x

x

Il tempo del Video Meeting. Dalle tecnologie della condivisione alle tecnologie dell’identità

Parte 1
visuale
Ph. Arbër Arapi / visuale

Abbiamo adottato rapidamente la tecnologia del Video Meeting come anticorpo per rispondere alla separazione sociale che il coronavirus ci sta imponendo. Ma la partecipazione rimane un problema irrisolto, perché è proprio qui il suo limite.

 

È interessante vedere come la nostra società abbia adottato rapidamente la tecnologia come anticorpo per rispondere alla separazione sociale che il coronavirus ci sta imponendo. Ciò che sembrava mission impossible, smuovere il paese verso l’adozione d tecnologie digitali, in pochi mesi è diventata pratica quotidiana. E-learning, smart working, videochat. Quest’ultima pare dare la migliore risposta alla domanda di socialità e di relazione a distanza, la nostra necessità di incontro. Meeting.

Incontro attraverso il moltiplicarsi delle persone sullo schermo, un collage di volti e di voci. Ora quelle conosciute negli incontri di lavoro, dove le voci si intrecciano in un contrappunto di interventi. Ora corali collettive e unisone come i grandi meetup video di diversi eventi europei e mondiali che hanno portato una ventata di collettività quando non era più possibile partecipare.

Ma la partecipazione rimane un problema irrisolto. Abbiamo risolto solo l’incontro. Perché è proprio qui un limite fisiologico del video meeting.

Nulla ovviamente può sostituite la presenza fisica dei corpi, e nel video meeting questo appare ancora più evidente. Le video chat che invadono i nostri schermi e le nostre vite sono benemerite, ma hanno il limite che si evidenza in modo palese sui nostri schermi, avvicinano i volti delle persone, serie di ritratti casalinghi, ce li fanno sentire vicini, ma rimangono confinati nei loro piccoli screen rettangolari. Ognuno nel suo riquadro, metafora del distanziamento sociale delle nostre file con mascherina davanti ai supermercati durante la Prima Pandemia (così se la ricorderà la storia, fra marzo e giugno 2020).

Ognuno racchiuso nel suo video-metro quadrato, una somma di ritratti intimi (potremmo esteticamente definirli una variante digitale e moderna dell’intimismo della pittura ritrattistica fiamminga) che fa dei nostri incontri a distanza inevitabilmente una collezione di solitudini. Era questo che non ce le faceva amare, e che ha reso mute e inattive le tecnologie del video meeting sino ai primi di marzo del 2020.

Skype e tutti i suoi attuali epigoni, giaceva inutilizzata sui desk di milioni di italiani negletta e inascoltata da almeno quindici anni. Ora, obtorto collo, scopriamo come sufficienti e anche utilissime per ridurre il divario del tempo e dello spazio, e la tecnologia riemerge come una fonte fresca nel deserto delle nostre relazioni.

Eppure, c’è ancora molto da fare in questa tecnologia. Improvvisare può avere effetti deleteri.
Per quanto quasi due anni di videoconferenze ci hanno fatto sviluppare familiarità e dimestichezza, e i grossolani errori dei primi tempi sono scomparsi, e le incertezze e le crisi da inadeguatezza sono un ricordo passato, ancora oggi possiamo ben dire che ci sono amplissimi margini di miglioramento. Questi riguardano sia gli aspetti tecnici della messa in scena, sia gli aspetti emotivi, psicologici e comportamentali che questo nuovo mezzo di comunicazione mediatizzato ci sfida a comprendere.

Per fare alcuni esempi degli aspetti tecnici molto c’è da lavorare per quanto riguarda la valorizzazione dello spazio nello screen della chat individuale ad esempio la figura intera, la posizione della camera rispetto al volto, l’uso di una camera mobile, o di ottiche con focali particolari, come grandangolari o lunghe, oppure seconde camere. Abbiamo ancora da esplorare bene l’uso di cromakey, oggi molto usati ma sempre come “tappabuchi”, come fondale per coprire piuttosto che ambiente per sottolineare uno stato, o esaltare un contenuto. Poi abbiamo il picture-in-picture, lo split screen e così via, prendendo a piene mani tutta la grammatica televisiva che peraltro è perfettamente comprensibile agli utenti di ogni età.

La comunicazione vocale in una call conference viene supportata da una serie di particolari non verbali che hanno un impatto determinante sulla efficacia finale del messaggio che vogliamo inviare. Nel caso di una inquadratura, per esempio, un campo lungo esprime la necessità di comunicare il contesto prima che il soggetto stesso. Il primo piano (con il fondo sfuocato) esalta il soggetto e la sua empatia; nel caso del primissimo piano è evidente che la carica emozionale che si comunica è al massimo livello. Se a questi presupposti si aggiungono il tono della voce, il BN piuttosto che il colore, la fisiognomica stessa di chi parla e tanto altro, si compone un quadro ben preciso.

Ogni nostra Conference Call è un vero e proprio story telling che richiede molta cura e consapevolezza.

Ci domanderete: tutto questo sforzo per migliorare una video call merita nostro impegno e la nostra attenzione?

Pensiamoci bene. Pensiamo che ci giochiamo in un riquadro fisico di pochi metri quadrati, in uno schermo di pochi pollici di diagonale, il contratto giusto con il cliente giusto, il nostro colloquio di lavoro, una intervista, un incontro importante. Ma anche una rilassata riunione fra colleghi, o un meeting in cui trasmettere con precisione compiti, o analizzare un problema con la dovuta concentrazione.

Language is a Virus”, diceva W. Burroughs. Questa citazione ci deve far riflettere sulla composizione del linguaggio e sulla sua forza: il nostro lavoro è rivolto a una maggiore attenzione, consapevolezza e conoscenza delle regole generali riferite all’uso della comunicazione soprattutto in periodi di emergenza. È essenziale saper cogliere il momento della call conference come uno step fondamentale del nostro story-telling e decidere di “aumentarla”: con efficacia, coerenza, tecnologia.

Rimane il fatto che questa esperienza visiva/televisiva potrebbe non bastare: abbiamo portato l’incontro tra le persone ma non la relazione. Dove sta il meet? Dove sta l’incontro? Per questo ci vuole prima di tutto un posto.

La soluzione è uno spazio ibrido fra reale e virtuale: la capacità, cioè, di miscelare una persona in streaming dal vivo con un’altra dentro Zoom, per esempio, ed una terza, comodamente seduta attraverso il suo avatar in una virtual platform. Vuoi un assaggio? Dai un’occhiata qui.

Sembra evidente e naturale che le tecnologie per il meeting a distanza esplorino la multicanalità immersiva, dalla realtà virtuale alla realtà aumentata, realizzando nella pratica l’esplorazione tutto lo "spettro della realtà" da un capo all’altro.

La strada da intraprendere non è una sola, si tratta di esplorare una serie di piattaforme diverse, da usare diversamente per le necessità del meet: intercettare nuove esigenze, sviluppare nuove forme di rappresentazione per gli eventi sia fisici che digitali, sviluppare soluzioni di creatività per lo smart working e la professionalità. Ma di questo parleremo nel prossimo articolo.