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La battaglia di Fantina Polo

Fantina Polo
Fantina Polo

È il 12 luglio 1366.

Siamo a Venezia, a Palazzo ducale, sede maestosa della nascente Serenissima, forte sui mari che compongono il Mediterraneo, regina dei mercati internazionali.

Sono riuniti a consiglio i giudici Marco Dandolo, Giovanni Michiel e Natale Ghezzo - con un notaio di cancelleria e tre funzionari (gastaldi) ducali.

Sono chiamati a emettere sentenza su una causa sottoposta alla loro giurisdizione: la restituzione dei beni che costituiscono la dote di una signora, oramai vedova.

La signora, che si è presenta in Tribunale accompagnata dal suo avvocato, è chiamata a dar conto del patrimonio ricevuto in dote da suo padre. E così, leggendo da due carte che si è portata appresso, e che presentata in udienza, inizia ad elencare:

sete da cavallo numero 40,

redini da cavallo lavorate “alla cinese” numero 2,

cinture d’argento numero 6,

un guarnimento bianco “alla tartaresca”, e uno d’oro,

rabarbaro sacco 1,

tappeti numero 12,

un drappo tessuto a oro lavorato a scacchi,

un drappo tessuto a oro splumado,

un drappo color rosso sanguigno tessuto a oro,

un drappo di seta lavorato “alla cinese”,

drappi tessuti a oro blavi numero 3,

pezzi di stoffa tessuti a oro numero 3,

chavezi di seta vermiglia tessuta a oro -  tra piccoli e grandi - numero 16,

altri chavezi di seta -  tra piccoli e grandi - numero 91,

fazoli lavorati a oro numero 5,

bossoli grandi con muschio [serve come base per fare profumi] numero 3,

un sacchetto di pelo della bestia [cachemire],

una tavola d’oro grande “de comandamento”,

un sacco con legno aloe,

casselle con peroli d’ambra numero 537,

anelli con rubini e turchese numero 3,

anelli d’oro e argento numero 6,

pezze di tela di seta bianca e gialla del Catai,

pezze di seta vermiglia e gialla lavorata a rose,

un drappo di seta “a modo di cuscino, bello”,

una pezza di seta che “quasi cambia color”,

un drappo di taffetà a fiori con fili d’ oro,

un drappo di seta “a stranii animali” [i draghi],

una cappa d’oro e una giuppa vermiglia,

pezze 10 di drappi di seta “sanguigna”, gialla, verde, “negra a rosette”,

una pelliccia “pelosa e blancha”,

coltri e trapunte di chamoco numero 3 lavorate “alla tartaresca”,

coltri di velluto, di lana e di seta di vari colori, lavorate con l’oro a foglie, e una lavorata a leoni “molto bella”, e un’altra ancora di più colori dipinti, anch'essa “molto bella”.

Non mancano i beni consueti, da sempre destinati a costituire le doti, e da sempre presenti in questa tipologia documentaria: letti, lenzuola grandi e belle, tovaglie, bacili, casselle (cioè cassetti, contenitori, piccoli bauli) grandi e piccole di noce, pentole grandi da fornello.

Un patrimonio straordinario per quantità di beni materiali ma soprattutto assolutamente anomalo: a tre fanciulle – risultano infatti tre le sorelle cui questi beni, equamente divisi, sono destinati dal padre: Fantina primogenita, Moreta e Belella – e per di più veneziane, cosa può interessare ricevere in dote: redini e sete da cavallo?

E cosa ci fanno loro con un sacchetto di rabarbaro, con ambra, aloe e muschio, (che è un prodotto di base usato nella fabbricazione dei profumi)?

E tutti questi drappi di seta e lino, lavorati con fili d’oro, a rose, a stranii animali?

E come si spiega questo ricorrere di specificazioni nella lavorazione dei tessuti o degli oggetti: “alla cinese”, “alla tartaresca”?

E che strano oggetto può essere una tavola d’oro grande “de comandamento”?

Ritorniamo al documento qui pubblicato (una pergamena di quasi un metro d’altezza per mezzo metro di base) e scopriamo che questa signora, la protagonista, la grande attrice che muove le fila di tutto, e mette in moto la giustizia veneziana, e porta in aula i suoi documenti, e risponde sicura alle richieste dei giudici e ribadisce le sue ragioni con forza, è donna dal DNA particolare: degna figlia di un grande viaggiatore, forse il più illustre e noto nel mondo, Marco Polo.

Venezia conserva di lui alcuni documenti, tra cui il testamento, redatto l’8 gennaio del 1324, poche ore prima di morire.

Ma si tratta di poche righe, che hanno lasciato a bocca asciutta tutti gli studiosi che si sono occupati del veneziano peripatetico: visto che si limita a nominare appunto la moglie Donata e le tre figlie Fantina, Moreta e Belella, omnes tre equaliter heredes universales di tutto il suo patrimonio, del quale tace accuratamente, nemmeno avesse al suo fianco qualche solerte funzionario dell’Agenzia delle Entrate...

A recuperare lo strepitoso portato informativo degli affari di casa Polo ci pensa appunto Fantina: consapevole dei propri diritti, fiduciosa nelle leggi della città, si rifiuta di accettare il rapace comportamento prima del marito, poi della famiglia di questi, e chiede giustizia al tribunale che si occupa (e siamo nella seconda metà del Trecento!!!) di materia ereditaria e di “diritto di famiglia” (curatele, tutela delle donne rimaste vedove e dei pupilli, ovvero degli eredi in minore età, giudizi nelle cause di separazione tra coniugi).

Quale l’antefatto?

L’8 gennaio 1324 nella casa a San Giovanni Grisostomo, non lontano da Rialto, nel cuore più antico della città, muore Marco Polo e si apre il suo testamento.

La moglie Donata e le tre figlie sono eredi universali: di quale patrimonio al momento non è dato di sapere alcunché.

Ma c’è qualcuno che scalpita per procedere immediatamente alla divisione: è Marco Bragadin, marito della primogenita Fantina, che si insedia all’istante nel palazzo di famiglia, dove hanno abitato per decenni, insieme, i vari rami della famiglia Polo, uniti in una mirabile comunione di beni, di interessi e di rapporti costruiti nella lunga, condivisa attività di mercanti.

E sempre il Bragadin si occupa anche di dare il via alla divisione ereditaria, che si chiude quindi a soli due mesi di distanza dalla morte di Marco Polo, con il nulla osta delle altre coeredi.

È di mano proprio del Bragadin l’inventario dei beni mobili, quelle due carte che Fantina ha portato con sé in Tribunale, con l’elenco di arnesie, massericie, suppelectilia, lasciate dal defunto, quell’elenco che abbiamo (solo in piccola parte) letto all’inizio di questa storia, e che divisa fuerunt in tres partes ut tres erant sorores.

Ma qui inizia il contenzioso: come dichiara Fantina quarant’anni dopo in aula, di questa terza parte del patrimonio ipse dominus Marcus Bragadino fecit quicquid voluit, nulla domine Fantine de tercia sua parte predicta unquam aliqua ratione ostensa et reddita seu restitutione facta.

Di questa terza parte di beni [ereditata da Fantina] Marco Bragadin fece ciò che volle, senza mostrare mai alla sua signora Fantina alcuna rendicontazione, o guadagno realizzato, e senza mai provvedere a restituirgliela.

È a questo punto che i Giudici chiedono nel dettaglio in che cosa consista questa tercia parte. E ce lo domandiamo anche noi.

E Fantina, che da vera figlia di mercante conosce il valore della documentazione scritta e la conserva, produce le sue prove alla Corte.

Quindi, quello che abbiamo esaminato prima, è solo la terza parte dell’immenso patrimonio che il padre ha portato dalle favolose terre dei Tartari, del Catai, della Cina…

Compresa quella tavola d’oro grande “de comandamento”, che secondo gli storici è da intendersi come una delle tre tavole d’oro consegnate dal Gran Chan della Cina ai tre viaggiatori, Niccolò padre, Matteo zio e Marco, come lasciapassare nelle terre del suo infinito regno.

Una breve premessa (necessaria pur, nella sua brevità, lacunosa e parziale).

Venezia conserva la tradizione giuridica elaborata dal mondo romano in merito alla dote: patrimonio assegnato alla figlia che va sposa, e che entra nella disponibilità del marito, pur restando a suo carico l’onere della restituzione alla donna in caso di premorienza.

È per l’appunto il caso di Fantina, perché a quest’epoca Marco Bragadin è morto.

Ma nella grande pergamena che vedete scorrere si leggono molti antefatti, che Fantina si prende tutto il tempo di illustrare prima di arrivare al dunque:

le continue verba et litigationes sull’argomento tra marito e moglie, che finiscono più e più volte dal notaio per cercare un accordo.

Ad esempio nel 1330, pochissimi anni dunque dopo la divisione ereditaria: il primo dice di aver avuto parte del patrimonio a titolo di donazione, quindi irrevocabile; lei afferma “Ma neanca per sogno”.

E poi di nuovo nel 1354 Fantina si rivolge ad un altro Tribunale per far stimare in modo ufficiale la sua terza parte - calcolata tra argentiis, arnesiis, musclo ed altro - e a questa stima il Bragadin non oppone alcuna controvalutazione ma prosegue imperterrito ad attingere al patrimonio dotale per portare avanti gli affari di famiglia;

due anni dopo, ancora i due coniugi si incontrano per la terza volta davanti al notaio e in quest’occasione il Bragadin chiede a sua moglie di desistere dal molestarlo…

Bene, ora che il marito è morto, qual è il problema?

Fantina ne è ben consapevole: il patrimonio di Marco Bragadin (comprensivo dunque della dote della moglie) è stato - per volontà di lui - alla sua morte affidato in amministrazione ai Procuratori di San Marco: pratica molto comune a Venezia e che la dice lunga sulla fiducia dei cittadini nei confronti dei loro governanti.

I Procuratori di San Marco sono la più alta carica dello Stato dopo il Doge.

Siamo dunque arrivati al punto: Fantina, sapendo che la legge le riconosce tutte le ragioni del mondo, ha la forza ostinata di chi chiama a rispondere del suo operato appunto la seconda più alta carica dello Stato, esigendo la restituzione pro valore, quindi in valuta equivalente, della sua tercia parte.

A questo punto la Corte dà la parola ai tre Procuratori che tentano di giustificare il loro operato: negano il credito di Fantina sul patrimonio da loro amministrato, e negano il valore probatorio dei due documenti prodotti dalla donna con l’inventario dei beni.

Ma è una difesa debole.

La Corte interpella nuovamente Fantina, la chiama a giurare ad sancta Dei Evangelia: sull’autenticità di tutti i documenti prodotti; sull’effettiva presa di possesso della casa paterna da parte del defunto marito; sull’effettiva sua esclusione - attuata in vita dal Bragadin - rispetto all’amministrazione del patrimonio a lei tangente.

Conclusa la procedura, così sentenziano i tre Giudici per iusticiam et ex vigore sui officii: preso atto delle testimonianze esibite da ambo le parti  [visis, auditis, et diligenter intellectis peticiones, responsiones, iura et raciones ambarum partium], riconosciuti come autentici i due documenti esibiti da Fantina contenenti l’inventario dei beni dotali [et visis suprascriptis duabus cedulis bombicinis  scriptis manu dicti condam domini Marci Bragadino approbatis], e le molte altre carte da lei prodotte, tra cui la divisione patrimoniale tra sorelle  e il testamento del marito, sono tenuti i Procuratori di San Marco – amministratori della commissaria di Marco Bragadin - a consegnare alla suddetta Fantina, vedova del suddetto Marco Bragadin, l’equivalente della sua terza parte, comprensiva anche del profitto maturato, ovvero  pro et ratione dicte sue tercie partis rerum et bonorum a partire dal momento in cui i beni entrarono nella potestà del marito fino al momento in cui lo stesso riconobbe la sua obbligazione, prima quindi che potessero essere utilizzati e valutati e venduti al ribasso [perfruari, et viliori pretio fieri et deterioris et debelioris valoris].

Pezzi unici

2ª puntata di Pezzi unici sul Canale YouTube dell’Archivio di Stato di Venezia.

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