserte sue porte?... Amore, io ho fermo

il polso: e se il bicchiere entro il fragore

sottile ha un tremitìo tra i denti, è forse

di tali ruote un’eco. Ma tu, amore,

non dirmi, ora che in vece tua già il sole

sgorga, non dirmi che da quelle porte,

qui, col tuo passo, già attendo la morte.

Facendo un passo indietro all'anno 1936, all'esordio poetico di Giorgio Caproni con la raccolta Come un'allegoria, bisogna sottolineare l'importanza che aveva per lui la figura retorica dell'allegoria, la quale esprime qualcosa di astratto attraverso un'immagine concreta. L'autore stesso spiega la scelta del titolo del libro: "Nella mia prima raccolta esprimevo proprio il dubbio che tutta la realtà non fosse che allegoria di qualcosa d'altro che sfugge alla nostra ragione". Dunque, "noi possiamo avere, al massimo, l’allegoria di questa realtà". Nella poesia Borgoratti viene espresso il titolo attraverso i versi "Come un'allegoria una fanciulla appare sulla porta dell'osteria". Questa immagine che appare improvvisamente al giungere della sera come una fotografia, una figura poetica, "una fanciulla", contrapposta al contesto quotidiano, "un'osteria", cela un significato profondo. La ragazza presidia l'ingresso in un altro mondo, in un'altra realtà, come se l'aldilà si risolvesse in un'osteria della periferia di Genova. Ciò rappresenta forse un tentativo di evasione, una ricerca di serenità da un mondo che pian piano si fa oscuro e tenebroso, con i fiori sui balconi nei primi versi che, al sopraggiungere della sera, pian piano perdono i loro radiosi colori. È l'immagine della morte, espressa dal verso "Alle sue spalle è un vociare confuso d'uomini"; dietro alla giovane si apre dunque il regno dei morti in cui si confondono i lamenti degli uomini in un quadro che ci è descritto attraverso il carattere olfattivo: "l'aspro odore del vino", verso che richiama lo stile di Carducci.

L'ambientazione del componimento è quello che ai tempi di Giorgio Caproni era un borgo ai confini del capoluogo ligure, oggi divenuto periferia. L'autore sembra dipingere uno scenario in cui attraverso la letteratura si crea una seconda realtà che nasconde la prima; il testo è dunque, sebbene brevissimo, sintetico, denso di significato e, forse, mai davvero comprensibile nella sua pienezza.

Si è detto anche della ripresa nei suoi versi del Carducci, scelta che lo vede controcorrente in uno contesto letterario dove era ancora forte l'influenza di Gabriele d'Annunzio. Caproni definiva Carducci "macchiaiolo", riferendosi al movimento pittorico di Giovanni Fattori, attivo nella seconda metà dell'Ottocento. Per esempio nella poesia San Martino"biancheggia il mar" è un verso pittorico, a cui associamo subito un'immagine visiva ben definita. In questo Caproni fa riferimento a Carducci e si nota come anche nei suoi testi, per esempio i due analizzati, si possa subito avere un'idea ben concreta di ciò che viene descritto, un'immagine soggettiva per ognuno di noi a seconda della propria immaginazione, della personale sensibilità.

Anche le vampe fiorite

ai balconi di questo paese,

labile memoria ormai

dimentica la sera. 

 

Come un’allegoria,

una fanciulla appare

sulla porta dell’osteria.

Alle sue spalle è un vociare

confuso d’uomini – e l’aspro

odore del vino.

La rima è un altro elemento caratteristico della poesia di Giorgio Caproni; in Borgoratti è presente solo nella seconda strofa in modo molto semplice, come era solito fare. La critica ha sempre definito la sua rima chiara ed elementare; egli non si faceva infatti problema a metterla in risalto, andando controcorrente nella scelta, sebbene un autore come Saba in questo era simile. Giorgio Caproni però la utilizzava maggiormente, ponendola in primo piano. L'esempio più evidente è Iscrizione, inno alla bellezza della semplicità dove ritroviamo la rima "cuore e amore", la più facile e utilizzata si potrebbe pensare, in realtà "la più antica e difficile del mondo". Il brevissimo componimento è contenuto nel libro Il seme del piangere, dedicato alla madre, edito da Garzanti nel 1959, che prende nome da un'espressione dantesca del Purgatorio in cui Beatrice esorta Dante a smettere di piangere e a rafforzare il suo animo.

Freschi come i bicchieri
furono i suoi pensieri.
Per lei torni in onore
la rima in cuore e amore.

La raccolta nasce dunque come dedica alla madre, Anna Picchi, cantata nei componimenti con il nome di Annina; "è un fiore sulla sua tomba" disse il poeta. In essa si manifesta un bisogno di semplicità che riesce a portare Giorgio Caproni al punto più alto della sua produzione, in quello che è il suo libro più amato dai lettori per la facilità del linguaggio. Di esso fa parte Battendo a macchina, una vera e propria dichiarazione di poetica: la poesia dev'essere "fine", cioè dotata di grazia, "popolare", quindi vera, spontanea, che giunga direttamente dall'anima, infine dev'essere "tutta storia", cioè narrativa. Nella strofa centrale vi sono una serie di aggettivi come "schietta", "arguta", "attenta", "pia" che caratterizzano lo stile della sua poesia, ma che rispondono anche alla figura dell'amata madre.

 

Mia mano, fatti piuma:
fatti vela; e leggera
muovendoti sulla tastiera,
sii cauta. E bada, prima
di fermare la rima,
che stai scrivendo d’una
che fu viva e fu vera.

Tu sai che la mia preghiera
è schietta, e che l’errore
è pronto a stornare il cuore.
Sii arguta e attenta: pia.
Sii magra e sii poesia
se vuoi essere vita.
E se non vuoi tradita
la sua semplice gloria,
sii fine e popolare
come fu lei – sii ardita
e trepida, tutta storia
gentile, senza ambizione.

Allora, sul Voltone,
ventilata in un maggio
di barche, se paziente
chissà che, con la gente,
non prenda aìre e coraggio
anche tu, al suo passaggio.

Sempre dedicata alla madre defunta è Ad portam inferi. Annina si trova in una stazione all'alba, scenario tipico di Giorgio Caproni già incontrato in Alba. Seduta ad un freddo tavolino, attende "l'ultima destinazione". Vorrebbe sapere se deve aspettare ancora molto ma il capotreno non c'è e l'orologio è fermo, si trova infatti in una situazione atemporale. La donna è confusa: non riesce più a trovare segnali che la ricolleghino alla sua esistenza e alla sua quotidianità; non ha più il suo anello nuziale al dito, ha scordato le chiavi di casa e vorrebbe scrivere almeno due righe al suo bambino e a suo marito per salutarli, ma nella sua mente i ricordi sono offuscati e le figure del figlio e del marito si sovrappongono. Nell'angosciosa situazione di quella sala d'aspetto, in cui vorrebbe piangere mentre si rivolge al Signore disperata, prende coscienza di essere morta e di trovarsi in una dimensione purgatoriale, di passaggio verso il regno dei morti.

Chi avrebbe mai pensato, allora,
di doverla incontrare
un’alba (così sola
e debole, e senza
l’appoggio di una parola)
seduta in quella stazione,
la mano sul tavolino
freddo, ad aspettare
l’ultima coincidenza
per l’ultima stazione?
 
Posato il fagottino
in terra, con una cocca
del fazzoletto (di nebbia
e di vapori è piena
la sala, e vi si sfanno
i treni che vengono e vanno
senza fermarsi) asciuga
di soppiatto – in fretta
come fa la servetta
scacciata, che del servizio
nuovo ignora il padrone
e il vizio – la sola
lacrima che le sgorga
calda, e le brucia la gola.
 
Davanti al cappuccino
che si raffredda, Annina
di nuovo senza anello, pensa
di scrivere al suo bambino
almeno una cartolina:
“Caro, son qui: ti scrivo
per dirti …” Ma invano tenta
di ricordare: non sa
nemmeno lei, non rammenta
se è morto o se ancora è vivo,
e si confonde (la testa
le gira vuota) e intanto,
mentre le cresce il pianto
in petto, cerca
confusa nella borsetta
la matita, scordata
(s’accorge con una stretta
al cuore) con le chiavi di casa.
 
Vorrebbe anche al suo marito
scrivere due righe, in fretta.
Dirgli, come faceva
quando in giorni più netti
andava a Colle Salvetti,
“Attilio caro, ho lasciato
il caffè sul gas e il burro
nella credenza: compra
solo un pò di spaghetti,
e vedi di non lavorare
troppo (non ti stancare
come al solito) e fuma
un poco meno, senza,
ti prego, approfittare
ancora della mia partenza,
chiudendo il contatore,
se esci, anche per poche ore.”
 
Ma poi s’accorge che al dito
non ha più anello, e il cervello
di nuovo le si confonde
smarrito; e mentre
cerca invano di bere
freddo ormai il cappuccino
(la mano le trema: non riesce,
con tanta gente che esce
ed entra, ad alzare il bicchiere)
ritorna col suo pensiero
(guardando il cameriere
che intanto sparecchia, serio,
lasciando sul tavolino
il resto) al suo bambino.
 
Almeno le venisse in mente
che quel bambino è sparito!
E’ cresciuto, ha tradito,
fugge ora rincorso
pel mondo dall’errore
e dal peccato, e morso
dal cane del suo rimorso
inutile, solo
è rimasto a nutrire,
smilzo come un usignolo,
la sua magra famiglia
(il maschio, Rina, la figlia)
con colpe da non finire.
 
Ma lei, anche se le si strappa
il cuore, come può ricordare,
con tutti quei cacciatori
intorno, tutta quella grappa,
i cani che a muso chino
fiutano il suo fagottino
misero, e poi da un angolo
scodinzolano e la stanno a guardare
con occhi che subito piangono?
 
Nemmeno sa distinguere bene,
ormai tra marito e figliolo.
Vorrebbe piangere, cerca
sul marmo il tovagliolo
già tolto, e in terra
(vagamente la guerra
le torna in mente, e fischiare
a lungo nell’alba sente
un treno militare)
guarda fra tanto fumo
e tante bucce d’arancio
(fra tanto odore di rancio
e di pioggia) il solo
ed unico tesoro
che ha potuto salvare
e che (lei non può capire)
fra i piedi di tanta gente
i cani stanno a annusare.
 
“Signore cosa devo fare,”
quasi vorrebbe urlare,
come il giorno che il letto
pieno di lei, stretto
sentì il cuore svanire
in un così lungo morire.
 
Guarda l’orologio: è fermo.
Vorrebbe domandare
al capotreno. Vorrebbe
sapere se deve aspettare
ancora molto. Ma come,
come può, lei, sentire,
mentre le resta in gola
(c’è un fumo) la parola,
ch’è proprio negli occhi dei cani
la nebbia del suo domani?

Componente fondamentale nei versi di Giorgio Caproni è inoltre l'armonia, in quanto appassionato di musica. I suoi componimenti presentano una vera e propria partitura, un particolare rilievo sonoro in cui prendono vita le descrizioni delle città in cui visse, in particolare Genova, Livorno e le strade periferiche di Roma, le amate figure femminili e il tema del viaggio, metafora della vita, come nella suggestiva poesia Congedo del viaggiatore cerimonioso da cui prende il titolo il libro del 1965.

 

Amici, credo che sia
meglio per me cominciare
a tirar giù la valigia.
Anche se non so bene l’ora
d’arrivo, e neppure
conosca quali stazioni
precedano la mia,
sicuri segni mi dicono,
da quanto m’è giunto all’orecchio
di questi luoghi, ch’io
vi dovrò presto lasciare.

Vogliatemi perdonare
quel po’ di disturbo che reco.
Con voi sono stato lieto
dalla partenza, e molto
vi sono grato, credetemi,
per l’ottima compagnia.

Ancora vorrei conversare
a lungo con voi. Ma sia.
Il luogo del trasferimento
lo ignoro. Sento
però che vi dovrò ricordare
spesso, nella nuova sede,
mentre il mio occhio già vede
dal finestrino, oltre il fumo
umido del nebbione
che ci avvolge, rosso
il disco della mia stazione.

Chiedo congedo a voi
senza potervi nascondere,
lieve, una costernazione.
Era così bello parlare
insieme, seduti di fronte:
così bello confondere
i volti (fumare,
scambiandoci le sigarette),
e tutto quel raccontare
di noi (quell’inventare
facile, nel dire agli altri),
fino a poter confessare
quanto, anche messi alle strette,
mai avremmo osato un istante
(per sbaglio) confidare.

(Scusate. È una valigia pesante
anche se non contiene gran che:
tanto ch’io mi domando perché
l’ho recata, e quale
aiuto mi potrà dare
poi, quando l’avrò con me.
Ma pur la debbo portare,
non fosse che per seguire l’uso.
Lasciatemi, vi prego, passare.
Ecco. Ora ch’essa è
nel corridoio, mi sento
più sciolto. Vogliate scusare.)

Dicevo, ch’era bello stare
insieme. Chiacchierare.
Abbiamo avuto qualche
diverbio, è naturale.
Ci siamo – ed è normale
anche questo – odiati
su più d’un punto, e frenati
soltanto per cortesia.
Ma, cos’importa. Sia
come sia, torno
a dirvi, e di cuore, grazie
per l’ottima compagnia.

Congedo a lei, dottore,
e alla sua faconda dottrina.
Congedo a te, ragazzina
smilza, e al tuo lieve afrore
di ricreatorio e di prato
sul volto, la cui tinta
mite è sì lieve spinta.
Congedo, o militare
(o marinaio! In terra
come in cielo ed in mare)
alla pace e alla guerra.
Ed anche a lei, sacerdote,
congedo, che m’ha chiesto se io
(scherzava!) ho avuto in dote
di credere al vero Dio.

Congedo alla sapienza
e congedo all’amore.
Congedo anche alla religione.
Ormai sono a destinazione.

Ora che più forte sento
stridere il freno, vi lascio
davvero, amici. Addio.
Di questo, sono certo: io
son giunto alla disperazione
calma, senza sgomento.

Scendo. Buon proseguimento.