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Il fenomeno della collaborazione con lo Stato

Evoluzione storica e legislativa
Il fenomeno della collaborazione con lo Stato
Il fenomeno della collaborazione con lo Stato

I Parte

La complessità del fenomeno del pentitismo ed i risvolti di attualità che esso presenta sono da sempre oggetto di una costante attenzione, sia da parte degli osservatori istituzionali, sia dell’opinione pubblica.

Tale attenzione, ravvivata spesso da episodi di cronaca che hanno visto per protagonisti i c.d. “pentiti”, ha suscitato da tempo un processo di riflessione sulla legislazione in materia, nonché sulla necessità di una sua periodica revisione, attesa la particolare natura del fenomeno.  Non si può negare, infatti, la complessità e varietà delle questioni che sono, oramai,  ad esso connesse.

Ebbene, la legge 13 febbraio 2001 n. 45 non si è limitata ad innovare profondamente il sistema di protezione dei soggetti che collaborano con la giustizia previsto dalla legge 15 marzo 1991, n. 82, ma ha ridefinito completamente l’istituto dettando una complessiva ed articolata disciplina della gestione di tali soggetti,  soprattutto sotto il profilo processuale.[1]

Si tratta, a ben vedere, di norme da lungo tempo attese dagli operatori del diritto ed in particolare dalla magistratura inquirente, data l’oramai diffusa consapevolezza della inadeguatezza, rispetto alle caratteristiche assunte dal fenomeno ed alla sua complessità, di una legge che dava chiaramente per presupposta l’eccezionalità della rottura del vincolo di omertà da parte di soggetti aderenti ad associazioni criminali, e della necessità di un sistema di protezione e premiale correlato alla loro collaborazione.

La  legge 45/2001, come vedremo nei capitoli successivi, oltre a tentare di razionalizzare sul piano normativo l’intero sistema, frutto di interventi legislativi frammentati nel tempo, ha avuto il merito di differenziare la disciplina dei collaboratori da quella dei testimoni di giustizia, ossia di quei soggetti che hanno assistito ad un reato o sono le vittime dello stesso e che hanno deciso, compiendo una scelta civile quanto coraggiosa, di riferire le loro conoscenze all’Autorità Giudiziaria.

Tuttavia, nonostante l’intervento di quest’ultimo provvedimento legislativo, manca ancora oggi una regolamentazione complessiva del fenomeno della collaborazione con la giustizia, il che giustifica le richieste rivolte in tal senso da tutti quei magistrati che sono attivamente impegnati nella lotta contro la criminalità organizzata.

La collaborazione con la giustizia rappresenta, nel nostro Paese, il principale mezzo per contrastare le associazioni di stampo mafioso: il potere di Cosa Nostra, della ’Ndrangheta, di Camorra e Sacra Corona Unita non è certo diminuito negli anni: semplicemente ha adottato una diversa e più efficace strategia, non è più lotta frontale allo Stato, posto che la criminalità ha scelto di coesistere in un “pacifico connubio” con le istituzioni democratiche, piuttosto che persistere in uno scontro aperto che l’ha vista perdente. Ed allora, l’auspicio finale sarà teso alla correzione di tutte le incoerenze logico-sistematiche che contraddistinguono alcune delle norme che regolano la materia, e dunque i singoli aspetti della collaborazione con la giustizia; una maggiore coerenza finalizzata a garantire allo Stato una concreta utilità nell’incentivarla e che appaia idonea  a promuovere la dissociazione dei membri della criminalità organizzata, i quali attraverso la promozione di comportamenti dissociativi siano indotti a  scindere ogni legame con le associazioni criminali di appartenenza.

La rottura della compattezza interna alle mafie determinata dal pentitismo, rappresenta oggi il mezzo oltre che per combattere, anche per conoscere la segreta configurazione del sistema mafioso.

Uomini e donne esponenti della politica, appartenenti alla magistratura o alle forze dell’ordine devono la loro vita ai collaboratori, i c.d. pentiti, che con i loro racconti hanno consentito un attacco frontale dello Stato alle organizzazioni criminali alle quali appartenevano.

I collaboratori non sono persone integerrime, poiché hanno a loro volta commesso reati, anche gravissimi, ma attraverso le loro dichiarazioni hanno contribuito ad evitare omicidi efferati, stragi, impedito traffici di armi e droga.[2]

Il tema del pentitismo si articola su due aspetti che sono certamente distinti, anche se sovente impongono una trattazione unitaria: quello della incentivazione alla collaborazione con la giustizia, e quello della protezione dei dichiaranti e dei loro familiari.

I testimoni di giustizia sono invece cittadini estranei alle organizzazioni criminali mafiose o eversive: sono testimoni o vittime essi stessi di reati commessi da altri che decidono di denunciare l’accaduto. Entrambe tali categorie di soggetti, comunque forniscono un contributo spesso decisivo alle indagini e per questo sono sposti a gravi pericoli e ritorsioni.

La legge n. 82/1991, prima in Europa, ha comunque il merito di aver individuato le istituzioni deputate ad organizzare le misure di protezione, attraverso una commissione centrale, per la definizione dell’applicazione delle speciali misure e dei programmi di protezione cui collaboratori e testimoni possono accedere: cambio d’identità, residenza, sostegno economico e per i soli collaboratori, particolari benefici per i procedimenti penali a loro carico.

Le modifiche della legge e la sua messa in pratica si sono susseguite nel corso degli anni e dopo un periodo di scarsa fiducia nell’operatività della speciale normativa, si è assistito all’incremento esponenziale del numero dei collaboratori e dei testimoni di giustizia che ha raggiunto il culmine nel 1995.

I primi collaboratori e testimoni hanno tuttavia riscontrato diversi problemi, ad oggi in parte ancora irrisolti, relativi ai programmi di protezione.

Scarso sostegno psicologico e gravi difficoltà economiche: il tenore di vita pregresso non viene spesso garantito con la nuova identità, difficoltà di accedere al sistema sanitario, difficoltà ad iscrivere i propri figli a scuola, poca attenzione da parte delle forze dell’ordine sulla necessità di mantenere l’anonimato.

In una parola stato di totale emarginazione.

Di contro un opinione pubblica cinica che non comprende soprattutto la figura de collaboratore. La scelta di collaborare viene semmai percepita, nel sentire comune, come una scelta di comodo, una scorciatoia per chi si è reso autore di crimini efferati, per evitare la giusta punizione e vivere a spese dello Stato.

La legge del 1991 ha il proprio limite nell’aver assimilato alla figura dei collaboratori quella dei testimoni, prescindendo dai termini della collaborazione e della protezione: tale limite ha trovato una prima risposta nella modifica introdotta con la legge n. 45/2001 che ha, in primo luogo, distinto la posizione dei collaboratori da quella dei testimoni di giustizia, ha dato la possibilità di capitalizzare il contributo economico mensile fornito in un’unica soluzione al fine di dare la possibilità ai testimoni di intraprendere una nuova attività economica, ha fissato tempi e modalità per il rilascio delle proprie dichiarazioni all’autorità inquirente, ha stabilito la durata massima dei programmi di protezione per poter agevolare, all’esito, il reinserimento socio-economico di tali soggetti. 

In sostanza la nuova legge ha risolto alcuni dei problemi rilevati in sede di applicazione della precedente normativa, ma ne ha creati, e purtroppo lasciati irrisolti ancora oggi, degli altri. Sarebbe auspicabile un intervento  tempestivo del legislatore tale da riformulare l’intero assetto normativo, con occhio attento e sensibile preso atto delle grandi implicazioni sociali ed umane che una scelta del genere inevitabilmente comporta .

[1] L’art. 1 della legge n. 45 del 2001 ha sostituito il precedente titolo con “Nuove norme in materia di sequestri di persona a scopo di estorsione e per la protezione dei testimoni di giustizia, nonché per la protezione ed il trattamento di coloro che collaborano con la giustizia”.

[2] Si tratta di soggetti spesso concorrenti nel medesimo reato con gli imputati di associazione a delinquere di stampo mafioso, per i quali in genere nel corso del processo vengono invocati alcuni benefici od effetti premiali in termini di riconoscimento di attenuanti di legge.

I Parte

La complessità del fenomeno del pentitismo ed i risvolti di attualità che esso presenta sono da sempre oggetto di una costante attenzione, sia da parte degli osservatori istituzionali, sia dell’opinione pubblica.

Tale attenzione, ravvivata spesso da episodi di cronaca che hanno visto per protagonisti i c.d. “pentiti”, ha suscitato da tempo un processo di riflessione sulla legislazione in materia, nonché sulla necessità di una sua periodica revisione, attesa la particolare natura del fenomeno.  Non si può negare, infatti, la complessità e varietà delle questioni che sono, oramai,  ad esso connesse.

Ebbene, la legge 13 febbraio 2001 n. 45 non si è limitata ad innovare profondamente il sistema di protezione dei soggetti che collaborano con la giustizia previsto dalla legge 15 marzo 1991, n. 82, ma ha ridefinito completamente l’istituto dettando una complessiva ed articolata disciplina della gestione di tali soggetti,  soprattutto sotto il profilo processuale.[1]

Si tratta, a ben vedere, di norme da lungo tempo attese dagli operatori del diritto ed in particolare dalla magistratura inquirente, data l’oramai diffusa consapevolezza della inadeguatezza, rispetto alle caratteristiche assunte dal fenomeno ed alla sua complessità, di una legge che dava chiaramente per presupposta l’eccezionalità della rottura del vincolo di omertà da parte di soggetti aderenti ad associazioni criminali, e della necessità di un sistema di protezione e premiale correlato alla loro collaborazione.

La  legge 45/2001, come vedremo nei capitoli successivi, oltre a tentare di razionalizzare sul piano normativo l’intero sistema, frutto di interventi legislativi frammentati nel tempo, ha avuto il merito di differenziare la disciplina dei collaboratori da quella dei testimoni di giustizia, ossia di quei soggetti che hanno assistito ad un reato o sono le vittime dello stesso e che hanno deciso, compiendo una scelta civile quanto coraggiosa, di riferire le loro conoscenze all’Autorità Giudiziaria.

Tuttavia, nonostante l’intervento di quest’ultimo provvedimento legislativo, manca ancora oggi una regolamentazione complessiva del fenomeno della collaborazione con la giustizia, il che giustifica le richieste rivolte in tal senso da tutti quei magistrati che sono attivamente impegnati nella lotta contro la criminalità organizzata.

La collaborazione con la giustizia rappresenta, nel nostro Paese, il principale mezzo per contrastare le associazioni di stampo mafioso: il potere di Cosa Nostra, della ’Ndrangheta, di Camorra e Sacra Corona Unita non è certo diminuito negli anni: semplicemente ha adottato una diversa e più efficace strategia, non è più lotta frontale allo Stato, posto che la criminalità ha scelto di coesistere in un “pacifico connubio” con le istituzioni democratiche, piuttosto che persistere in uno scontro aperto che l’ha vista perdente. Ed allora, l’auspicio finale sarà teso alla correzione di tutte le incoerenze logico-sistematiche che contraddistinguono alcune delle norme che regolano la materia, e dunque i singoli aspetti della collaborazione con la giustizia; una maggiore coerenza finalizzata a garantire allo Stato una concreta utilità nell’incentivarla e che appaia idonea  a promuovere la dissociazione dei membri della criminalità organizzata, i quali attraverso la promozione di comportamenti dissociativi siano indotti a  scindere ogni legame con le associazioni criminali di appartenenza.

La rottura della compattezza interna alle mafie determinata dal pentitismo, rappresenta oggi il mezzo oltre che per combattere, anche per conoscere la segreta configurazione del sistema mafioso.

Uomini e donne esponenti della politica, appartenenti alla magistratura o alle forze dell’ordine devono la loro vita ai collaboratori, i c.d. pentiti, che con i loro racconti hanno consentito un attacco frontale dello Stato alle organizzazioni criminali alle quali appartenevano.

I collaboratori non sono persone integerrime, poiché hanno a loro volta commesso reati, anche gravissimi, ma attraverso le loro dichiarazioni hanno contribuito ad evitare omicidi efferati, stragi, impedito traffici di armi e droga.[2]

Il tema del pentitismo si articola su due aspetti che sono certamente distinti, anche se sovente impongono una trattazione unitaria: quello della incentivazione alla collaborazione con la giustizia, e quello della protezione dei dichiaranti e dei loro familiari.

I testimoni di giustizia sono invece cittadini estranei alle organizzazioni criminali mafiose o eversive: sono testimoni o vittime essi stessi di reati commessi da altri che decidono di denunciare l’accaduto. Entrambe tali categorie di soggetti, comunque forniscono un contributo spesso decisivo alle indagini e per questo sono sposti a gravi pericoli e ritorsioni.

La legge n. 82/1991, prima in Europa, ha comunque il merito di aver individuato le istituzioni deputate ad organizzare le misure di protezione, attraverso una commissione centrale, per la definizione dell’applicazione delle speciali misure e dei programmi di protezione cui collaboratori e testimoni possono accedere: cambio d’identità, residenza, sostegno economico e per i soli collaboratori, particolari benefici per i procedimenti penali a loro carico.

Le modifiche della legge e la sua messa in pratica si sono susseguite nel corso degli anni e dopo un periodo di scarsa fiducia nell’operatività della speciale normativa, si è assistito all’incremento esponenziale del numero dei collaboratori e dei testimoni di giustizia che ha raggiunto il culmine nel 1995.

I primi collaboratori e testimoni hanno tuttavia riscontrato diversi problemi, ad oggi in parte ancora irrisolti, relativi ai programmi di protezione.

Scarso sostegno psicologico e gravi difficoltà economiche: il tenore di vita pregresso non viene spesso garantito con la nuova identità, difficoltà di accedere al sistema sanitario, difficoltà ad iscrivere i propri figli a scuola, poca attenzione da parte delle forze dell’ordine sulla necessità di mantenere l’anonimato.

In una parola stato di totale emarginazione.

Di contro un opinione pubblica cinica che non comprende soprattutto la figura de collaboratore. La scelta di collaborare viene semmai percepita, nel sentire comune, come una scelta di comodo, una scorciatoia per chi si è reso autore di crimini efferati, per evitare la giusta punizione e vivere a spese dello Stato.

La legge del 1991 ha il proprio limite nell’aver assimilato alla figura dei collaboratori quella dei testimoni, prescindendo dai termini della collaborazione e della protezione: tale limite ha trovato una prima risposta nella modifica introdotta con la legge n. 45/2001 che ha, in primo luogo, distinto la posizione dei collaboratori da quella dei testimoni di giustizia, ha dato la possibilità di capitalizzare il contributo economico mensile fornito in un’unica soluzione al fine di dare la possibilità ai testimoni di intraprendere una nuova attività economica, ha fissato tempi e modalità per il rilascio delle proprie dichiarazioni all’autorità inquirente, ha stabilito la durata massima dei programmi di protezione per poter agevolare, all’esito, il reinserimento socio-economico di tali soggetti. 

In sostanza la nuova legge ha risolto alcuni dei problemi rilevati in sede di applicazione della precedente normativa, ma ne ha creati, e purtroppo lasciati irrisolti ancora oggi, degli altri. Sarebbe auspicabile un intervento  tempestivo del legislatore tale da riformulare l’intero assetto normativo, con occhio attento e sensibile preso atto delle grandi implicazioni sociali ed umane che una scelta del genere inevitabilmente comporta .

[1] L’art. 1 della legge n. 45 del 2001 ha sostituito il precedente titolo con “Nuove norme in materia di sequestri di persona a scopo di estorsione e per la protezione dei testimoni di giustizia, nonché per la protezione ed il trattamento di coloro che collaborano con la giustizia”.

[2] Si tratta di soggetti spesso concorrenti nel medesimo reato con gli imputati di associazione a delinquere di stampo mafioso, per i quali in genere nel corso del processo vengono invocati alcuni benefici od effetti premiali in termini di riconoscimento di attenuanti di legge.