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I concetti di "vero" e "falso" nella falsa testimonianza

Le condotte attive considerate dall’articolo 372 c.p. consistono nell’affermare il falso e nel negare il vero. Esse si equivalgono, nel senso che la falsità rimane tale sia nel caso in cui assuma un aspetto positivo, dichiarando come vero un fatto che non lo è, sia nel caso in cui assuma un aspetto negativo, come quando si nega ciò che è vero.

Si tenga fin da subito presente che la testimonianza può vertere su fatti posti in essere dal dichiarante in prima persona, ma anche, e più frequentemente, su fatti percepiti dal dichiarante ma relativi a soggetti terzi. Nel primo caso non si pongono grossi problemi interpretativi quanto al significato dei concetti di “vero” e di “falso”. Rispetto alla seconda categoria, si è sviluppato un contrasto interpretativo in dottrina, che concerne lo stabilire se il punto di riferimento della falsità sia la conoscenza soggettiva del testimone, oppure la verità oggettiva dei fatti. Parlando di “vero oggettivo” dunque ci si riferisce a ciò che è davvero accaduto, parlando di “vero soggettivo” si fa riferimento a ciò che l’osservatore sa intorno ai fatti verificatisi.

La questione è molto delicata: è evidente che il precedente logico della deposizione innanzi all’autorità giudiziaria sia una percezione sensoriale dell’accaduto. La disciplina del codice appare inadeguata di fronte ad un reato di così complesso accertamento, dato che presuppone l’esame di una situazione psichica. La Cute ha giustamente sottolineato questo aspetto, parlando di “prevalenza dell’elemento psicologico su quello materiale” (LA CUTE, Falsa testimonianza, in Enciclopedia giuridica, XIII, Roma, 1989). L’atipicità di questo reato sta nel fatto che il giudice è tenuto a ricostruire non un fatto, ma una percezione, uno stato mentale, e in particolare la consapevolezza del teste di voler contraddire con la sua testimonianza ciò che egli ha percepito. Non si dimentichi infatti che, perché si possa parlare di falsa testimonianza, è sempre necessario come elemento psicologico il dolo del testimone, non essendo considerata dal legislatore l’ipotesi di una falsa testimonianza colposa. L’Autore cita alcuni studi per evidenziare la difficoltà dell’opera dell’organo giudicante: Von Liszt, anzitutto, aveva simulato un omicidio in un’aula universitaria, e, dopo aver chiesto a cinquanta studenti testimoni di riferire ciò cui avevano assistito, aveva ottenuto cinquanta diverse interpretazioni e descrizioni del fatto.

La complessità dell’accertamento trova conferma anche esaminando alcune teorie appartenenti all’ambito delle scienze psicologiche. Verso la fine del XIX secolo si ipotizzò una curva dell’oblio, in base alla quale i ricordi si indeboliscono proporzionalmente al tempo trascorso: si convenne che la ritenzione dell’accaduto è pari al 60% dopo appena venti minuti dalla sua percezione, e che il ricordo comunque varia in base alle diverse tonalità emotive dei singoli soggetti.

La dottrina assolutamente dominante assume come significativa la non conformità tra dichiarato e percepito, sostenendo quindi la concezione soggettivistica della falsa testimonianza: tale concezione ebbe origine da Carrara, il quale affermò che “il criterio della falsità della testimonianza, non dipende dal rapporto tra il detto e la realtà delle cose, ma dal rapporto tra il detto e la scienza del testimonio” (CARRARA, Programma del corso di diritto criminale, V, Lucca, 1881).

La principale obiezione che si muove alla teoria oggettivistica è quella per cui essa legittimerebbe le testimonianze create ad hoc per provare fatti veri: e non vi è dubbio che sia responsabile di falsità chi dichiara falsamente di aver visto un soggetto in un luogo determinato, essendo assolutamente certo che tale soggetto in quel luogo vi si trovava realmente.

D’altro canto, la tesi soggettivistica conduce ad alcune antinomie: da un lato, essa sembra inconciliabile con l’affermazione che lo scopo ultimo del processo penale sia l’accertamento del reale svolgersi degli accadimenti storici; dall’altro, sembra inidonea a risolvere il problema del falso putativo: a prima vista, per tale tesi risponderebbe di falsa testimonianza chi, pur volendo e sapendo di mentire, dichiari qualcosa che si verifica conforme all’accaduto.

La prima aporia è, per Severini, solo apparente, dato che la verità cui tende il processo penale, per quanto “reale”, è pur sempre di natura processuale, “vale a dire filtrata dalla personale conoscenza che dei fatti, rilevanti ai fini della decisione, hanno (o acquisiscono) i soggetti che operano, a vario titolo, nel processo” (SEVERINI, I delitti di false dichiarazioni nel processo penale (dopo la L. 7.12.2000, n. 397), Padova, CEDAM, 2003).

Ruggiero ha analizzato il problema attraverso una suddivisione in quattro parti della fattispecie. Anzitutto, sostiene l’Autore, sebbene tradizionalmente si rappresenti il fenomeno come contrasto tra accaduto e dichiarato, con una più attenta considerazione si percepisce “come il polo dell’accaduto sia in realtà scomponibile nei dati del percepito e del vero e proprio accaduto” (RUGGIERO, Falsa testimonianza, in Enciclopedia del diritto, XIII, Milano, 1967). Nel caso in cui il dichiarato sia difforme tanto dal percepito, quanto dall’accaduto, sicuramente sussisterà il delitto in esame; non è altrettanto agevole riconoscerne la sussistenza invece nei casi di difformità del dichiarato solo col percepito o solo con l’accaduto.

Per meglio comprendere i concetti di vero e di falso, la configurazione del fenomeno va integrata ulteriormente con un dato strettamente psicologico, cioè la rappresentazione della realtà che il teste sostituisce all’effettiva percezione: sicché “i poli dell’accaduto e del dichiarato si sdoppiano così in un obbiettivamente accaduto e in un subbiettivamente percepito, e, rispettivamente, in un obbiettivamente dichiarato e in una rappresentazione subbiettiva, sostitutiva della primitiva percezione, e più complesso diviene, di conseguenza, l’accertamento della loro difformità o conformità”.

Vi sono alcune situazioni nelle quali l’accertamento è agevole. E’ del tutto certo il giudizio di verità nel caso in cui:

• sia accaduto A, il soggetto abbia percepito A, si sia rappresentato di dichiarare A, ed infine abbia dichiarato A.

Così come sono del tutto certi i giudizi di falsità nelle ipotesi in cui:

• sia accaduto A, il soggetto abbia percepito B, si sia rappresentato di dichiarare C, ed abbia dichiarato D;

• sia accaduto A, il soggetto abbia percepito A, si sia rappresentato di dichiarare B, ed abbia dichiarato B.

Le difficoltà insorgono per tutte quelle situazioni non caratterizzate né da assoluta conformità, né da assoluta o relativa difformità. Questo accade, anzitutto, nei casi in cui, conformi tra loro accaduto e percepito, siano difformi da essi o la sola rappresentazione sostitutiva, o il solo dichiarato. Ci si riferisce alle ipotesi in cui:

• sia accaduto A, il soggetto abbia percepito A, si sia rappresentato di dichiarare B, ed abbia dichiarato A;

• sia accaduto A, il soggetto abbia percepito A, si sia rappresentato di dichiarare A, ed abbia dichiarato B;

qui la difformità incide sull’elemento psicologico della condotta, quindi il suo carattere colposo è manifestamente incompatibile con l’innegabile natura dolosa del delitto. Quindi un giudizio di falsità basato sull’involontaria difformità tra dichiarato e rappresentazione sostitutiva, frutto dunque di un errore ostativo, darebbe rilevanza a qualcosa di incompatibile con la disciplina dell’elemento psicologico della falsa testimonianza. Le stesse considerazioni sull’elemento psicologico del reato possono essere fatte anche per l’ipotesi in cui a contrastare siano il percepito e la rappresentazione sostitutiva del soggetto: la difformità potrebbe infatti essere l’effetto di una dimenticanza o di un ricordo traballante. Per integrare la fattispecie criminosa è sempre necessario accertare la cosciente e volontaria alterazione della rappresentazione rispetto al percepito. Innegabile è ad esempio la sussistenza del presupposto psicologico nel caso in cui una percezione manchi del tutto, e il testimone si inventi completamente il contenuto della rappresentazione.

A questo punto lo schema del giudizio di falsità è semplificato, avendo accertato che sono irrilevanti le situazioni di difformità circoscritta ai due dati costitutivi del polo del dichiarato. Resta da capire l’incidenza su di esso della difformità tra accaduto e percepito. Le ipotesi critiche sono quelle in cui:

• sia accaduto A, il soggetto abbia percepito B, ed abbia dichiarato A;

• sia accaduto A, il soggetto abbia percepito B, ed abbia dichiarato B.

Ruggiero entra a questo punto più a fondo della questione se il giudizio di falsità debba trarsi dall’alterazione del vero soggettivo o oggettivo, procedendo ad un’analisi esegetica della fattispecie. Sotto il profilo letterale, l’Autore afferma che “i concetti di falso e di vero, nei convincimenti etici dominanti come nelle regole di costume, nella tradizione culturale come nel linguaggio comune, richiamano l’idea di manifestazioni di conoscenza coscientemente difformi o conformi rispetto alla realtà obbiettiva: emergono cioè, tra i dati costitutivi di tali giudizi di valore, gli estremi del manifestato e dell’accaduto, collegati comparativamente dalle note di difformità o di conformità”. Ma risultati certi per tale indagine possono provenire solo dall’analisi della volontà del legislatore. Il fatto che la falsa testimonianza non sia compresa tra i delitti contro la fede pubblica forse non esclude che questa rientri tra le finalità di tutela dell’articolo 372 c.p., ma certo permette di negare il carattere preminente di tale finalità. E’ necessario allora individuare l’interesse tutelato in maniere preminente dalla norma. Secondo Ruggiero, “che rilevi l’esigenza alla generale tutela della verità, in quanto anche le false attestazioni processuali possono offendere la pubblica fede, non può certo escludersi; che si voglia assicurare, altresì, l’adempimento del dovere di fedeltà da parte di chi, come il teste, è chiamato a coadiuvare l’autorità in una delicata funzione, sembra anche indubbio; che, come scopo ultimo, si intenda garantire al massimo l’accertamento della verità obbiettiva, appare anche innegabile; ma ciò che sembra soprattutto perseguito è l’assicurazione della condizioni di adeguato svolgimento dell’attività giudiziaria nell’espletamento della prova testimoniale”. E’ la struttura stessa del reato, con i requisiti soggettivi della qualifica di testimone e dell’autorità giudiziaria, come detto, a differenziare la falsa testimonianza dalla falsità ideologica commessa da privato in atto pubblico, reato che tutela un fine differente (la fede pubblica) rispetto a quelli che condividono la collocazione codicistica col delitto in esame (l’amministrazione della giustizia). In particolare, la falsa testimonianza è collocata nella sottospecie di reati diretta a tutelare l’attività giudiziaria: tenendo conto che i delitti contro l’autorità delle decisioni giudiziarie vantano una distinta previsione, questo richiama l’idea dell’insieme della operazioni dirette all’accertamento della verità. Tra l’espletamento del mezzo di prova e la sua utilizzazione nel convincimento giudiziale è essenzialmente tutelato il primo momento, come si desume dall’istituto della ritrattazione: “se infatti la mancata utilizzazione della prova nella formazione del convincimento impedisse la lesione tipica del delitto, il tempestivo riconoscimento del falso, escludendo la testimonianza incriminata dall’insieme degli elementi probatori, dovrebbe da solo condurre alla non punibilità” , mentre la ritrattazione richiede la manifestazione del vero per portare alla non punibilità.

Al termine della laboriosa indagine, Ruggiero conferma rigorosamente la concezione soggettivistica, affermando che la scoperta della falsità di una deposizione implica sempre un inutile dispendio dell’attività giudiziaria, perché rende infruttuoso l’espletamento già compiuto, e, salve le preclusioni, comporta un’ulteriore indagine probatoria. La conseguenza è che anche il cosiddetto falso putativo integra la fattispecie di cui all’articolo 372 c.p.

La Cute giunge alla medesima conclusione sostenendo l’unitarietà della disciplina del reato in esame nelle ipotesi commissive e omissiva: il “ciò che si sa” si riferirebbe non solo alla reticenza, ma anche alla negazione del vero e all’affermazione del falso “che viene ugualmente riferito non alla verità od al falso obbiettivo, ma piuttosto in relazione alla situazione conoscitiva del soggetto inteso come sintesi di momento descrittivo e momento valutativo in cui la percezione è stata filtrata dal soggetto” . Tuttavia, tale argomentazione non sembra del tutto corretta, dato che svilisce evidentemente il dato testuale della legge: l’uso della congiunzione disgiuntiva “ovvero”, insieme alla virgola, consente di collegare l’espressione in esame alla sola reticenza, e non anche alle nozioni di falso e di vero. Per di più, se il legislatore avesse voluto differenziare le tre condotte solo nelle modalità, e non nel contenuto, avrebbe potuto utilizzare sempre la medesima espressione, formulando la norma nei seguenti termini: “chiunque afferma il falso o nega, ovvero tace, il vero…”. La questione viene affrontata da altra dottrina senza escludere a priori una certa rilevanza del falso in senso oggettivo.

L’unico autore che sostiene apertamente la teoria oggettivistica è Malinverni, il quale accusa alcuni colleghi di non aver tenuto conto della distinzione tra i requisiti della condotta e quelli dell’elemento psicologico del reato: “la condotta attiene all’elemento oggettivo. Parliamo qui dunque del falso in senso oggettivo. Ciò che rileva, sotto questo profilo, è la deposizione quale prova che serve ad un giudizio. L’elemento della condotta è quindi permeato del valore di detta prova. L’idea centrale è sempre quella di evitare il pericolo di un giudizio sbagliato. Voler definire la condotta senza tener conto del suo effettivo valore può portare a risultati aberranti. Dunque, sempre sotto questo profilo, deve dirsi falsa la deposizione che differisce dalla reale situazione, cioè dalla verità oggettiva” (MALINVERNI, Vero e falso nella testimonianza, in La testimonianza nel processo penale, Milano, 1974). Questa impostazione risolve chiaramente alla radice il problema del falso putativo, in quanto esso non offenderebbe neppure il bene giuridico protetto. Quanto all’elemento psicologico, Malinverni afferma che il dolo del reato in esame consiste nella consapevole volontà di affermare il falso o negare il vero: quindi “se l’agente depone ciò che ricorda e si rappresenta come vero, mentre ciò non corrisponde alla situazione reale, egli commette errore sul fatto che costituisce reato e quindi non versa in dolo (articolo 47, primo comma, c.p.)” . Tale soluzione non pare però condivisibile, in quanto l’autore non risolve il problema delle testimonianze create ad hoc per provare fatti veri, che, per la teoria “pura” del falso oggettivo, sarebbero legittime, il che per ovvie ragioni non può ammettersi.

Più correttamente, altra dottrina accoglie i risultati cui sono pervenuti i sostenitori della teoria soggettivistica senza però escludere una qualche rilevanza del falso in senso oggettivo. Di Giovine, per esempio, sottolinea che la tipicità di una fattispecie è scomponibile in un aspetto obbiettivo e in uno soggettivo: la confusione dei due piani è dovuta alla natura delle nozioni di vero e di falso quali giudizi di valore, e alla difficoltà pratica di formazione di questi ultimi (DI GIOVINE, Testimonianza (falsità di), in Digesto delle discipline penalistiche, XIV, Torino, 1999). Infatti gli stessi assertori della concezione soggettivistica ammettono la difficoltà sul piano positivo di accertare il mendacio, essendo questo valutato come una consapevole rappresentazione difforme della realtà. Ciò premesso, la soluzione del caso limite costituito dal problema del trattamento penale di chi, credendo di dire il falso, afferma il vero, non può che essere cercata su un piano diverso, cioè quello dell’offesa al bene giuridico protetto, che non potrà dirsi realizzata: nel falso putativo, dunque, “sarà rinvenibile la tipicità soggettiva, ma non anche quella oggettiva, ed il fatto troverà agevole inquadramento dogmatico nell’articolo 49, primo comma, c.p., garantendo altresì al sistema un complessivo recupero di coerenza”.

In particolare, l’articolo 49, primo comma, c.p. disciplina il reato supposto erroneamente, stabilendo che “non è punibile chi commette un fatto non costituente reato, nella supposizione erronea che esso costituisca reato”: è la situazione di un fatto criminoso immaginato da chi agisce, ma di fatto inesistente. La ratio di questa norma è dovuta al fatto che in un ordinamento giuridico come il nostro “la mera convinzione soggettiva di delinquere appare penalmente irrilevante finchè non si materializzi in una effettiva aggressione ad un bene tutelato” (FIANDACA, MUSCO, Diritto penale, parte generale, Zanichelli, Bologna, 2001). Il falso putativo dunque non sarà punibile perché il teste, supponendo erroneamente che la sua dichiarazione sia falsa, e costituisca quindi reato, dichiara il vero, compie cioè un fatto che non costituisce reato.

Anche Caraccioli sostiene la non punibilità del falso putativo, ritenendolo però non un reato putativo, bensì un reato impossibile ex articolo 49, secondo comma, c.p. : ”ci si troverà perciò in presenza soltanto di un quasi-reato, ossia di una condotta che, pur essendo formalmente conforme allo schema di comportamento normativamente tipicizzato, non è idonea alla verificazione di un determinato evento” (CARACCIOLI, Reati di mendacio e valutazioni, Milano, 1962), e l’evento giuridico del reato non è altro che la lesione o messa in pericolo dell’interesse protetto dalla norma.

Si è detto ad inizio capitolo che la principale obiezione mossa contro la teoria oggettivistica è quella per cui essa legittimerebbe le testimonianze create ad hoc per provare fatti veri. Certo non vi è dubbio che sia responsabile di falsità chi dichiara falsamente di aver visto un soggetto in un luogo determinato, essendo assolutamente certo che tale soggetto in quel luogo vi si trovava realmente. D’altro canto, come visto, alcuni esponenti della dottrina ritengono che il falso debba essere tale non solo dal punto di vista soggettivo, ma anche da quello oggettivo, affinché la condotta oggetto del reato possa essere punita. Le due affermazioni, a ben vedere, sono di per sé compatibili.

Poniamo ad esempio che Tizio, persona indagata per omicidio, si trovasse in un luogo diverso dal locus commissi delicti al momento del reato, e che Caio, chiamato a testimoniare nel processo, dichiari di aver visto Tizio in questo luogo differente, pur non avendolo visto effettivamente con i suoi occhi; è l’ipotesi della falsa convalida di un alibi corrispondente al vero oggettivo. Ad un’attenta lettura, le dichiarazioni apparentemente conformi al vero oggettivo, sono in realtà oggettivamente false, e non solo soggettivamente: infatti se il dichiarante afferma una diretta percezione di fatti in realtà non percepiti, se, nell’esempio precedente, Caio afferma di “aver visto” Tizio in un luogo in cui egli non c’era, la dichiarazione sarà comunque oggettivamente falsa, pur se essa conferma un alibi veritiero.

E’ stato infine sollevato il problema del dubbio del dichiarante: certamente lo stato della cognizione del testimone influisce sul giudizio di falsità. Quindi chi riferisce come dubbio un fatto di cui è sicuro, pone in essere la condotta di negazione del vero. Specularmente, afferma il falso chi riferisce come sicuro un fatto di cui non ha certezza. In entrambi i casi il soggetto potrà rispondere del delitto.

Le condotte attive considerate dall’articolo 372 c.p. consistono nell’affermare il falso e nel negare il vero. Esse si equivalgono, nel senso che la falsità rimane tale sia nel caso in cui assuma un aspetto positivo, dichiarando come vero un fatto che non lo è, sia nel caso in cui assuma un aspetto negativo, come quando si nega ciò che è vero.

Si tenga fin da subito presente che la testimonianza può vertere su fatti posti in essere dal dichiarante in prima persona, ma anche, e più frequentemente, su fatti percepiti dal dichiarante ma relativi a soggetti terzi. Nel primo caso non si pongono grossi problemi interpretativi quanto al significato dei concetti di “vero” e di “falso”. Rispetto alla seconda categoria, si è sviluppato un contrasto interpretativo in dottrina, che concerne lo stabilire se il punto di riferimento della falsità sia la conoscenza soggettiva del testimone, oppure la verità oggettiva dei fatti. Parlando di “vero oggettivo” dunque ci si riferisce a ciò che è davvero accaduto, parlando di “vero soggettivo” si fa riferimento a ciò che l’osservatore sa intorno ai fatti verificatisi.

La questione è molto delicata: è evidente che il precedente logico della deposizione innanzi all’autorità giudiziaria sia una percezione sensoriale dell’accaduto. La disciplina del codice appare inadeguata di fronte ad un reato di così complesso accertamento, dato che presuppone l’esame di una situazione psichica. La Cute ha giustamente sottolineato questo aspetto, parlando di “prevalenza dell’elemento psicologico su quello materiale” (LA CUTE, Falsa testimonianza, in Enciclopedia giuridica, XIII, Roma, 1989). L’atipicità di questo reato sta nel fatto che il giudice è tenuto a ricostruire non un fatto, ma una percezione, uno stato mentale, e in particolare la consapevolezza del teste di voler contraddire con la sua testimonianza ciò che egli ha percepito. Non si dimentichi infatti che, perché si possa parlare di falsa testimonianza, è sempre necessario come elemento psicologico il dolo del testimone, non essendo considerata dal legislatore l’ipotesi di una falsa testimonianza colposa. L’Autore cita alcuni studi per evidenziare la difficoltà dell’opera dell’organo giudicante: Von Liszt, anzitutto, aveva simulato un omicidio in un’aula universitaria, e, dopo aver chiesto a cinquanta studenti testimoni di riferire ciò cui avevano assistito, aveva ottenuto cinquanta diverse interpretazioni e descrizioni del fatto.

La complessità dell’accertamento trova conferma anche esaminando alcune teorie appartenenti all’ambito delle scienze psicologiche. Verso la fine del XIX secolo si ipotizzò una curva dell’oblio, in base alla quale i ricordi si indeboliscono proporzionalmente al tempo trascorso: si convenne che la ritenzione dell’accaduto è pari al 60% dopo appena venti minuti dalla sua percezione, e che il ricordo comunque varia in base alle diverse tonalità emotive dei singoli soggetti.

La dottrina assolutamente dominante assume come significativa la non conformità tra dichiarato e percepito, sostenendo quindi la concezione soggettivistica della falsa testimonianza: tale concezione ebbe origine da Carrara, il quale affermò che “il criterio della falsità della testimonianza, non dipende dal rapporto tra il detto e la realtà delle cose, ma dal rapporto tra il detto e la scienza del testimonio” (CARRARA, Programma del corso di diritto criminale, V, Lucca, 1881).

La principale obiezione che si muove alla teoria oggettivistica è quella per cui essa legittimerebbe le testimonianze create ad hoc per provare fatti veri: e non vi è dubbio che sia responsabile di falsità chi dichiara falsamente di aver visto un soggetto in un luogo determinato, essendo assolutamente certo che tale soggetto in quel luogo vi si trovava realmente.

D’altro canto, la tesi soggettivistica conduce ad alcune antinomie: da un lato, essa sembra inconciliabile con l’affermazione che lo scopo ultimo del processo penale sia l’accertamento del reale svolgersi degli accadimenti storici; dall’altro, sembra inidonea a risolvere il problema del falso putativo: a prima vista, per tale tesi risponderebbe di falsa testimonianza chi, pur volendo e sapendo di mentire, dichiari qualcosa che si verifica conforme all’accaduto.

La prima aporia è, per Severini, solo apparente, dato che la verità cui tende il processo penale, per quanto “reale”, è pur sempre di natura processuale, “vale a dire filtrata dalla personale conoscenza che dei fatti, rilevanti ai fini della decisione, hanno (o acquisiscono) i soggetti che operano, a vario titolo, nel processo” (SEVERINI, I delitti di false dichiarazioni nel processo penale (dopo la L. 7.12.2000, n. 397), Padova, CEDAM, 2003).

Ruggiero ha analizzato il problema attraverso una suddivisione in quattro parti della fattispecie. Anzitutto, sostiene l’Autore, sebbene tradizionalmente si rappresenti il fenomeno come contrasto tra accaduto e dichiarato, con una più attenta considerazione si percepisce “come il polo dell’accaduto sia in realtà scomponibile nei dati del percepito e del vero e proprio accaduto” (RUGGIERO, Falsa testimonianza, in Enciclopedia del diritto, XIII, Milano, 1967). Nel caso in cui il dichiarato sia difforme tanto dal percepito, quanto dall’accaduto, sicuramente sussisterà il delitto in esame; non è altrettanto agevole riconoscerne la sussistenza invece nei casi di difformità del dichiarato solo col percepito o solo con l’accaduto.

Per meglio comprendere i concetti di vero e di falso, la configurazione del fenomeno va integrata ulteriormente con un dato strettamente psicologico, cioè la rappresentazione della realtà che il teste sostituisce all’effettiva percezione: sicché “i poli dell’accaduto e del dichiarato si sdoppiano così in un obbiettivamente accaduto e in un subbiettivamente percepito, e, rispettivamente, in un obbiettivamente dichiarato e in una rappresentazione subbiettiva, sostitutiva della primitiva percezione, e più complesso diviene, di conseguenza, l’accertamento della loro difformità o conformità”.

Vi sono alcune situazioni nelle quali l’accertamento è agevole. E’ del tutto certo il giudizio di verità nel caso in cui:

• sia accaduto A, il soggetto abbia percepito A, si sia rappresentato di dichiarare A, ed infine abbia dichiarato A.

Così come sono del tutto certi i giudizi di falsità nelle ipotesi in cui:

• sia accaduto A, il soggetto abbia percepito B, si sia rappresentato di dichiarare C, ed abbia dichiarato D;

• sia accaduto A, il soggetto abbia percepito A, si sia rappresentato di dichiarare B, ed abbia dichiarato B.

Le difficoltà insorgono per tutte quelle situazioni non caratterizzate né da assoluta conformità, né da assoluta o relativa difformità. Questo accade, anzitutto, nei casi in cui, conformi tra loro accaduto e percepito, siano difformi da essi o la sola rappresentazione sostitutiva, o il solo dichiarato. Ci si riferisce alle ipotesi in cui:

• sia accaduto A, il soggetto abbia percepito A, si sia rappresentato di dichiarare B, ed abbia dichiarato A;

• sia accaduto A, il soggetto abbia percepito A, si sia rappresentato di dichiarare A, ed abbia dichiarato B;

qui la difformità incide sull’elemento psicologico della condotta, quindi il suo carattere colposo è manifestamente incompatibile con l’innegabile natura dolosa del delitto. Quindi un giudizio di falsità basato sull’involontaria difformità tra dichiarato e rappresentazione sostitutiva, frutto dunque di un errore ostativo, darebbe rilevanza a qualcosa di incompatibile con la disciplina dell’elemento psicologico della falsa testimonianza. Le stesse considerazioni sull’elemento psicologico del reato possono essere fatte anche per l’ipotesi in cui a contrastare siano il percepito e la rappresentazione sostitutiva del soggetto: la difformità potrebbe infatti essere l’effetto di una dimenticanza o di un ricordo traballante. Per integrare la fattispecie criminosa è sempre necessario accertare la cosciente e volontaria alterazione della rappresentazione rispetto al percepito. Innegabile è ad esempio la sussistenza del presupposto psicologico nel caso in cui una percezione manchi del tutto, e il testimone si inventi completamente il contenuto della rappresentazione.

A questo punto lo schema del giudizio di falsità è semplificato, avendo accertato che sono irrilevanti le situazioni di difformità circoscritta ai due dati costitutivi del polo del dichiarato. Resta da capire l’incidenza su di esso della difformità tra accaduto e percepito. Le ipotesi critiche sono quelle in cui:

• sia accaduto A, il soggetto abbia percepito B, ed abbia dichiarato A;

• sia accaduto A, il soggetto abbia percepito B, ed abbia dichiarato B.

Ruggiero entra a questo punto più a fondo della questione se il giudizio di falsità debba trarsi dall’alterazione del vero soggettivo o oggettivo, procedendo ad un’analisi esegetica della fattispecie. Sotto il profilo letterale, l’Autore afferma che “i concetti di falso e di vero, nei convincimenti etici dominanti come nelle regole di costume, nella tradizione culturale come nel linguaggio comune, richiamano l’idea di manifestazioni di conoscenza coscientemente difformi o conformi rispetto alla realtà obbiettiva: emergono cioè, tra i dati costitutivi di tali giudizi di valore, gli estremi del manifestato e dell’accaduto, collegati comparativamente dalle note di difformità o di conformità”. Ma risultati certi per tale indagine possono provenire solo dall’analisi della volontà del legislatore. Il fatto che la falsa testimonianza non sia compresa tra i delitti contro la fede pubblica forse non esclude che questa rientri tra le finalità di tutela dell’articolo 372 c.p., ma certo permette di negare il carattere preminente di tale finalità. E’ necessario allora individuare l’interesse tutelato in maniere preminente dalla norma. Secondo Ruggiero, “che rilevi l’esigenza alla generale tutela della verità, in quanto anche le false attestazioni processuali possono offendere la pubblica fede, non può certo escludersi; che si voglia assicurare, altresì, l’adempimento del dovere di fedeltà da parte di chi, come il teste, è chiamato a coadiuvare l’autorità in una delicata funzione, sembra anche indubbio; che, come scopo ultimo, si intenda garantire al massimo l’accertamento della verità obbiettiva, appare anche innegabile; ma ciò che sembra soprattutto perseguito è l’assicurazione della condizioni di adeguato svolgimento dell’attività giudiziaria nell’espletamento della prova testimoniale”. E’ la struttura stessa del reato, con i requisiti soggettivi della qualifica di testimone e dell’autorità giudiziaria, come detto, a differenziare la falsa testimonianza dalla falsità ideologica commessa da privato in atto pubblico, reato che tutela un fine differente (la fede pubblica) rispetto a quelli che condividono la collocazione codicistica col delitto in esame (l’amministrazione della giustizia). In particolare, la falsa testimonianza è collocata nella sottospecie di reati diretta a tutelare l’attività giudiziaria: tenendo conto che i delitti contro l’autorità delle decisioni giudiziarie vantano una distinta previsione, questo richiama l’idea dell’insieme della operazioni dirette all’accertamento della verità. Tra l’espletamento del mezzo di prova e la sua utilizzazione nel convincimento giudiziale è essenzialmente tutelato il primo momento, come si desume dall’istituto della ritrattazione: “se infatti la mancata utilizzazione della prova nella formazione del convincimento impedisse la lesione tipica del delitto, il tempestivo riconoscimento del falso, escludendo la testimonianza incriminata dall’insieme degli elementi probatori, dovrebbe da solo condurre alla non punibilità” , mentre la ritrattazione richiede la manifestazione del vero per portare alla non punibilità.

Al termine della laboriosa indagine, Ruggiero conferma rigorosamente la concezione soggettivistica, affermando che la scoperta della falsità di una deposizione implica sempre un inutile dispendio dell’attività giudiziaria, perché rende infruttuoso l’espletamento già compiuto, e, salve le preclusioni, comporta un’ulteriore indagine probatoria. La conseguenza è che anche il cosiddetto falso putativo integra la fattispecie di cui all’articolo 372 c.p.

La Cute giunge alla medesima conclusione sostenendo l’unitarietà della disciplina del reato in esame nelle ipotesi commissive e omissiva: il “ciò che si sa” si riferirebbe non solo alla reticenza, ma anche alla negazione del vero e all’affermazione del falso “che viene ugualmente riferito non alla verità od al falso obbiettivo, ma piuttosto in relazione alla situazione conoscitiva del soggetto inteso come sintesi di momento descrittivo e momento valutativo in cui la percezione è stata filtrata dal soggetto” . Tuttavia, tale argomentazione non sembra del tutto corretta, dato che svilisce evidentemente il dato testuale della legge: l’uso della congiunzione disgiuntiva “ovvero”, insieme alla virgola, consente di collegare l’espressione in esame alla sola reticenza, e non anche alle nozioni di falso e di vero. Per di più, se il legislatore avesse voluto differenziare le tre condotte solo nelle modalità, e non nel contenuto, avrebbe potuto utilizzare sempre la medesima espressione, formulando la norma nei seguenti termini: “chiunque afferma il falso o nega, ovvero tace, il vero…”. La questione viene affrontata da altra dottrina senza escludere a priori una certa rilevanza del falso in senso oggettivo.

L’unico autore che sostiene apertamente la teoria oggettivistica è Malinverni, il quale accusa alcuni colleghi di non aver tenuto conto della distinzione tra i requisiti della condotta e quelli dell’elemento psicologico del reato: “la condotta attiene all’elemento oggettivo. Parliamo qui dunque del falso in senso oggettivo. Ciò che rileva, sotto questo profilo, è la deposizione quale prova che serve ad un giudizio. L’elemento della condotta è quindi permeato del valore di detta prova. L’idea centrale è sempre quella di evitare il pericolo di un giudizio sbagliato. Voler definire la condotta senza tener conto del suo effettivo valore può portare a risultati aberranti. Dunque, sempre sotto questo profilo, deve dirsi falsa la deposizione che differisce dalla reale situazione, cioè dalla verità oggettiva” (MALINVERNI, Vero e falso nella testimonianza, in La testimonianza nel processo penale, Milano, 1974). Questa impostazione risolve chiaramente alla radice il problema del falso putativo, in quanto esso non offenderebbe neppure il bene giuridico protetto. Quanto all’elemento psicologico, Malinverni afferma che il dolo del reato in esame consiste nella consapevole volontà di affermare il falso o negare il vero: quindi “se l’agente depone ciò che ricorda e si rappresenta come vero, mentre ciò non corrisponde alla situazione reale, egli commette errore sul fatto che costituisce reato e quindi non versa in dolo (articolo 47, primo comma, c.p.)” . Tale soluzione non pare però condivisibile, in quanto l’autore non risolve il problema delle testimonianze create ad hoc per provare fatti veri, che, per la teoria “pura” del falso oggettivo, sarebbero legittime, il che per ovvie ragioni non può ammettersi.

Più correttamente, altra dottrina accoglie i risultati cui sono pervenuti i sostenitori della teoria soggettivistica senza però escludere una qualche rilevanza del falso in senso oggettivo. Di Giovine, per esempio, sottolinea che la tipicità di una fattispecie è scomponibile in un aspetto obbiettivo e in uno soggettivo: la confusione dei due piani è dovuta alla natura delle nozioni di vero e di falso quali giudizi di valore, e alla difficoltà pratica di formazione di questi ultimi (DI GIOVINE, Testimonianza (falsità di), in Digesto delle discipline penalistiche, XIV, Torino, 1999). Infatti gli stessi assertori della concezione soggettivistica ammettono la difficoltà sul piano positivo di accertare il mendacio, essendo questo valutato come una consapevole rappresentazione difforme della realtà. Ciò premesso, la soluzione del caso limite costituito dal problema del trattamento penale di chi, credendo di dire il falso, afferma il vero, non può che essere cercata su un piano diverso, cioè quello dell’offesa al bene giuridico protetto, che non potrà dirsi realizzata: nel falso putativo, dunque, “sarà rinvenibile la tipicità soggettiva, ma non anche quella oggettiva, ed il fatto troverà agevole inquadramento dogmatico nell’articolo 49, primo comma, c.p., garantendo altresì al sistema un complessivo recupero di coerenza”.

In particolare, l’articolo 49, primo comma, c.p. disciplina il reato supposto erroneamente, stabilendo che “non è punibile chi commette un fatto non costituente reato, nella supposizione erronea che esso costituisca reato”: è la situazione di un fatto criminoso immaginato da chi agisce, ma di fatto inesistente. La ratio di questa norma è dovuta al fatto che in un ordinamento giuridico come il nostro “la mera convinzione soggettiva di delinquere appare penalmente irrilevante finchè non si materializzi in una effettiva aggressione ad un bene tutelato” (FIANDACA, MUSCO, Diritto penale, parte generale, Zanichelli, Bologna, 2001). Il falso putativo dunque non sarà punibile perché il teste, supponendo erroneamente che la sua dichiarazione sia falsa, e costituisca quindi reato, dichiara il vero, compie cioè un fatto che non costituisce reato.

Anche Caraccioli sostiene la non punibilità del falso putativo, ritenendolo però non un reato putativo, bensì un reato impossibile ex articolo 49, secondo comma, c.p. : ”ci si troverà perciò in presenza soltanto di un quasi-reato, ossia di una condotta che, pur essendo formalmente conforme allo schema di comportamento normativamente tipicizzato, non è idonea alla verificazione di un determinato evento” (CARACCIOLI, Reati di mendacio e valutazioni, Milano, 1962), e l’evento giuridico del reato non è altro che la lesione o messa in pericolo dell’interesse protetto dalla norma.

Si è detto ad inizio capitolo che la principale obiezione mossa contro la teoria oggettivistica è quella per cui essa legittimerebbe le testimonianze create ad hoc per provare fatti veri. Certo non vi è dubbio che sia responsabile di falsità chi dichiara falsamente di aver visto un soggetto in un luogo determinato, essendo assolutamente certo che tale soggetto in quel luogo vi si trovava realmente. D’altro canto, come visto, alcuni esponenti della dottrina ritengono che il falso debba essere tale non solo dal punto di vista soggettivo, ma anche da quello oggettivo, affinché la condotta oggetto del reato possa essere punita. Le due affermazioni, a ben vedere, sono di per sé compatibili.

Poniamo ad esempio che Tizio, persona indagata per omicidio, si trovasse in un luogo diverso dal locus commissi delicti al momento del reato, e che Caio, chiamato a testimoniare nel processo, dichiari di aver visto Tizio in questo luogo differente, pur non avendolo visto effettivamente con i suoi occhi; è l’ipotesi della falsa convalida di un alibi corrispondente al vero oggettivo. Ad un’attenta lettura, le dichiarazioni apparentemente conformi al vero oggettivo, sono in realtà oggettivamente false, e non solo soggettivamente: infatti se il dichiarante afferma una diretta percezione di fatti in realtà non percepiti, se, nell’esempio precedente, Caio afferma di “aver visto” Tizio in un luogo in cui egli non c’era, la dichiarazione sarà comunque oggettivamente falsa, pur se essa conferma un alibi veritiero.

E’ stato infine sollevato il problema del dubbio del dichiarante: certamente lo stato della cognizione del testimone influisce sul giudizio di falsità. Quindi chi riferisce come dubbio un fatto di cui è sicuro, pone in essere la condotta di negazione del vero. Specularmente, afferma il falso chi riferisce come sicuro un fatto di cui non ha certezza. In entrambi i casi il soggetto potrà rispondere del delitto.