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La cattedra nomofilattica e altro ancora: i mantra della giurisprudenza di legittimità

Giurisprudenza di legittimità
Giurisprudenza di legittimità

Indice

1. La “cattedra nomofilattica” (la terminologia scolastica)

2. La decisione “saldamente ancorata” (la marineria e l’edilizia)

3. La “prova di resistenza” (i corsi di sopravvivenza)

4. La necessità dell’autosufficienza”

 

Chi scrive di diritto non può ignorare il significato che ad esso viene attribuito dalla Corte suprema di cassazione.

È il giudice che, per attribuzione ordinamentale, fissa il diritto oggettivo dello Stato, quello che dovrebbe valere per tutti i cittadini, indirizzare le decisioni delle corti di merito e assicurare la ragionevole prevedibilità degli esiti delle procedure giurisdizionali.

È, appunto, un giudice “supremo” e la sua supremazia è quella di chi ha l’ultima parola e quindi, per definizione, non sbaglia mai.

Un potere tremendo, che ha molto a che fare con la ragione giustificativa della rubrica di cui questo scritto è parte.

Il diritto penale ha un ruolo sempre più importante nelle politiche legislative contemporanee e chi ne definisce il senso e gli effetti diventa per ciò stesso un protagonista di primo piano della vita pubblica ed entra in profondità nelle vite private.

Non si esprime alcun giudizio su questo fenomeno, ci si limita a constatarlo.

Si indicano invece alcuni segnali linguistici, tutti tratti da sentenze archiviate nella banca dati Italgiure della Corte di Cassazione, che sembrano adatti a svelare, in termini puramente indiziari, il modo in cui il giudice supremo guarda a se stesso e alla propria funzione.

Nessuno di essi ha un valore generalizzato ed anzi alcuni possono essere considerati di nicchia ma l’interesse rimane.

 

1. La “cattedra nomofilattica” (la terminologia scolastica)

In cinquantaquattro sentenze delle sezioni penali della Corte di Cassazione è usata l’espressione “cattedra nomofilattica” e l’estensore è sempre lo stesso. Capita talvolta che se ne serva in modo più esteso, ad esempio così: “criteri direttivi impartiti da questa Cattedra nomofilattica”. Così come può capitare che l’estensore, una volta inserito questo periodo, si chieda se nella decisione impugnata si sia fatto “buon governo” di quei criteri.

L’uso della maiuscola pare in questo caso direttamente riconducibile alla natura suprema del giudice di legittimità e alla necessità di enfatizzare ciò che da lui promana e incutere il giusto timore reverenziale in chi ne riceve la parola. In un singolo caso, infine, si è parlato di “suprema Cattedra nomofilattica” ed è il tributo che l’estensore riserva alla venerabilità delle Sezioni unite, in altro passo definite “supremo Collegio”.

In centoottantaquattro decisioni si fa riferimento alla “lezione ermeneutica” impartita dai giudici di legittimità, in un numero ancora maggiore la lezione diventa interpretativa e in altre cinque si trasforma in esegetica.

Complessivamente il termine “lezione” appare in circa 900 sentenze ma è corretto eliminare i non pochi casi in cui qualcuno ha voluto dare una lezione a qualcun altro in termini vietati dalla legge penale.

La cifra diventa stratosferica (oltre 12.000 casi) se si utilizza come chiave di ricerca la parola “insegnamento” cui vengono solitamente abbinati aggettivi come autorevole, consolidato, tradizionale, costante, concorde ma anche (e purtroppo, perché significa che è mancato il buon governo) dimenticato, discostato (da), ignorato, tradito, in un crescendo drammatico.

Data questa complessiva terminologia e la sua non trascurabile diffusione, non è troppo irrispettoso ipotizzare che almeno un certo numero di magistrati della Corte di cassazione si “pensino” come maestri cui spetta dare lezioni, controllare se i discenti ne hanno tratto frutto e rimproverare chi è stato disattento o svogliato.

A portare questa constatazione alle sue estreme conseguenze e non dimenticando l’attuale pervasività del diritto (penale ma non solo), si potrebbe arrivare ad immaginare una comunità costituita da qualche centinaio di maestri e da varie decine di milioni di alunni. Poi, come sempre, qualcuno ne sarebbe felice, qualcun altro mugugnerebbe, qualcun altro ancora proverebbe a svignarsela.

 

2. La decisione “saldamente ancorata” (la marineria e l’edilizia)

Poco meno di 1.800 sentenze si servono di questa espressione.

Si consideri che l’ancoraggio è un termine proprio sia della marineria che dell’edilizia.

Nel primo caso indica il luogo in cui un natante può gettare l’ancora per l’ormeggio o la relativa manovra, nel secondo caso il dispositivo che fissa al suolo strutture sottoposte a particolari sollecitazioni o collega tra loro le parti di una struttura.

Il saldo ancoraggio è, va da sé, proprio delle decisioni impugnate (meglio: del loro “percorso argomentativo”) e il punto di aggancio è costituito dalle “risultanze processuali” o, in alternativa, dalle “emergenze probatorie” o dal “compendio probatorio”.

Molto spesso l’apprezzamento per la decisione contestata raddoppia con il riconoscimento della sua “chiara e puntuale coerenza argomentativa”.

Altrettanto spesso l’ancoraggio e la coerenza equivalgono a un biglietto di sola andata verso l’inammissibilità del ricorso.

Si può quindi concludere che in quei 1.800 casi la navicella giurisdizionale (o l’opera cantierizzata) ha superato indenne ogni avversità atmosferica approdando in un porto sicuro.

È andato invece incontro a un destino opposto l’altro natante, quello della difesa, schiantandosi contro le insuperabili barriere che lo separavano dalla meta. 

 

3. La “prova di resistenza” (i corsi di sopravvivenza)

Più di 900 decisioni si avvalgono della locuzione “prova di resistenza”.

È tale, secondo la “Cattedra nomofilattica”, l’obbligo, cui è sottoposto chi lamenti l’inutilizzabilità o la nullità di una prova dalla quale siano stati desunti elementi a carico, di illustrare l’incidenza decisiva della loro eventuale eliminazione.

Non è un impegno da prendere alla leggera: se il ricorrente non lo rispetta, la sua impugnazione sarà considerata “aspecifica” e quindi inammissibile; se lo rispetta ma non riesce a dimostrare che l’eliminazione dei dati inutilizzabili o nulli travolge anche gli altri, l’impugnazione sarà rigettata.

L’espressione qui in esame rimanda a varie possibili situazioni.

Vengono in mente i corsi di sopravvivenza, cioè le occasioni formative in cui si impara a fare a meno delle comodità e degli ausili tecnologici e resistere ciò nonostante a condizioni avverse.

Sono propagandati con slogan che fanno leva sul nostro retaggio ancestrale, del tipo “non sfidare la natura, sfida te stesso” e proposti alla potenziale clientela con formule accattivanti, come ad esempio “adrenalina pura”.

Pare proprio un marketing azzeccato se un grande della storia come Winston Churchill, dopo essere scampato a un attentato, disse che “Niente è più emozionante nella vita che vedersi sparare addosso e non essere colpiti”.

Si potrebbe anche pensare agli stress test ma si crede di avere già reso l’idea e non si insiste.

 

4. La necessità dell’autosufficienza”

Oltre cinquemila sentenze enunciano il sacro principio dell’”autosufficienza”.

Meglio spiegarlo con le parole di una di esse: il ricorrente non si avvede che era suo onere far risultare tale ultima circostanza (non documentata dalla sentenza impugnata) mediante modalità idonee, quali l’integrale riproduzione in ricorso del relativo passo del verbale di udienza, l’allegazione in copia, o, quanto meno, l’individuazione precisa dell’atto nel fascicolo processuale di merito, in modo da non costringere la Corte di cassazione alla lettura indiscriminata del fascicolo stesso e ad una ricerca “al buio”.

In queste poche ma chiarissime righe c’è tutto quello che serve.

Vuoi che il giudice di legittimità ti prenda sul serio? Vuoi che creda alla verità che affermi? Se lo vuoi davvero, non ti basta proclamarla, devi portarla fisicamente dentro il Palazzaccio, incorporata (o, se si preferisce, saldamente ancorata) nel ricorso. Non ce l’hai, non te la trovi tra le tue carte? Ti consento un’alternativa ma bada che è l’ultima, oltre non c’è più nulla: individua con rigore euclideo l’atto da cui desumi la tua verità e dimmi con altrettanta precisione dove si trova e quali sono la pagina e il rigo che dovrei leggere.

Non lo vuoi fare? Pretendi di costringermi a una “lettura indiscriminata”? Addirittura ti salta in mente di impormi una “ricerca al buio”? Se è così, non sei autosufficiente e chi non basta a se stesso va incontro all’inammissibilità.

Anche per questo aspetto vengono in mente per assonanza una miriade di situazioni, accomunate dalla condizione di qualcuno che non ha ancora imparato a fare, ha dimenticato come si fa, ha perso la capacità di fare, non ha avuto la possibilità di fare: nella normalità delle relazioni umane a questa condizione di difficoltà si reagisce con l’aiuto e la solidarietà.

Non così di fronte alla Cattedra nomofilattica: la sua supremazia, i suoi compiti e i suoi flussi di lavoro non contemplano la solidarietà tra le opzioni possibili.