Il mistero e la grazia. Anna Maria Ortese e Napoli
Il mistero e la grazia. Anna Maria Ortese e Napoli
Fin dall'inizio della sua vita Anna Maria Ortese sembrò condannata a un destino di nomade, con Napoli simbolo di un eterno - e mai realizzato - ritorno. Figlia di un padre di origini catalane nato in Sicilia e di una madre napoletana di stirpe lunigiana, la Ortese, romana di nascita, si trasferì con la famiglia in Puglia e poi a Portici. Dopo la prima guerra mondiale soggiornò a Potenza; quindi, dal 1925 al 1928, addirittura in Libia, all'epoca colonia italiana.
Nel 1928 il rientro “fatale” a Napoli, dove gli Ortese si stabilirono al civico 29 di via del Piliero (oggi via Cristoforo Colombo). La casa e la vista che da essa si spingeva verso i cancelli del porto e il mare saranno molto più tardi i protagonisti del tormentato e amatissimo romanzo autobiografico Il porto di Toledo, del 1975.
Dopo un decennio contrassegnato dalle prime prove letterarie e da gravi lutti familiari, Anna Maria si spostò nel Nord Italia, a Firenze, Trieste e Venezia. Tornò a Napoli nel 1945, insieme con i genitori e la sorella Maria. Essendo ormai inabitabile la casa in via del Piliero, che di lì a poco verrà demolita, gli Ortese finirono per alloggiare in un appartamento al pianterreno di via Palasciano 47, alla Riviera di Chiaia.
Il secondo soggiorno partenopeo fu anch'esso cruciale per le vicende personali e letterarie dell'autrice, che si avvicinò agli scrittori riuniti attorno alla rivista Sud di Pasquale Prunas. Si trattava dei migliori esponenti dell'intellighenzia napoletana di quel tempo, i cui nomi hanno lasciato un segno duraturo nella storia della cultura e della letteratura italiana: Raffaele La Capria, Antonio Ghirelli, Giuseppe Patroni Griffi, Luigi Compagnone, Franco Rosi, Domenico Rea.
Il rapporto della Ortese con questo gruppo di intellettuali, così fecondo sul piano umano e artistico, si interruppe drammaticamente a causa della pubblicazione, nel 1953, della raccolta di racconti e reportage giornalistici Il mare non bagna Napoli. L'ultimo racconto, Il silenzio della ragione, venne infatti interpretato dagli amici letterati come un attacco personale duro e ingeneroso. In realtà le pagine ortesiane non avevano un intento denigratorio: esse non intendevano mettere alla berlina le mancanze di un'intera leva di velleitari engagé, ma riconoscevano impietosamente l'impossibilità di impostare un appagante discorso culturale e civile in mezzo alle macerie morali e materiali della Napoli del secondo dopoguerra.
Sta di fatto che le polemiche suscitate dal libro non si placarono, tanto che Anna Maria non tornò più a Napoli se non per brevissimi soggiorni. Trasfigurata e rivissuta in una dimensione magica e nostalgica, la città restò tuttavia quale sfondo ricorrente nell'immaginario della scrittrice, che in essa ambientò, come abbiamo visto, il suo romanzo prediletto, Il porto di Toledo. La Ortese lavorò alla nuova edizione di quest'opera, per i tipi dell'Adelphi, fino agli ultimi giorni di una vita travagliata da difficoltà personali ed economiche, che si concluse a Rapallo il 10 marzo 1998.
Oggi l'Archivio di Stato di Napoli conserva l'archivio personale di questa grande e tormentata artista. Esso comprende anche le sue carte di lavoro, inclusa la documentazione prodotta per la stesura e la redazione del Porto di Toledo e di altri tre romanzi: Alonso e i visionari, Il cardillo addolorato e L'Iguana. Ciascuna delle quattro corrispondenti sottoserie archivistiche si apre con le note esplicative redatte dalla stessa autrice, che illustrano i significati, la trama e i personaggi delle singole opere, cui seguono i testi datati e quelli non datati.
Ma l'archivio di Anna Maria Ortese ci restituisce anche quello che è forse l'epitaffio più struggente, più meravigliosamente sincero e straziante, del rapporto della scrittrice con Napoli, contenuto in una lettera di Anna Maria all'amico Franz Haas del 31 marzo 1990 (Archivio di Stato di Napoli, Archivio Anna Maria Ortese, Dono Franz Haas, fasc. 34):
“Strano dolore mi viene da Napoli, quando la ricordo. Perché, curiosamente, il mio occhio interno - che è memoria - non dimentica mai tante ferite: cementate - incorporate, addirittura, nella Sua storia. Ad ogni passo una ferita - uno strazio (gratuito) dissimulato o mistificato da una voce o un colore di allegria e gioia. E quella serie interminabile di ferite, di offese, di piccole o grandi infamie - che svaporano di continuo nel canto o nel riso (ingiusto) di gioia - questo per me è Napoli. E mentre mi perdo a guardarla - la temo”.