Presenza
Se leggiamo la definizione di presenza, ad esempio su Vocabolario Treccani, notiamo innanzitutto che il termine indica il fatto di essere presente fisicamente in un determinato luogo, o di intervenire, di assistere ad un evento: essa non definisce in alcun modo la qualità e la modalità dell’esserci, riferito a persone, in un determinato contesto o situazione, perché i modi della presenza debbono essere specificati con altre parole (fare atto di presenza, per indicare ironicamente una partecipazione passiva, o all’opposto, con la sola presenza XY ha influito sull’esito della discussione – che sottolinea l’incisività della partecipazione).
Presenza è pertanto una condizione di stato di una persona o cosa/sostanza, che si trova in un luogo in un dato momento, in contrapposizione all’assenza (di cui ci ha parlato nelle sue varie accezioni Barbara Martini):
la dicotomia più radicale è quella che avvicina i due termini a vita/morte, sia in senso reale che simbolico; questa affermazione sulla base di considerazioni affatto generali e senza render conto di come sono stati utilizzati nella storia in base ai vari usi della parola (come quello figurato, ad es. presenza di spirito) e ai diversi contesti, che le fanno assumere svariati significati.
La contestualizzazione e storicizzazione della parola presenza ci mostra come nella nostra vita attuale (in cui la realtà virtuale, il metaverso, la possibilità di collegarsi e parlarsi/vedersi annullando lo spazio che ci divide, sono dati di fatto ampiamente diffusi in molte società), presenza può avere come contraltare la distanza, come bene ha argomentato Grazia Mannozzi, basandosi su esperienze dirette di didattica universitaria e su riflessioni nate da incontri con studenti in gruppo, facendo attenzione alle loro esigenze psicologiche. È indubbio, infatti, che nelle conversazioni correnti il riferimento immediato, pur rimanendo il significato fondamentale di esserci, non è più solo questo ma vi è la possibilità che si intenda sia in presenza o a distanza: ne consegue che ormai è necessario, forse non solo opportuno, precisare la modalità dell’incontro.
La pandemia, ben lo sappiamo, ha imposto un nuovo modo di vivere, di parlarsi e di comunicare. E questo avviene in molte situazioni sociali, politiche, assembleari, lavorative, informative e di apprendimento, anche se ormai vi è un po' la tendenza a ritornare alle vecchie abitudini, dimenticando il recente passato.
“Non si può ritornare alle vecchie abitudini!” o “non è possibile ritornare al passato!” sono frasi che sentiamo spesso, pronunciate con un significato di condanna per comportamenti ritenuti inadeguati oppure di sollecitazione a mantenere uno stato di allarme per controllare la pandemia e soprattutto per non dimenticarla.
Non sempre si argomenta su ciò che di essenziale viene meno, soprattutto per alcune persone. Come ben riassume Grazia Mannozzi: “È mancata la prossimità fisica, il vedersi in carne e ossa, la possibilità di relazionarsi negli spazi comuni e nell’intervallo tra le lezioni, l’abitare spazi condivisi, aule, chiostri, caffetteria, è mancato il dialogo informale in cui il non verbale predomina sulle parole”. Alla fin fine è stata assente o molto ridotta la corporeità della presenza,
La prossemica, disciplina semeiologica che studia, il comportamento, i gesti, lo spazio e le distanze nella comunicazione, sia verbale sia non verbale, ha addirittura con T. H. Hall (La dimensione nascosta, 1968) misurato in cm e metri la qualità delle relazioni interpersonali: essa è definita intima, personale, pubblica e sociale in base alla distanza misurabile (la prima è quella minima, l’ultima quella massima), esaminando la società americana di allora. Anche gli studi etologici vanno in questo senso, attraverso una ritualizzazione dei comportamenti, che sono stati osservati e descritti: gli studi di Hall continuamente si confrontano con quelli etologici.
Si deve poi puntualizzare che la presenza/esistenza di un essere vivente si muove non solo in uno spazio tridimensionale, ma anche in una quarta dimensione, quella culturale, come sosteneva Umberto Eco (La struttura assente, 1996). Infatti in varie culture, la distanza/vicinanza è regolamentata in modo rigido e continuo, si potrebbe dire “naturale”, “ovvio”, dall’appartenenza ad una classe sociale, mentre nelle società più aperte si può osservare lo schema di Hall, pur con i suoi limiti.
La presenza, come si è visto, si declina in svariate modalità interpersonali e sociali, ma nella sua essenza originaria è pre-culturale, fondandosi sul corpo: parlo di quella zona del c’è preliminare, a partire dalla quale si ritaglia ogni nostra possibile esperienza del corpo, degli oggetti e del mondo. Ma tale esperienza corporea è ambigua perché vi è un’arcaica compenetrazione fra corpo che percepisce mediante tutti i sensi, che via via si attivano, e il corpo che comunica: nelle relazioni umane si dispiegano entrambe e contemporaneamente queste dimensioni, che consideriamo a sé stanti solo ed esclusivamente per motivi espositivi.
Ben sappiamo che allorché, per semplificare, alcuni sensi sono alterati, la comunicazione deve svolgersi mediante strumenti o modalità specifiche.
È possibile considerare la presenza a distanza come qualcosa che non consente a tutte le percezioni corporee di essere attive? La vista e l’udito sono certamente sovrastimolate dalle nuove tecnologie, mentre il tatto, l’odorato e l’olfatto sono silenziate nella relazione a distanza, come pure la gestualità può essere molto ridotta.
La mancanza di prossimità e di fisicità, così necessaria nell’adolescenza, è stata considerata ad esempio alla base delle numerose scorribande e battaglie di giovani, avvenute nei periodi di cessazione del lockdown.
La presenza è, per concludere, qualcosa che rimanda alla costruzione della persona ed al suo equilibrio psico-fisico: è indispensabile sapere che ogni scelta fatta nella pratica quotidiana ha delle conseguenze da conoscere nei dettagli. Questo non per impedire le scelte, ma per farle con la massima riflessione e consapevolezza.