Il bistrattato intelletto

Natura
Ph. Anuar Arebi / Natura

Apro ancora una volta la finestra che affaccia sul mondo antico: il mio sguardo si imbatte in uomini affaccendati che percorrono una Roma dorata. I latini erano soliti dire “satura tota nostra est!”, per cercare di competere con la varietà e molteplicità della letteratura greca, in un’eterna lotta tra culture - più nostra che loro -; ed è proprio attraverso la satira, anzi attraverso una satira, che analizzeremo la condizione degli intellettuali del tempo.

La settima[1] satira del terzo libro di Giovenale determina una svolta rispetto alle precedenti. Se i temi cardine affrontati non mutano sostanzialmente, l’indignatio del poeta si attenua e cede gradualmente il passo ad un comportamento più ironico. L’atteggiamento satirico qui infatti non solo compiange, ma irride i bersagli dell’opera. Tale satira è l'emblema di detto atteggiamento e testimonia la crisi degli intellettuali del tempo.

Dopo gli splendori dell’età augustea infatti, i letterati avevano risentito della loro condizione di subalternità al potere; il clientes risultava essere misero a causa della crisi del patronato che metteva in condizione di indigenza il patrono, sempre meno incline ad elargire denaro.

Giovenale attraverso cinque categorie di intellettuali – poeti, storici, avvocati, retori e grammatici - illustra le conseguenze dure di chi non può vivere solo di lodi.

La rassegna, dopo aver affrontato la categoria di poeti e storici, fannulloni e quindi meritevoli di indigenza, approda agli avvocati, che nonostante la loro costante attività, risultano miseri come i precedenti. Il poeta li descrive sempre alla ricerca di cause da perorare, anche irrisorie, mentre perdono la salute, davanti a sciocchi giudici per pochi spiccioli.

Costoro fanno risuonare grandi cifre, ma soprattutto quando c’è un creditore ad ascoltarli, o se li punzecchia sul fianco un altro ancora più animato di quello, venuto con un enorme registro a reclamare un debito controverso. Allora i cavernosi mantici soffiano fuori menzogne smisurate, ed il loro petto si riempie di sputi; se però vuoi sapere qual è il loro vero raccolto, metti da una parte i patrimoni di cento avvocati, dall’altra soltanto quello di Lacerta[2], della squadra dei rossi. vv. (108-114)

I capi sono seduti e tu, pallido Aiace[3], ti alzi per sostenere una causa di dubbio stato libero, con un bifolco come giudice. Rompiti il fegato per la tensione, povero stupido, perché in onore della tua fatica vengano appese verdi palme, gloria delle tue scale. Ma qual è il compenso per la tua eloquenza? Un prosciuttino rinsecchito e un vasetto di tonno, o vecchie cipolle, […], oppure vino portato giù dal Tevere, cinque bottiglie. (vv. 115-123)

Inoltre, solo chi ostenta prestigio e sfarzo può aspirare a introiti elevati, ma questo comporta il vivere al di sopra delle proprie possibilità, cosa che li conduce alla bancarotta.

Così Pedone fa bancarotta, Matone va in fallimento, […]. Le vesti color ametista fanno vendere bene l’avvocato: vivere con un fasto e un’apparenza di maggior ricchezza gli conviene; senonché la prodiga Roma non sa mantenere un limite alle spese. (vv. 131-138)

Costantemente affaccendati, fanno dell’impegno l’unico senso della loro vita, inutilmente in quanto, conclude, neanche un novello Cicerone riuscirebbe a sopravvivere.

Dovremmo confidare nelle nostre doti oratorie? A Cicerone oggi nessuno darebbe duecento sesterzi, se non gli risplendesse al dito un grosso anello. Sono queste le cose che guarda prima di tutto chi è in causa; se hai otto servi, dieci accompagnatori, se hai dietro una lettiga, e gente in toga che ti cammina davanti. (vv. 139-145)

Rimanendo in tema, approdiamo ora alle parole di Petronio nel suo Satyricon. In uno dei passi più noti dell’opera – la cena Trimalchionis – il liberto Trimalchione[4] recita ai suoi invitati il testo della sua epigrafe funebre dove proclama di essere diventato ricco senza aver mai dato retta a un filosofo, sottolineando l’inutilità della filosofia. In questa sede si riprende uno dei topoi della letteratura del tempo.

L’ironia sul filosofo, sull’intellettuale e sulla sua presunta mancanza di senso pratico è forse antica quanto la disciplina filosofica stessa, come ha fatto notare Hans Blumenberg[5]. Episodi che ritraggono i sapienti con la testa rivolta verso il cielo a discapito delle cose terrene popolano tutta la letteratura antica e nel passo di Petronio vi è proprio un elogio alla praticità della vita a discapito del sapere in sé.

Tu, Agamennone, hai l’aria di voler dire: “Di che cosa va cianciando questo rompiscatole?”. È perché tu che sai parlare non parli. Non sei della nostra risma e per questo te la ridi di quel che dice la povera gente. E con ciò? Lo sappiamo che ti sei rimbecillito con la letteratura. (46, 1, 8)

Infine, e soprattutto, il sapere non deve essere mai fine a se stesso.

Se infatti Giovenale prende di mira anche la povertà degli avvocati, in Petronio vediamo il rigattiere Echione che continua il discorso parlando dell’educazione di suo figlio. Afferma infatti di avergli comprato dei libri di diritto ad uso domestico in quanto assicura il denaro al contrario della sapienza che è un bene solo personale.

Ora ho comprato al ragazzo qualche libro di legge, perché voglio che assaggi un po’ di diritto ad uso domestico. Almeno è una cosa che assicura il pane. Nella letteratura già si è impelagato fin troppo. Se poi non ne vorrà sapere, ho deciso di fargli imparare un mestiere, come il barbiere, il banditore, o senz’altro l’avvocato, roba che solo la morte gliela può togliere. (46, 7, 8)

L’intellettuale non è più dunque guida o interprete della società, bensì uno speculatore che lucra sulla propria conoscenza, la quale è spodestata e spogliata della nobiltà dal vile denaro.

In particolare gli avvocati risultano essere l’emblema di detta capitolazione e al contempo il simbolo dell’incapacità - o forse impossibilità - di ottenere la tanto agognata ricchezza attraverso la prostituzione dell’intelletto.

 

[1] 118-121 d.C.

[2] C. Annio Lacerta, famoso auriga del tempo, noto da un’iscrizione su una lanterna. Inoltre, i rossi e i bianchi erano le fazioni meno importanti, ciò per rafforzare ancor di più la carenza di denaro degli avvocati.

[3] Riferimento alla contesa tra Aiace e Odisseo per le armi di Achille in Ov. Met, 13, 1-398.

[4] (71.6-7, 12).

[5] La caduta del protofilosofo, o La comicità della teoria pura: storia di una ricezione (Der Sturz des Protophilosophen), Parma: Pratiche, 1983.