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I limiti al diritto all’autodeterminazione terapeutica e l’ammissibilità del diritto a morire nel nostro ordinamento

Ogni consociato è titolare della libertà di autoregolamentare i propri interessi sia patrimoniali che non patrimoniali. Tra gli interessi del primo tipo rientrano quelli modificativi della consistenza del proprio patrimonio materiale (mediante l’utilizzo di strumenti giuridici quali contratti, testamento, promesse unilaterali) mentre tra i secondi rientrano quelli inerenti il cosiddetto patrimonio morale od esistenziale della persona (diritto all’immagine, diritto alla protezione dei dati personali, diritto all’identità personale, e il diritto all’autodeterminazione terapeutica).

Gli interessi del secondo gruppo trovano il proprio fondamento costituzionale, in via generale, nell’art. 2, primo comma, dove si stabilisce che “….la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle forme sociali, ove si svolge la sua personalità….” e, in dettaglio, nelle singole norme della Costituzione presenti nella prima parte della stessa.

I diritti fondamentali della persona[1] possono essere liberamente regolamentati dal loro titolare in funzione delle concrete esigenze in cui essi vengono in rilievo. Difatti la libera disponibilità di questi può essere a titolo oneroso o gratuito, quando, mediante lo strumento contrattuale, la persona mira a lucrare profitti economici autorizzando terzi allo sfruttamento economico (es. contratto di sponsorizzazione) della propria immagine o del proprio nome o essere mera condizione di ammissibilità e liceità per l’intrusione di terzi nella propria sfera esistenziale o intimistica (diritto al trattamento dei propri dati personali, diritto alla tutela della propria intimità).

Diritto inviolabile dell’individuo è anche quello alla tutela della propria integrità fisio-psichica e, di conseguenza, anche il diritto a curarsi e a migliorare il proprio benessere fisiopsichico.

Tale diritto[2] trova il proprio fondamento normativo nell’art. 32 della Grundnorm dove si stabilisce che “….la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti…”.

Ogni consociato ha, quindi, un interesse legittimo a che lo Stato organizzi in maniera efficiente ed adeguata il servizio sanitario e un diritto soggettivo, che ha i caratteri dell’assolutezza, imprescrittibilità, inusucapibilità, al rispetto della propria integrità fisica e psichica sia da parte dei terzi e sia da parte dello Stato che non possono intrudersi, salvo specifiche e tassative disposizioni di legge e salvo consenso specifico ed informato dello stesso soggetto, nella sfera di volizione del soggetto in ordine alla “disciplina” della propria salute e del proprio modus vivendi (nessun medico potrebbe intervenire, ad esempio, nei confronti della gestante che fuma un pacchetto di sigarette al giorno).

Questo diritto, sebbene assoluto, non gode dell’attributo della indisponibilità, come del resto tutti quelli inerenti la personalità dell’essere umano, in quanto, seppur con certi limiti, può essere liberamente disposto dal titolare purchè sia funzionalizzato a scopi leciti e meritevoli di tutela da parte dell’ordinamento.

Il diritto a curarsi per il miglioramento della proprio benessere fisiopsichico rappresenta il “braccio armato” del diritto alla salute ed è un diritto personalissimo che solo il suo titolare può azionare. La salute è, quindi, un interesse individuale ma, in determinate ipotesi, può incidere anche su interessi della collettività per cui è necessario l’intervento dello Stato per evitare che talune patologie possano incidere sulla salvaguardia delle giovani generazioni o sulla tutela della tranquillità pubblica (pensiamo alle vaccinazioni obbligatorie o ai trattamenti sanitari su persone psichicamente labili e, per questo, pericolose socialmente). Del resto l’art. 32, secondo comma, afferma che “….nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana…” per cui, a parte le ipotesi di trattamento sanitario obbligatorio, soltanto il privato può scegliere se e come curarsi.

Del resto la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, approvata a Nizza il 7 dicembre 2000, all’art.2 stabilisce che “ogni individuo ha diritto alla propria integrità fisica e psichica. Nell’ambito della medicina e della biologia devono essere in particolare rispettati il consenso libero ed informato della persona interessata…” mentre la legge n.180 del 1978, all’art. 1 afferma che “gli accertamenti e i trattamenti sanitari sono volontari…”.

Anche queste norme consacrano, in definitiva, il diritto all’autodeterminazione terapeutica omettendo, tuttavia, di stabilirne la portata e i suoi limiti.

In dottrina e in giurisprudenza si sono, pertanto, posti numerosi interrogativi: 1) il diritto all’autodeterminazione terapeutica comprende anche la scelta di quali cure vanno somministrate e il tipo di intervento che il medico può compiere?;2) il diritto alla “disciplina” della propria salute comprende anche quello alla revoca della somministrazione di tali cure e il diritto a non curarsi più che trasmodi in quello a morire?; 3) quali sono i rapporti tra il diritto a morire e quello alla vita?; 4) che ruolo ha l’operatore sanitario in tale delicato conflitto d’interessi che va necessariamente composto?è un mero nudus minister del paziente? o può prendere delle decisioni che contrastino, nell’ottica di un bilanciamento d’interessi funzionale alla miglior soddisfazione del caso concreto, con il volere del paziente?

Per rispondere a tutti questi interrogativi occorre prima stabilire quali sono i caratteri strutturali all’autodeterminazione terapeutica nonché, di conseguenza, i suoi limiti.

Il privato può consentire interventi invasivi sul proprio corpo soltanto quando sussistano oggettivamente delle esigente curative che impongano l’intervento della scienza medica per cui non saranno ammissibili mutilazioni o lesioni del proprio corpo per finalità diverse, anche se vi è un consenso effettivo del titolare del diritto alla salute, da quelle di un miglioramento del proprio benessere fisiopsichico. Del resto proprio per questi motivi la legge n.6 del 9 gennaio 2006 ha sanzionato, anche con rigorose sanzioni penali, tutte quelle pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili stabilendo che “….chiunque, in assenza di esigenze terapeutiche, cagiona una mutilazione degli organi genitali femminili o, in assenza di esigenze terapeutiche, provoca, al fine di menomare le funzioni sessuali, lesioni agli organi genitali femminili da cui deriva una malattia nel corpo o nella mente….” mentre altri interventi normativi hanno disciplinato i casi in cui sia ammissibile un trapianto salvavita quando un soggetto, non per esigenze terapeutiche, chiede l’espianto di un suo organo per garantire la sopravvivenza di un terza persona (di solito un parente). In questi casi l’ordinamento tollera interventi invasivi sull’organismo di un certo soggetto quando questi mette a rischio la propria salute per la salvaguardia di un diverso interesse ritenuto lecito dall’ordinamento.

Queste norme sono una concretizzazione dell’art.5 del codice civile il quale stabilisce che “….gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una diminuzione permanente della integrità fisica, o quando siano altrimenti contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume…”.

Lo scopo terapeutico impone, quindi, al privato di rivolgersi alle strutture sanitarie per l’erogazione di servizi sia di tipo diagnostico che terapeutico. Si instaura in tal modo un contatto sociale qualificato (che se comporta un ricovero temporaneo in strutture sanitarie specializzate assume le sembianze di un contratto atipico ma socialmente tipico chiamato contratto di “spedalità”) tra il privato e l’operatore sanitario che è fonte di obblighi per entrambe le parti. Per il privato sorge l’obbligo sia di pagare il corrispettivo della prestazione professionale (in caso di prestazioni specializzate non esenti o non erogate dal S.S.N.) e sia l’obbligo di collaborare, secondo buona fede e correttezza, alla buona riuscita della cura prescritta dal medico rispettando tutte le prescrizioni e tutte le richieste dell’operatore sanitario. Quest’obbligo presuppone che il consenso del privato sia presente non solo in tutta la fase precontrattuale ma anche in quella esecutiva del contratto terapeutico. L’operatore sanitario, invece, ha l’obbligo di informare[3] in maniera esauriente e dettagliata del tipo di cura a cui verrà sottoposto il paziente, dei suoi eventuali rischi e dei prevedibili vantaggi nonché delle possibili alternative terapeutiche. Quest’obbligo d’informazione va adeguato all’età e all’istruzione del paziente affinchè questi sia pienamente consapevole delle conseguenze, sia vantaggiose che pregiudizievoli, a cui va incontro.

Il consenso deve essere informato perché altrimenti è come se non ci fosse mai stato. Secondo la giurisprudenza un consenso “al buio” non è ammissibile per una molteplicità di motivi: 1) il bene della salute è un bene primario per ogni individuo perché solo la salute riesce a garantire al soggetto una vita dinamica sia a livello relazionale che sociale; 2) una corretta informazione rende realmente libera e piena l’esplicazione dell’autodeterminazione terapeutica; 3) solo un consenso informato può consentire al soggetto di decidere, anche durante l’esecuzione del contratto terapeutico, un mutamento della cura o un diverso intervento terapeutico.

La giurisprudenza arriva a queste conclusioni sia valorizzando l’importanza del bene salute e sia la libertà, per il suo carattere personale, di revocare o modificare ogni consenso alla sua lesione, anche se finalizzato a scopi terapeutici. Il medico deve rispettare la volontà del paziente anche quando sa, in base a quanto risulta dai protocolli medici e da leggi statistiche e scientifiche, che la revoca del consenso alle cure mediche potrebbe portare il soggetto all’aggravamento della malattia o, addirittura, alla sua morte. Il medico, quindi, potrà soltanto invitare il paziente a valutare per bene la propria volontà di revoca o modifica delle cure prospettandogli i rischi per la propria vita o, soltanto, il peggioramento della stessa sul piano dinamico relazionale. Non potrà, invece, forzatamente eseguire, contro la volontà del paziente, le cure mediche assentite all’inizio del rapporto contrattuale né alcun giudice potrà ordinare al medico di eseguirla. Si tratta, quindi, di prestazioni infungibili che non sono suscettibili di esecuzione forzata né suscettibili di risarcimento del danno per equivalente.

La prestazione del consenso e la sua eventuale revoca sono validi ed efficaci quando il capace che lo presta sia capace di intendere e di volere a prescindere dall’età raggiunta. I veri problemi si pongono quando il soggetto che ha bisogno di cure sia incapace di intendere e di volere e sia, quindi, incapace di apprezzare la reale portata invasiva delle cure mediche da apprestare nonché la loro utilità terapeutica.

Lo stato d’incapacità può essere preesistente al consenso (che se dato sarà, pertanto, invalido) quando il soggetto sia minore e non ancora sufficientemente maturo per prendere decisioni sulla sua salute (es. l’infante o il sedicenne immaturo) o se il soggetto sia stato interdetto o inabilitato ovvero sottoposto ad amministrazione di sostegno nonché successivo al suo consenso quando il soggetto si trovi in tale stato o per l’aggravamento della malattia o perché si trovi in stato comatoso o in momentanea perdita delle funzioni celebrali (il soggetto sottoposto ad anestesia).

Nella prima ipotesi saranno i titolari della potestà legale del soggetto incapace a valutare la necessità o meno di tali cure. Tale scelta dei tutori del minore o dell’incapace (in caso di amministrazione di sostegno si dovrà valutare se l’amministratore sia autorizzato anche a prestare il consenso in caso di esigenze terapeutiche che si pongono per il beneficiario) può essere sottoposta al vaglio del giudice tutelare che potrà prendere anche una decisione divergente rispetto a quella del tutore perché più aderente all’interesse del minore. Il problema, ad esempio, si è posto nel caso dei genitori che avevano rifiutato il trattamento trasfusionale alla propria bambina per motivi religiosi (interesse tutelato a sua volta in Grundnorm) per cui si pose il problema di valutare se fosse prevalente il diritto alla libertà di autodeterminazione terapeutica della propria bimba, seppur mediante l’interposizione dei propri rappresentanti legali, oppure il diritto alla vita.

Nel caso di specie il giudice tutelare fece prevalere il diritto alla vita della bambina per vari motivi: 1) la bambina per la sua giovanissima età non poteva dare alcun valido consenso alla cura trasfusionale dato che, anche prima dell’acquisizione del suo stato d’incapacità, non era in grado di dare alcuna indicazione, mediante analisi delle sue abitudini di vita e del suo percorso cultuale, su un eventuale consenso (presunto) alle cure oggetto di causa; 2) il diritto alla libertà di religione (tutelato ex art.21 Cost.) soccombe rispetto a quello alla vita (tutelato agli art.2, 3 e 32 della Costituzione) perché al nostro ordinamento ripugna un diritto a morire ovvero un diritto a lasciarsi morire. Il nostro ordinamento, ad esempio, condanna con pene rigorosissime i reati di omicidio e quello di lesioni nonché quello di omicidio del consenziente (art.579 c.p.) ovvero l’istigazione o aiuto al suicidio. Del resto l’ordinamento non riconosce il diritto a non nascere o a non nascere se non sani (riconosciuto, ad esempio, in Francia) e autorizza l’interruzione della gravidanza soltanto quando questa possa provocare danni gravi alla salute fisiopsichica della donna. Inoltre l’art.5 del c.c. ritiene ripugnanti ed illeciti quegli atti di disposizione del proprio corpo quando cagionino una diminuzione permanente dell’integrità fisica comprendendo tra questi anche quelli che mirino alla distruzione totale della salute, ossia la morte.

Il vero problema si pone in realtà quando il privato che presta il consenso sia pienamente capace d’intendere e di volere e successivamente, revocandolo, si lasci andare e muoia.

Secondo parte della dottrina e della giurisprudenza esiste nel nostro ordinamento un diritto a morire basato sulle seguenti argomentazioni: 1) non esiste espressamente un diritto alla vita ma un generico diritto alla salute (art.32 Cost.); 2) il legislatore sanziona penalmente soltanto l’aiuto o l’istigazione al suicidio ma non il tentato suicidio; 3) la libertà di autodeterminazione terapeutica implica perciò solo la scelta di morire come migliore cura contro malattie totalmente invalidanti della persona o destinate a degenerare e a condurre ad una rapida morte.

Quindi se un soggetto abbia dichiarato, anche in maniera implicita, di desiderare la morte e, perciò solo, rifiuta ogni tipo di cura nessun operatore sanitario dovrebbe intervenire a pena di una sua responsabilità penale ex art.610 c.p. per violenza privata.

Questo orientamento è stato seguito di recente nel caso Englaro[4] seppur con argomentazioni parzialmente diverse.

Secondo altra impostazione dottrinaria e giurisprudenziale[5], che resta ancora quella maggioritaria, il medico deve intervenire per salvare a tutti i costi il paziente che si lasci morire per cui il suo comportamento salvifico sarà scriminato ex art.51 (adempimento del dovere) e ex art.54 (stato di necessità). Se, invece, il medico aiuta il malato a morire questi potrebbe essere accusato di omicidio del consenziente o, in caso di mancata attivazione di tutti gli strumenti idonei a salvarlo, per omicidio volontario (art.575 c.p.) ovvero, in caso di negligente esecuzione degli interventi sanitari idonei a salvarlo, per omicidio colposo (art.589 c.p.).

Queste problematiche toccano aspetti umani ed esistenziali che il mondo giuridico non può risolvere da solo per cui è necessario un intervento del legislatore al riguardo.



[1] http://it.wikipedia.org/wiki/Libert%C3%A0_e_diritti_fondamentali

[2] L’importanza attuale del diritto alla salute è stata affermata, ad esempio, da TRIBUNALE DI SALERNO, Sez. I, 28 aprile 2007, Ordinanza n. 1189

[3] TRIBUNALE DI MARSALA, 20/02/2008

[4] Cassazione Civile n.21748/2007

[5] Tribunale Roma ordinanza 16/12/2006

Ogni consociato è titolare della libertà di autoregolamentare i propri interessi sia patrimoniali che non patrimoniali. Tra gli interessi del primo tipo rientrano quelli modificativi della consistenza del proprio patrimonio materiale (mediante l’utilizzo di strumenti giuridici quali contratti, testamento, promesse unilaterali) mentre tra i secondi rientrano quelli inerenti il cosiddetto patrimonio morale od esistenziale della persona (diritto all’immagine, diritto alla protezione dei dati personali, diritto all’identità personale, e il diritto all’autodeterminazione terapeutica).

Gli interessi del secondo gruppo trovano il proprio fondamento costituzionale, in via generale, nell’art. 2, primo comma, dove si stabilisce che “….la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle forme sociali, ove si svolge la sua personalità….” e, in dettaglio, nelle singole norme della Costituzione presenti nella prima parte della stessa.

I diritti fondamentali della persona[1] possono essere liberamente regolamentati dal loro titolare in funzione delle concrete esigenze in cui essi vengono in rilievo. Difatti la libera disponibilità di questi può essere a titolo oneroso o gratuito, quando, mediante lo strumento contrattuale, la persona mira a lucrare profitti economici autorizzando terzi allo sfruttamento economico (es. contratto di sponsorizzazione) della propria immagine o del proprio nome o essere mera condizione di ammissibilità e liceità per l’intrusione di terzi nella propria sfera esistenziale o intimistica (diritto al trattamento dei propri dati personali, diritto alla tutela della propria intimità).

Diritto inviolabile dell’individuo è anche quello alla tutela della propria integrità fisio-psichica e, di conseguenza, anche il diritto a curarsi e a migliorare il proprio benessere fisiopsichico.

Tale diritto[2] trova il proprio fondamento normativo nell’art. 32 della Grundnorm dove si stabilisce che “….la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti…”.

Ogni consociato ha, quindi, un interesse legittimo a che lo Stato organizzi in maniera efficiente ed adeguata il servizio sanitario e un diritto soggettivo, che ha i caratteri dell’assolutezza, imprescrittibilità, inusucapibilità, al rispetto della propria integrità fisica e psichica sia da parte dei terzi e sia da parte dello Stato che non possono intrudersi, salvo specifiche e tassative disposizioni di legge e salvo consenso specifico ed informato dello stesso soggetto, nella sfera di volizione del soggetto in ordine alla “disciplina” della propria salute e del proprio modus vivendi (nessun medico potrebbe intervenire, ad esempio, nei confronti della gestante che fuma un pacchetto di sigarette al giorno).

Questo diritto, sebbene assoluto, non gode dell’attributo della indisponibilità, come del resto tutti quelli inerenti la personalità dell’essere umano, in quanto, seppur con certi limiti, può essere liberamente disposto dal titolare purchè sia funzionalizzato a scopi leciti e meritevoli di tutela da parte dell’ordinamento.

Il diritto a curarsi per il miglioramento della proprio benessere fisiopsichico rappresenta il “braccio armato” del diritto alla salute ed è un diritto personalissimo che solo il suo titolare può azionare. La salute è, quindi, un interesse individuale ma, in determinate ipotesi, può incidere anche su interessi della collettività per cui è necessario l’intervento dello Stato per evitare che talune patologie possano incidere sulla salvaguardia delle giovani generazioni o sulla tutela della tranquillità pubblica (pensiamo alle vaccinazioni obbligatorie o ai trattamenti sanitari su persone psichicamente labili e, per questo, pericolose socialmente). Del resto l’art. 32, secondo comma, afferma che “….nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana…” per cui, a parte le ipotesi di trattamento sanitario obbligatorio, soltanto il privato può scegliere se e come curarsi.

Del resto la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, approvata a Nizza il 7 dicembre 2000, all’art.2 stabilisce che “ogni individuo ha diritto alla propria integrità fisica e psichica. Nell’ambito della medicina e della biologia devono essere in particolare rispettati il consenso libero ed informato della persona interessata…” mentre la legge n.180 del 1978, all’art. 1 afferma che “gli accertamenti e i trattamenti sanitari sono volontari…”.

Anche queste norme consacrano, in definitiva, il diritto all’autodeterminazione terapeutica omettendo, tuttavia, di stabilirne la portata e i suoi limiti.

In dottrina e in giurisprudenza si sono, pertanto, posti numerosi interrogativi: 1) il diritto all’autodeterminazione terapeutica comprende anche la scelta di quali cure vanno somministrate e il tipo di intervento che il medico può compiere?;2) il diritto alla “disciplina” della propria salute comprende anche quello alla revoca della somministrazione di tali cure e il diritto a non curarsi più che trasmodi in quello a morire?; 3) quali sono i rapporti tra il diritto a morire e quello alla vita?; 4) che ruolo ha l’operatore sanitario in tale delicato conflitto d’interessi che va necessariamente composto?è un mero nudus minister del paziente? o può prendere delle decisioni che contrastino, nell’ottica di un bilanciamento d’interessi funzionale alla miglior soddisfazione del caso concreto, con il volere del paziente?

Per rispondere a tutti questi interrogativi occorre prima stabilire quali sono i caratteri strutturali all’autodeterminazione terapeutica nonché, di conseguenza, i suoi limiti.

Il privato può consentire interventi invasivi sul proprio corpo soltanto quando sussistano oggettivamente delle esigente curative che impongano l’intervento della scienza medica per cui non saranno ammissibili mutilazioni o lesioni del proprio corpo per finalità diverse, anche se vi è un consenso effettivo del titolare del diritto alla salute, da quelle di un miglioramento del proprio benessere fisiopsichico. Del resto proprio per questi motivi la legge n.6 del 9 gennaio 2006 ha sanzionato, anche con rigorose sanzioni penali, tutte quelle pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili stabilendo che “….chiunque, in assenza di esigenze terapeutiche, cagiona una mutilazione degli organi genitali femminili o, in assenza di esigenze terapeutiche, provoca, al fine di menomare le funzioni sessuali, lesioni agli organi genitali femminili da cui deriva una malattia nel corpo o nella mente….” mentre altri interventi normativi hanno disciplinato i casi in cui sia ammissibile un trapianto salvavita quando un soggetto, non per esigenze terapeutiche, chiede l’espianto di un suo organo per garantire la sopravvivenza di un terza persona (di solito un parente). In questi casi l’ordinamento tollera interventi invasivi sull’organismo di un certo soggetto quando questi mette a rischio la propria salute per la salvaguardia di un diverso interesse ritenuto lecito dall’ordinamento.

Queste norme sono una concretizzazione dell’art.5 del codice civile il quale stabilisce che “….gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una diminuzione permanente della integrità fisica, o quando siano altrimenti contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume…”.

Lo scopo terapeutico impone, quindi, al privato di rivolgersi alle strutture sanitarie per l’erogazione di servizi sia di tipo diagnostico che terapeutico. Si instaura in tal modo un contatto sociale qualificato (che se comporta un ricovero temporaneo in strutture sanitarie specializzate assume le sembianze di un contratto atipico ma socialmente tipico chiamato contratto di “spedalità”) tra il privato e l’operatore sanitario che è fonte di obblighi per entrambe le parti. Per il privato sorge l’obbligo sia di pagare il corrispettivo della prestazione professionale (in caso di prestazioni specializzate non esenti o non erogate dal S.S.N.) e sia l’obbligo di collaborare, secondo buona fede e correttezza, alla buona riuscita della cura prescritta dal medico rispettando tutte le prescrizioni e tutte le richieste dell’operatore sanitario. Quest’obbligo presuppone che il consenso del privato sia presente non solo in tutta la fase precontrattuale ma anche in quella esecutiva del contratto terapeutico. L’operatore sanitario, invece, ha l’obbligo di informare[3] in maniera esauriente e dettagliata del tipo di cura a cui verrà sottoposto il paziente, dei suoi eventuali rischi e dei prevedibili vantaggi nonché delle possibili alternative terapeutiche. Quest’obbligo d’informazione va adeguato all’età e all’istruzione del paziente affinchè questi sia pienamente consapevole delle conseguenze, sia vantaggiose che pregiudizievoli, a cui va incontro.

Il consenso deve essere informato perché altrimenti è come se non ci fosse mai stato. Secondo la giurisprudenza un consenso “al buio” non è ammissibile per una molteplicità di motivi: 1) il bene della salute è un bene primario per ogni individuo perché solo la salute riesce a garantire al soggetto una vita dinamica sia a livello relazionale che sociale; 2) una corretta informazione rende realmente libera e piena l’esplicazione dell’autodeterminazione terapeutica; 3) solo un consenso informato può consentire al soggetto di decidere, anche durante l’esecuzione del contratto terapeutico, un mutamento della cura o un diverso intervento terapeutico.

La giurisprudenza arriva a queste conclusioni sia valorizzando l’importanza del bene salute e sia la libertà, per il suo carattere personale, di revocare o modificare ogni consenso alla sua lesione, anche se finalizzato a scopi terapeutici. Il medico deve rispettare la volontà del paziente anche quando sa, in base a quanto risulta dai protocolli medici e da leggi statistiche e scientifiche, che la revoca del consenso alle cure mediche potrebbe portare il soggetto all’aggravamento della malattia o, addirittura, alla sua morte. Il medico, quindi, potrà soltanto invitare il paziente a valutare per bene la propria volontà di revoca o modifica delle cure prospettandogli i rischi per la propria vita o, soltanto, il peggioramento della stessa sul piano dinamico relazionale. Non potrà, invece, forzatamente eseguire, contro la volontà del paziente, le cure mediche assentite all’inizio del rapporto contrattuale né alcun giudice potrà ordinare al medico di eseguirla. Si tratta, quindi, di prestazioni infungibili che non sono suscettibili di esecuzione forzata né suscettibili di risarcimento del danno per equivalente.

La prestazione del consenso e la sua eventuale revoca sono validi ed efficaci quando il capace che lo presta sia capace di intendere e di volere a prescindere dall’età raggiunta. I veri problemi si pongono quando il soggetto che ha bisogno di cure sia incapace di intendere e di volere e sia, quindi, incapace di apprezzare la reale portata invasiva delle cure mediche da apprestare nonché la loro utilità terapeutica.

Lo stato d’incapacità può essere preesistente al consenso (che se dato sarà, pertanto, invalido) quando il soggetto sia minore e non ancora sufficientemente maturo per prendere decisioni sulla sua salute (es. l’infante o il sedicenne immaturo) o se il soggetto sia stato interdetto o inabilitato ovvero sottoposto ad amministrazione di sostegno nonché successivo al suo consenso quando il soggetto si trovi in tale stato o per l’aggravamento della malattia o perché si trovi in stato comatoso o in momentanea perdita delle funzioni celebrali (il soggetto sottoposto ad anestesia).

Nella prima ipotesi saranno i titolari della potestà legale del soggetto incapace a valutare la necessità o meno di tali cure. Tale scelta dei tutori del minore o dell’incapace (in caso di amministrazione di sostegno si dovrà valutare se l’amministratore sia autorizzato anche a prestare il consenso in caso di esigenze terapeutiche che si pongono per il beneficiario) può essere sottoposta al vaglio del giudice tutelare che potrà prendere anche una decisione divergente rispetto a quella del tutore perché più aderente all’interesse del minore. Il problema, ad esempio, si è posto nel caso dei genitori che avevano rifiutato il trattamento trasfusionale alla propria bambina per motivi religiosi (interesse tutelato a sua volta in Grundnorm) per cui si pose il problema di valutare se fosse prevalente il diritto alla libertà di autodeterminazione terapeutica della propria bimba, seppur mediante l’interposizione dei propri rappresentanti legali, oppure il diritto alla vita.

Nel caso di specie il giudice tutelare fece prevalere il diritto alla vita della bambina per vari motivi: 1) la bambina per la sua giovanissima età non poteva dare alcun valido consenso alla cura trasfusionale dato che, anche prima dell’acquisizione del suo stato d’incapacità, non era in grado di dare alcuna indicazione, mediante analisi delle sue abitudini di vita e del suo percorso cultuale, su un eventuale consenso (presunto) alle cure oggetto di causa; 2) il diritto alla libertà di religione (tutelato ex art.21 Cost.) soccombe rispetto a quello alla vita (tutelato agli art.2, 3 e 32 della Costituzione) perché al nostro ordinamento ripugna un diritto a morire ovvero un diritto a lasciarsi morire. Il nostro ordinamento, ad esempio, condanna con pene rigorosissime i reati di omicidio e quello di lesioni nonché quello di omicidio del consenziente (art.579 c.p.) ovvero l’istigazione o aiuto al suicidio. Del resto l’ordinamento non riconosce il diritto a non nascere o a non nascere se non sani (riconosciuto, ad esempio, in Francia) e autorizza l’interruzione della gravidanza soltanto quando questa possa provocare danni gravi alla salute fisiopsichica della donna. Inoltre l’art.5 del c.c. ritiene ripugnanti ed illeciti quegli atti di disposizione del proprio corpo quando cagionino una diminuzione permanente dell’integrità fisica comprendendo tra questi anche quelli che mirino alla distruzione totale della salute, ossia la morte.

Il vero problema si pone in realtà quando il privato che presta il consenso sia pienamente capace d’intendere e di volere e successivamente, revocandolo, si lasci andare e muoia.

Secondo parte della dottrina e della giurisprudenza esiste nel nostro ordinamento un diritto a morire basato sulle seguenti argomentazioni: 1) non esiste espressamente un diritto alla vita ma un generico diritto alla salute (art.32 Cost.); 2) il legislatore sanziona penalmente soltanto l’aiuto o l’istigazione al suicidio ma non il tentato suicidio; 3) la libertà di autodeterminazione terapeutica implica perciò solo la scelta di morire come migliore cura contro malattie totalmente invalidanti della persona o destinate a degenerare e a condurre ad una rapida morte.

Quindi se un soggetto abbia dichiarato, anche in maniera implicita, di desiderare la morte e, perciò solo, rifiuta ogni tipo di cura nessun operatore sanitario dovrebbe intervenire a pena di una sua responsabilità penale ex art.610 c.p. per violenza privata.

Questo orientamento è stato seguito di recente nel caso Englaro[4] seppur con argomentazioni parzialmente diverse.

Secondo altra impostazione dottrinaria e giurisprudenziale[5], che resta ancora quella maggioritaria, il medico deve intervenire per salvare a tutti i costi il paziente che si lasci morire per cui il suo comportamento salvifico sarà scriminato ex art.51 (adempimento del dovere) e ex art.54 (stato di necessità). Se, invece, il medico aiuta il malato a morire questi potrebbe essere accusato di omicidio del consenziente o, in caso di mancata attivazione di tutti gli strumenti idonei a salvarlo, per omicidio volontario (art.575 c.p.) ovvero, in caso di negligente esecuzione degli interventi sanitari idonei a salvarlo, per omicidio colposo (art.589 c.p.).

Queste problematiche toccano aspetti umani ed esistenziali che il mondo giuridico non può risolvere da solo per cui è necessario un intervento del legislatore al riguardo.



[1] http://it.wikipedia.org/wiki/Libert%C3%A0_e_diritti_fondamentali

[2] L’importanza attuale del diritto alla salute è stata affermata, ad esempio, da TRIBUNALE DI SALERNO, Sez. I, 28 aprile 2007, Ordinanza n. 1189

[3] TRIBUNALE DI MARSALA, 20/02/2008

[4] Cassazione Civile n.21748/2007

[5] Tribunale Roma ordinanza 16/12/2006