Il divario digitale italiano: tra zavorra e processo educativo
Il dipartimento fisco e tributi dell’associazione Meritocrazia Italia ha ospitato, nell’ambito delle interazioni e discussioni tematiche, l’intervento di Angelo Lucarella sulla questione “divario digitale” nell’epoca attuale.
Filodiritto ne pubblica l’approfondimento integrale:
“Quel che farà la differenza in termini di sviluppo sostenibile sarà, certamente, il come si concretizzerà il passaggio al total digital: velocità, ambiente, trasparenza.
Queste le principali direttrici su cui si gioca la competitività del nostro Paese su scala internazionale.
Il punto, però, è quanto gli italiani siano educati e preparati a 360 gradi alla gestione totale dei processi informatico-telematici.
Ne abbiamo avuto un assaggio con la pec, poi con la fatturazione elettronica, poi con spid, cashback, ecc.
Dobbiamo necessariamente differenziare tra “automatismo necessario” in determinati ambiti della vita sociale e velocità informatico-telematica non sempre corrispondente all’umana comprensione e sostenibilità.
Se prendessimo ad esempio, per un attimo, il sistema di notificazione tramite pec ci troveremmo dinanzi ad un paradosso: l’utilità sistemica in ordine alla certezza della notifica non presuppone che il destinatario abbia, anzitutto, assimilato tutti i saperi di gestione, di lettura, di conservazione, ecc.
Quante partite iva, il più medio-piccole ovviamente, si sono travate a barcamenarsi nell’era delle pec (ancora oggi tantissime in verità) senza che lo Stato abbia avuto la minima sensibilità di porre in essere campagne educative per il piccolo imprenditore (il ché non significa che siano tutti ignari della conoscenza informatico-telematica)?
Il mondo tributario, specie esattoriale, è ingolfatissimo di contenziosi legati a questo gap: che la Pec sia uno strumento innovativo, futuristico (ormai di vita presente), semplice ed immediato non dobbiamo dimenticare però, d’altra parte, che abbia portato fuori mercato tantissimi artigiani, piccoli imprenditori commerciali e anche del mondo agricolo.
A quest’ultimi si è tramesso il senso di terrore negli anni piuttosto che dell’avanzamento e del progresso sociale: se io Stato non sono capace di far comprendere l’evoluzione tecnologica a servizio dello sviluppo e della crescita rischio l’effetto contrario; ovverosia la perdita di tempo in termini di chance e di adeguamento del mercato ai passi in avanti della scienza.
Viene in mente il ruolo sacro, nella medicina, del c.d. informatore farmaceutico: figura ponte tra la scienza-ricerca ed il medico di prossimità.
Se c’è una sfida che l’Italia deve cogliere è proprio nella prossimità educativo-tecnologica laddove per tale concettualità non va intesa solo la componente scolastica, ma specificamente quella delle attività legate all’iniziativa economica.
Non solo. In realtà tale approccio di prossimità andrebbe rivolto anche alle Pubbliche Amministrazioni (stando alla relazione introduttiva al PNRR - Piano nazionale di ripartenza e resilienza - del Governo Draghi, il 98,8 % dei dipendenti del comparto non privato mai aveva utilizzato il c.d. “lavoro agile” prima della pandemia; il ché la dice lunga sull’approccio informatico manageriale degli Enti pubblici italiani laddove l’indice di efficienza in tale chiave di lettura è tra i più bassi dei c.d. Paesi avanzati).
Ciò sta a significare che il digital divide (ovvero il divario digitale) di cui tanto si discute da anni, per quanto necessariamente da assottigliare il più possibile, deve fare i conti almeno con delle variabili generazionalmente e socialmente costanti:
- il regionalismo competitivo di fatto (effetto del poco politicamente gestito federalismo cooperativo della riforma costituzionale del Titolo V) che, a prescindere in questo momento da colpe o meno da attribuire, è alimentato dall’arretratezza sistemica del mezzogiorno rispetto alle regioni nordiche;
- la polarizzazione sfrenata a cui portano i lavori di alta competenza frutto, appunto, degli effetti dell’iper tecnologismo (si consenta il termine utilizzato per rafforzare l’idea);
- l’assenza di politiche di recupero di coloro che, nel mondo privato, non hanno i mezzi, gli strumenti e le risorse necessarie per fronteggiare da soli il gap di conoscenza utile a rimanere competitivi ed efficienti;
- la difficoltà ad uniformare i livelli educativo-tecnologici rispetto all’avanzamento ed al progresso inarrestabile innescandosi così un effetto domino di duplice matrice (la rinuncia ai profitti della competizione in favore della sopravvivenza per buona fetta delle partite iva, da una parte, e la fuga di molte persone verso l’estero dopo le scuole, l’università o dopo una breve parentesi imprenditoriale o d’impiego lavorativo).
Combattere il divario digitale senza legare il fine rispetto all’innalzamento dei livelli di processo educativo-sociale significa perdere in partenza le chance del cambiamento radicale.
Per quanto il progresso sia inevitabile, di ribadisce, lo è anche o forse di più la capacità di capirlo rispetto all’umanamente sopportabile in un determinato arco temporale.
Allora, in conclusione, quel che sembra doveroso affermare è che il concetto di “zavorra” affibbiato all’arretratezza del sistema Paese italiano lascia una riflessione sulla diversa utilità che si trae dall’etimologia stessa della parola appena menzionata.
La zavorra, in realtà, va considerata non solo in accezione negativa, ma anche positiva se pensiamo che essa identifica, nel mondo marittimo, quel particolare insieme di pesi mobili (solidi o liquidi) che si imbarcano, stabilmente o temporaneamente, sulle navi per assicurarne o migliorarne, in determinate circostanze, la stabilità e l’assetto.
Illudersi di eliminare le zavorre solo con la creazione di una nave migliore, frutto di sacrifici di scienza, è da Paese poco serio perché è l’equipaggio che contribuisce alle sorti d’efficienza nella navigazione; salvo che questa nave-Paese non diventi del tutto automatica.
Ma l’automatismo totalizzante ha in sé molti rischi poiché significa ripensare del tutto l’umanità; ammesso che, tecnologicamente, si avrà ancora la possibilità di farlo.
Combattere il divario digitale deve significare mettere al centro la persona umana in una dimensione consapevole ed educata all’approccio.
Diversamente si rischia di far rimanere indietro tanta gente. Soprattutto non garantita.
Dall’essere zavorra al verificarsi di un ammutinamento è questione di equilibri: immaginiamo il comandante di vascello che nell’impartire rotte ed ordini non riesca a farsi capire dal proprio equipaggio poiché, a titolo di esempio, la marina di appartenenza ha scelto di educare solo una persona al conoscere il linguaggio e gli strumenti avanzati utilizzati per navigare”.
Per tenere unito il Paese, quindi, non basta richiamare a comodo l’articolo 5 della Costituzione, ma occorre che quanto scritto nelle scelte politico-normative sia comprensibile, effettivamente, nella vita reale, quantomeno, alla maggior parte degli italiani in ragione delle circostanze del tempo e delle necessità sociali.