Il principio di imparzialità e il reato d’abuso d’ufficio
- Articolo 97 Costituzione comma 1: I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione
- Cassazione Penale 19.06.2008 n.25162: “Qualora il pubblico funzionario compia dei favoritismi, in violazione dell’obbligo di trattare equamente tutti i soggetti portatori di interessi tutelabili, in cui si traduce il principio di imparzialità sancito dall’art. 97 Cost., è ravvisabile il delitto di abuso d’ufficio. Una siffatta condotta è tenuta dal funzionario della Motorizzazione Civile, il quale sistematicamente, nel disbrigo delle pratiche di sua competenza, dia preferenza a quelle inoltrate da una determinata agenzia automobilistica, a discapito delle altre”.
Esempio evidente in questo senso è offerto dal principio di imparzialità della pubblica amministrazione sancito dall’art. 97 Cost., e più precisamente, dall’applicazione del principio di imparzialità nell’attività amministrativa. In questo ambito, il principio di imparzialità implica innanzitutto il divieto di disparità di trattamento. Ma è evidente che l’imparzialità lungi dall’esaurirsi in tale contenuto soggettivo e negativo, è il presidio dell’attività amministrativa orientata alla valutazione esauriente di tutti gli interessi (pubblici e privati) da prendere in considerazione (ex plurimis Allegretti, “L’imparzialità amministrativa”). E’ noto che in un moderno e complesso stato di diritto, la pubblica amministrazione non è chiamata ad eseguire pedissequamente la legge, ma è deputata a svolgere in concreto una difficile opera di selezione e comparazione degli interessi, la quale non può essere preordinata astrattamente dal legislatore. In questo senso, l’imparzialità impone di individuare tutti gli interessi coinvolti, di considerarli puntualmente e comparativamente, in modo tale che la scelta concreta sull’an e sul quomodo dell’agire amministrativo sia il risultato di un’esatta e completa ponderazione di interessi.
In tale ottica si comprende come la manifestazione più feconda del principio dell’imparzialità è la stessa procedimentalizzazione dell’attività amministrativa. E’ proprio il procedimento amministrativo che permette il confronto dialettico e trasparente di tutti gli interessi attinti dall’agire amministrativo; è proprio il procedimento che riveste di forma e quindi di garanzie l’attività amministrativa. Quanto mai efficace è la nozione di procedimento come forma e garanzia della funzione amministrativa elaborata da un illustre Autore (Benvenuti, “Funzione, procedimento, processo in Riv. trim. dir. Pubbl, 1952).
Queste brevissime notazioni già offrono un quadro appena abbozzato dell’indubbia forza e centralità del principio di imparzialità nel cuore del diritto amministrativo.
La sentenza della suprema Corte, che qui si commenta, coglie tutta la portata precettiva del principio di imparzialità, riconoscendo nell’art. 97 la “legge” la cui violazione integra il contenuto oggettivo del reato d’abuso d’ufficio.
Si tratta di questione che tocca nervi particolarmente sensibili, non solo del diritto penale, ma dello stesso rapporto tra pubblica amministrazione e sindacato giurisdizionale.
Il legislatore del 1997 ha precisato che l’abusività della condotta consiste nella “violazione di norme di legge o di regolamento”, mentre nel testo previgente veniva punita la condotta del pubblico funzionario che “abusa del suo ufficio al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto vantaggio o per arrecare ad altri un danno ingiusto”, e quindi veniva punita qualsiasi forma di strumentalizzazione dell’ufficio per finalità non consentite. La giurisprudenza prevalente ritiene al momento che solo un atto illegittimo per violazione di legge e/o di regolamento è suscettibile di incriminazione ai sensi dell’art.323 c.p. La premessa dell’introduzione di tale requisito viene ricondotta, oltre che al rigoroso rispetto dei principi di determinatezza e tassatività della fattispecie penale, soprattutto all’intento di evitare che il potere giudiziario penale, travalichi i limiti di competenze costituzionalmente sanciti, sindacando impropriamente le scelte discrezionali della pubblica amministrazione. In una pronuncia del 1998 si legge che “il fine dichiarato nella norma è quello di limitare il controllo penale sull’attività dei pubblici amministratori entro confini compatibili con il principio costituzionale della divisione dei poteri” (Cass. Pen.22 gennaio 1998). Corollario di simile impostazione è quindi l’esclusione dal penalmente rilevante dell’eccesso di potere, quale ipotesi di condotta abusiva, in quanto vizio attinente alla discrezionalità dell’attività amministrativa, e pertanto non rientrante nella fattispecie incriminatrice, pena la sostituzione del giudice alla pubblica amministrazione in scelte di merito e/o comunque discrezionali (Cass. Pen, sez. VI, 4 settemre 2003 n.35108).
La questione tuttavia non può dirsi pacifica.
Innanzitutto, sul piano degli interessi sostanziali, l’opzione interpretativa ora ricordata si risolve in pericoloso vuoto di tutela, nel senso che identificando l’abuso d’ufficio con la semplice violazione di legge formale, c.d. illegittimità formale dell’atto, restano non puniti tutti quegli amministratori che, pur compiendo scelte ineccepibili da un punto di vista formale, tuttavia esercitano il potere non rispettando i limiti (in primis di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione), che presiedono alla stessa discrezionalità amministrativa, compiendo atti viziati da eccesso di potere. Infatti, se si considerano manifestazioni eclatanti dell’eccesso di potere (quali la motivazione palesemente falsa, illogica e contraddittoria), appare difficile non ammettere come si tratta di manifestazioni di esercizio del potere formalmente legittime, ma fortemente censurabili e rimproverabili proprio in termini di contrasto con il canone dell’imparzialità. Pertanto, Dottrina autorevole mossa da preoccupazioni di prevenzione e repressione, nel tentativo di ricondurre anche l’eccesso di potere nell’alveo di applicazione dell’art.323 c.p., ha interpretato l’inciso “violazione di legge” in senso costituzionalmente orientato, intendendo per violazione di legge ex art.323 c.c., non solo la violazione di legge formale, ma anche la violazione di norma costituzionale, id est la violazione della norma di cui all’art. 97 Cost. (Seminara, “il nuovo delitto di abuso d’ufficio, in Studium Iuris, 1997, Pagliaro, “La nuova riforma dell’abuso d’ufficio, in Dir.proc.pen., 1997).
La sentenza in commento si inscrive proprio nel filone dottrinario che ritiene applicabile l’art.97 Cost quale parametro di valutazione dell’abusività della condotta.
La Suprema Corte non trascura che, inserendo l’art. 97 Cost. tra le disposizioni violabili ex art.323 c.p., si possono verificare i pericoli di un’eccessiva dilatazione dell’intervento penale, in contrasto con il principio di legalità e quindi determinatezza e tassatività della fattispecie incriminatrice (art.25 Cost).
Pur tuttavia il Giudice riconosce che vi possono essere “ipotesi residuali in cui l’art.97 Cost., nel suo significato più precettivo relativo all’imparzialità dell’azione amministrativa, può costituire parametro di riferimento per il reato d’abuso d’ufficio”
La pronuncia si dilunga in termini netti e precisi a delineare il contenuto precettivo dell’art. 97 Cost, precisando: “l’amministrazione deve essere imparziale assicurando tutela ad un interesse nel confronto con gli altri interessi pubblici e privati con i quali deve essere ponderato”, e proseguendo affermando che nell’attività amministrativa, in cui la decisione avviene alla fine del procedimento, “il criterio di imparzialità comporta che vengano acquisiti gli interessi e gli elementi utili ad una deliberazione il più possibile ponderata”. E conclude: “in questo caso, l’ imparzialità amministrativa intesa come divieto di favoritismi, ha i caratteri e i contenuti precettivi dell’art.323 c.p. in quanto impone all’impiegato o al funzionario pubblico una vera e propria regola di comportamento di immediata applicazione”.
Alla luce di queste premesse la Cassazione ha annullato con rinvio la sentenza del GUP che aveva dichiarato il non luogo a procedere, non riscontrando nel caso di specie la violazione di alcun precetto normativo.
A rendere ancora più problematica la questione soccorrono taluni aspetti.
Si deve sottolineare, infatti, che nel corso degli ultimi atti si è assistito alla progressiva positivizzazione di regole che la prassi giudiziaria aveva elaborato in termini di figure sintomatiche di eccesso di potere
Si pensi, per esempio, alla mancata o insufficiente motivazione, al mancato rispetto del principio di proporzionalità dell’agire amministrativo e alla violazione degli obblighi comunitari, vizi considerati in passato ipotesi di eccesso di potere, e che ora sono da ricondurre, in virtù della loro cristallizzazione nell’ambito delle norme della L.241/90, in vizi di violazione di legge. Quindi, prima di utilizzare la categoria dell’eccesso di potere, si può verificare in concreto la sussistenza di numerosi precetti -all’interno del corpus normativo che regola l’attività ammistrativa- la cui violazione può dar adito ad un giudizio di responsabilità penale, allargando quindi le maglie dell’intervento penale. D’altra parte si può osservare che ancorare l’abuso alla violazione di legge (o di regolamento) tout court, senza distinguere il tipo di violazione e di norma violata, per una sorta di eterogenesi dei fini da parte del legislatore, può aprire proprio la strada ad un invasivo controllo della pubblica amministrazione da parte del giudice penale, legittimato ad intervenire in modo acriticamente formalistico, eventualmente anche in ipotesi di mera irregolarità (Fiandaca- Musco, Diritto penale, parte speciale, volume I, Bologna 1997).
Tale soluzione appare innanzitutto conforme al bene protetto dalla norma incriminatrice, individuato in primis nell’imparzialità della pubblica amministrazione (ex plurimis D’Avirro, “L’abuso d’ufficio- la legge di riforma 16 luglio 1997, Milano, 1997).
Mentre il rilievo che oggi l’amministrazione non è relegata al “già deciso”, ma compie scelte discrezionali tra più soluzioni possibili e tra diversi modi di comporre gli interessi fa apparire riduttivo, e foriero di vuoti di tutela, il riconoscimento che solo la violazione di legge o di regolamento può costituire abuso, proprio perché il semplice raffronto e non contrasto con la norma, non è indice esclusivo dell’operare corretto della pubblica amministrazione, attesa la giusta esigenza di punire la discrezionalità, allorchè essa si colori dei tratti dell’arbitrio e della parzialità.
- Articolo 97 Costituzione comma 1: I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione
- Cassazione Penale 19.06.2008 n.25162: “Qualora il pubblico funzionario compia dei favoritismi, in violazione dell’obbligo di trattare equamente tutti i soggetti portatori di interessi tutelabili, in cui si traduce il principio di imparzialità sancito dall’art. 97 Cost., è ravvisabile il delitto di abuso d’ufficio. Una siffatta condotta è tenuta dal funzionario della Motorizzazione Civile, il quale sistematicamente, nel disbrigo delle pratiche di sua competenza, dia preferenza a quelle inoltrate da una determinata agenzia automobilistica, a discapito delle altre”.
Esempio evidente in questo senso è offerto dal principio di imparzialità della pubblica amministrazione sancito dall’art. 97 Cost., e più precisamente, dall’applicazione del principio di imparzialità nell’attività amministrativa. In questo ambito, il principio di imparzialità implica innanzitutto il divieto di disparità di trattamento. Ma è evidente che l’imparzialità lungi dall’esaurirsi in tale contenuto soggettivo e negativo, è il presidio dell’attività amministrativa orientata alla valutazione esauriente di tutti gli interessi (pubblici e privati) da prendere in considerazione (ex plurimis Allegretti, “L’imparzialità amministrativa”). E’ noto che in un moderno e complesso stato di diritto, la pubblica amministrazione non è chiamata ad eseguire pedissequamente la legge, ma è deputata a svolgere in concreto una difficile opera di selezione e comparazione degli interessi, la quale non può essere preordinata astrattamente dal legislatore. In questo senso, l’imparzialità impone di individuare tutti gli interessi coinvolti, di considerarli puntualmente e comparativamente, in modo tale che la scelta concreta sull’an e sul quomodo dell’agire amministrativo sia il risultato di un’esatta e completa ponderazione di interessi.
In tale ottica si comprende come la manifestazione più feconda del principio dell’imparzialità è la stessa procedimentalizzazione dell’attività amministrativa. E’ proprio il procedimento amministrativo che permette il confronto dialettico e trasparente di tutti gli interessi attinti dall’agire amministrativo; è proprio il procedimento che riveste di forma e quindi di garanzie l’attività amministrativa. Quanto mai efficace è la nozione di procedimento come forma e garanzia della funzione amministrativa elaborata da un illustre Autore (Benvenuti, “Funzione, procedimento, processo in Riv. trim. dir. Pubbl, 1952).
Queste brevissime notazioni già offrono un quadro appena abbozzato dell’indubbia forza e centralità del principio di imparzialità nel cuore del diritto amministrativo.
La sentenza della suprema Corte, che qui si commenta, coglie tutta la portata precettiva del principio di imparzialità, riconoscendo nell’art. 97 la “legge” la cui violazione integra il contenuto oggettivo del reato d’abuso d’ufficio.
Si tratta di questione che tocca nervi particolarmente sensibili, non solo del diritto penale, ma dello stesso rapporto tra pubblica amministrazione e sindacato giurisdizionale.
Il legislatore del 1997 ha precisato che l’abusività della condotta consiste nella “violazione di norme di legge o di regolamento”, mentre nel testo previgente veniva punita la condotta del pubblico funzionario che “abusa del suo ufficio al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto vantaggio o per arrecare ad altri un danno ingiusto”, e quindi veniva punita qualsiasi forma di strumentalizzazione dell’ufficio per finalità non consentite. La giurisprudenza prevalente ritiene al momento che solo un atto illegittimo per violazione di legge e/o di regolamento è suscettibile di incriminazione ai sensi dell’art.323 c.p. La premessa dell’introduzione di tale requisito viene ricondotta, oltre che al rigoroso rispetto dei principi di determinatezza e tassatività della fattispecie penale, soprattutto all’intento di evitare che il potere giudiziario penale, travalichi i limiti di competenze costituzionalmente sanciti, sindacando impropriamente le scelte discrezionali della pubblica amministrazione. In una pronuncia del 1998 si legge che “il fine dichiarato nella norma è quello di limitare il controllo penale sull’attività dei pubblici amministratori entro confini compatibili con il principio costituzionale della divisione dei poteri” (Cass. Pen.22 gennaio 1998). Corollario di simile impostazione è quindi l’esclusione dal penalmente rilevante dell’eccesso di potere, quale ipotesi di condotta abusiva, in quanto vizio attinente alla discrezionalità dell’attività amministrativa, e pertanto non rientrante nella fattispecie incriminatrice, pena la sostituzione del giudice alla pubblica amministrazione in scelte di merito e/o comunque discrezionali (Cass. Pen, sez. VI, 4 settemre 2003 n.35108).
La questione tuttavia non può dirsi pacifica.
Innanzitutto, sul piano degli interessi sostanziali, l’opzione interpretativa ora ricordata si risolve in pericoloso vuoto di tutela, nel senso che identificando l’abuso d’ufficio con la semplice violazione di legge formale, c.d. illegittimità formale dell’atto, restano non puniti tutti quegli amministratori che, pur compiendo scelte ineccepibili da un punto di vista formale, tuttavia esercitano il potere non rispettando i limiti (in primis di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione), che presiedono alla stessa discrezionalità amministrativa, compiendo atti viziati da eccesso di potere. Infatti, se si considerano manifestazioni eclatanti dell’eccesso di potere (quali la motivazione palesemente falsa, illogica e contraddittoria), appare difficile non ammettere come si tratta di manifestazioni di esercizio del potere formalmente legittime, ma fortemente censurabili e rimproverabili proprio in termini di contrasto con il canone dell’imparzialità. Pertanto, Dottrina autorevole mossa da preoccupazioni di prevenzione e repressione, nel tentativo di ricondurre anche l’eccesso di potere nell’alveo di applicazione dell’art.323 c.p., ha interpretato l’inciso “violazione di legge” in senso costituzionalmente orientato, intendendo per violazione di legge ex art.323 c.c., non solo la violazione di legge formale, ma anche la violazione di norma costituzionale, id est la violazione della norma di cui all’art. 97 Cost. (Seminara, “il nuovo delitto di abuso d’ufficio, in Studium Iuris, 1997, Pagliaro, “La nuova riforma dell’abuso d’ufficio, in Dir.proc.pen., 1997).
La sentenza in commento si inscrive proprio nel filone dottrinario che ritiene applicabile l’art.97 Cost quale parametro di valutazione dell’abusività della condotta.
La Suprema Corte non trascura che, inserendo l’art. 97 Cost. tra le disposizioni violabili ex art.323 c.p., si possono verificare i pericoli di un’eccessiva dilatazione dell’intervento penale, in contrasto con il principio di legalità e quindi determinatezza e tassatività della fattispecie incriminatrice (art.25 Cost).
Pur tuttavia il Giudice riconosce che vi possono essere “ipotesi residuali in cui l’art.97 Cost., nel suo significato più precettivo relativo all’imparzialità dell’azione amministrativa, può costituire parametro di riferimento per il reato d’abuso d’ufficio”
La pronuncia si dilunga in termini netti e precisi a delineare il contenuto precettivo dell’art. 97 Cost, precisando: “l’amministrazione deve essere imparziale assicurando tutela ad un interesse nel confronto con gli altri interessi pubblici e privati con i quali deve essere ponderato”, e proseguendo affermando che nell’attività amministrativa, in cui la decisione avviene alla fine del procedimento, “il criterio di imparzialità comporta che vengano acquisiti gli interessi e gli elementi utili ad una deliberazione il più possibile ponderata”. E conclude: “in questo caso, l’ imparzialità amministrativa intesa come divieto di favoritismi, ha i caratteri e i contenuti precettivi dell’art.323 c.p. in quanto impone all’impiegato o al funzionario pubblico una vera e propria regola di comportamento di immediata applicazione”.
Alla luce di queste premesse la Cassazione ha annullato con rinvio la sentenza del GUP che aveva dichiarato il non luogo a procedere, non riscontrando nel caso di specie la violazione di alcun precetto normativo.
A rendere ancora più problematica la questione soccorrono taluni aspetti.
Si deve sottolineare, infatti, che nel corso degli ultimi atti si è assistito alla progressiva positivizzazione di regole che la prassi giudiziaria aveva elaborato in termini di figure sintomatiche di eccesso di potere
Si pensi, per esempio, alla mancata o insufficiente motivazione, al mancato rispetto del principio di proporzionalità dell’agire amministrativo e alla violazione degli obblighi comunitari, vizi considerati in passato ipotesi di eccesso di potere, e che ora sono da ricondurre, in virtù della loro cristallizzazione nell’ambito delle norme della L.241/90, in vizi di violazione di legge. Quindi, prima di utilizzare la categoria dell’eccesso di potere, si può verificare in concreto la sussistenza di numerosi precetti -all’interno del corpus normativo che regola l’attività ammistrativa- la cui violazione può dar adito ad un giudizio di responsabilità penale, allargando quindi le maglie dell’intervento penale. D’altra parte si può osservare che ancorare l’abuso alla violazione di legge (o di regolamento) tout court, senza distinguere il tipo di violazione e di norma violata, per una sorta di eterogenesi dei fini da parte del legislatore, può aprire proprio la strada ad un invasivo controllo della pubblica amministrazione da parte del giudice penale, legittimato ad intervenire in modo acriticamente formalistico, eventualmente anche in ipotesi di mera irregolarità (Fiandaca- Musco, Diritto penale, parte speciale, volume I, Bologna 1997).
Tale soluzione appare innanzitutto conforme al bene protetto dalla norma incriminatrice, individuato in primis nell’imparzialità della pubblica amministrazione (ex plurimis D’Avirro, “L’abuso d’ufficio- la legge di riforma 16 luglio 1997, Milano, 1997).
Mentre il rilievo che oggi l’amministrazione non è relegata al “già deciso”, ma compie scelte discrezionali tra più soluzioni possibili e tra diversi modi di comporre gli interessi fa apparire riduttivo, e foriero di vuoti di tutela, il riconoscimento che solo la violazione di legge o di regolamento può costituire abuso, proprio perché il semplice raffronto e non contrasto con la norma, non è indice esclusivo dell’operare corretto della pubblica amministrazione, attesa la giusta esigenza di punire la discrezionalità, allorchè essa si colori dei tratti dell’arbitrio e della parzialità.