La devianza giovanile nella Criminologia svizzera

Sibillini, prati ragnolo e casetta rossa
Ph. Gianluca Scalpelli / Sibillini, prati ragnolo e casetta rossa

La corretta nozione di “delinquenza giovanile”

Come precisato da Blatier (1999), “il delitto è caratterizzato dalla proibizione stabilita da parte della Legge […] [tuttavia] troppo spesso la delinquenza è confusa con i comportamenti devianti e ciò contribuisce all’aumento di un’incomprensione sociale all’interno dell’opinione pubblica, troppo spesso prona nei confronti delle informazioni provenienti dai mass-media”.

In effetti, l’esperienza quotidiana dimostra la differenza tra devianze illecite e devianze anti-sociali, ancorché non anti-giuridiche. Per esempio si ponga mente ai comportamenti boderline che, tuttavia, non recano a trasgressioni tipicamente e specificamente illegali. È quantomai indispensabile, all’interno di un serio contesto criminologico, distinguere tra il lemma “delinquenza” ed il lemma “devianza”, in tanto in quanto una devianza non etero-lesiva, benché eccentrica, non costituisce alcun atto delinquenziale sotto il profilo tecnico-giuridico.

Del resto, un comportamento emarginante ed anticonformista non coincide, sempre e comunque, con una condotta infrattiva dal punto di vista penale. Molto pertinentemente, Aebi (2008) ha precisato che “le nozioni di delinquenza e, viceversa, di comportamento deviante sono una costruzione sociale […]. Esse, per conseguenza, sono il risultato di interpretazioni realizzate in funzione del tempo e dello spazio e non sono fisse, poiché si evolvono nel corso del tempo”.

A parere di chi scrive, tuttavia, Aebi (ibidem) dimentica l’altrettanto vera sussistenza di tematiche meta-normative e meta-geografiche caratterizzate da una valenza perenne, come dimostrano delitti universalmente non condivisibili, quali la pedofilia, l’incesto, il furto indiscriminato o l’omicidio volontario privo di qualsivoglia giustificazione scriminante. A sua volta, Cusson (1981) asserisce che “la delinquenza è sottoposta alle variazioni della vita politica o morale”, pur se chi commenta ribadisce la ragionevole nonché indispensabile sussistenza di taluni minimi divieti legali e morali non soggetti a mutazione alcuna.

Ciononostante, rimane l’allarme cagionato dal presunto aumento della delinquenza giovanile, anche in Svizzera, ove abbondano le Statistiche, sempre più precise, sulle devianze post-infantili, senza poi contare, come specificano Simonin & Killis & Villettaz (2004) la maggior severità delle Polizie Cantonali elvetiche nei confronti delle infrazioni penalmente rilevanti perpetrate da adolescenti e post-adolescenti. Nella Criminologia svizzera, Harrati & Vavassori & Villerbu (2006) reputano che i reati minorili e giovanili “sono sempre esistiti e non v’è un grande aumento dei casi [ … ] Chi ruba un uovo non ha bisogno del carcere e non sarà per sempre un recidivo [ … ] Un delitto bagatellare non fa di chi l’ha commesso un delinquente abituale”.

Nella Confederazione elvetica, la maggior parte degli Autori in ambito criminologico rimarca che non esiste un vero e proprio aumento della criminalità adolescenziale e, per conseguenza, gli allarmismi televisivi e giornalistici risultano privi di un fondamento reale e scientifico.

Cusson (ibidem), giustamente, sottolinea che “praticamente tutti gli adolescenti commettono dei reati, e non solamente i figli di pessima famiglia. La trasgressione ed il confronto con la Legge diviene necessario, ad una certa età, specialmente durante il delicato passaggio dall’infanzia all’età adulta, dove la delinquenza può essere definita iniziatica od ordinaria. In altri casi, siamo di fronte ad una delinquenza di esclusione, frutto di condizioni di vita diventate difficili, per esempio a causa della mancanza di lavoro. Infine, ci può essere una minoranza di casi nei quali la delinquenza diviene patologica”.

In buona sostanza, la su esposta tripartizione criminologica di Cusson (ibidem) costituisce un’esortazione a sdrammatizzare la natura istrionica e bizzarra di talune condotte giovanili il cui definitivo impatto lesivo anti-normativo è pari a zero.

L’adolescente infrattore vive il reato come una reazione all’ordine costituito e prova un piacere traumatofiliaco nel trasgredire le regole. Si consideri pure, del resto, l’influsso dei coetanei e del c.d. “gruppo”, ma, nella maggior parte delle fattispecie fattuali, trattasi di illeciti di calibro ridotto e aventi un mero valore simbolico di sfida al mondo degli adulti. In ultima analisi, l’adolescente abbandona l’infanzia violando le regole, ma questo non reca necessariamente alla recidiva. Viceversa, nell’immaginario collettivo, qualunque carriera criminale sarebbe erroneamente fondata sul falso e populistico trinomio deterministico stupro-omicidio-rapina. L’individuo in evoluzione pone in essere una rivolta, un tentativo di auto-sopravvivere, una ricerca di alternative.

 

Comportamenti delinquenziali

Mailloux (1979) [cit. in Cusson, 1981] sottolinea, senza giustizialismi ed ideologismi, che “l’unica causa effettiva di un crimine non è altro che colui che lo commette: il criminale, vale a dire un uomo libero e responsabile delle proprie azioni: e sottomesso, come ciascuno di noi, nel corso della propria esistenza, a variabili suscettibili di indebolire la sua lucidità ed il suo auto-controllo”.

È molto interessante, dal punto di vista etimologico, rimarcare che il lemma “delinquente” è connesso alla radice latina “relinquere”, abbandonare (le regole). Anche Harrati & Vavassori & Villerbu (ibidem) precisano che “il termine delinquere evoca, propriamente, un allontanamento dalle norme stabilite dalla società. Sicché si considera l’individuo de-linquente come colui che va contro le leggi, le norme e l’ordine sociale. È solo a partire dal XIX Secolo che la nozione di delinquenza si è tecnicamente formata ed è anzitutto divenuta una nozione giuridica”.

Oltretutto, in francese e in italiano, il lemma “delinquente” è un participio presente, quindi siffatto termine non indica o, perlomeno, non dovrebbe indicare una situazione statica e definita, bensì dinamica e provvisoria.

In secondo luogo, alla luce della tipicità stretta del Diritto Penale sostanziale, delinque soltanto chi viola una norma de jure condito vigente e di matrice penalistica; pertanto, è tassativamente esclusa una qualificazione analogica degli attributi “delinquente” e “delinquenziale”.

Con lodevole precisione giuridica, Queloz (2007) ribadisce che “la delinquenza non è uno stato o una natura particolare, donde l’importanza di evitare ogni giudizio morale a tal proposito. Dal punto di vista del Codice Penale [svizzero] esistono diversi tipi di infrazione penale: le contravvenzioni, p.e. quelle relative al codice della strada, i delitti, p.e. il furto, la truffa e l’uso di stupefacenti; e, infine, i crimini, come p.e. le aggressioni sessuali, gli omicidi, le torture, gli atti di barbarie ed il traffico di stupefacenti”.

Più dettagliatamente, nell’ambito della Giuspenalistica svizzera, quasi il 90% dei reati è giuridificato nello StGB, nella legge federale sulla circolazione stradale, nella BetmG (Artt. 19 e sgg.), nella legge federale sulle armi da fuoco, sugli accessori delle armi da fuoco e sulle munizioni, nella legge federale sull’alcol e nella legge federale sulla vendita e sull’importazione delle bevande alcoliche.

Si consideri pure, sempre dal punto di vista criminologico, che, nella maggior parte degli Autori criminologici elvetici, il lemma “delitto” ha rilevanza giuridica soltanto se esiste anche una “vittima del reato”, la quale è tale esclusivamente non nelle fattispecie infrattive a pericolosità astratta.

Meno tecnicamente, il belga Born (2005) definisce i comportamenti delinquenziali giovanili come “l’insieme delle infrazioni [giuridiche] (crimini e delitti) definiti tali dalle leggi e commessi da persone di meno di 18 anni d’età. Se tale insieme è accertato dalla PG e dall’AG, il responsabile minorenne potrà/potrebbe essere sanzionato con una misura “.

 

Comportamenti devianti

Anche il lemma “de-viante” indica l’abbandono della vita conforme alla legalità, l’opposizione alle regole, quindi la trasgressione. Nella Criminologia degli Anni Sessanta del Novecento, anche in Svizzera, il lemma “devianza” significa uscire dalle regole ed iniziare un cammino delinquenziale, breve o lungo che sia, non ammesso dall’ordinamento giuridico e/o collettivo. Di solito, nella Criminologia elvetica francofona, la devianza contempla i seguenti tre momenti: una norma data, la violazione di tale regola, quindi, infine, una reazione sociale di disapprovazione. Ora, fatto salvo uno “zoccolo duro” di condotte metatemporalmente e metageograficamente illecite, è pur vero che taluni comportamenti devianti tipici di un’epoca e/o di una zona non lo sono in altri contesti temporali e/o territoriali.

Per esempio, il razzismo, persino l’atto del fumare o l’inquinamento non costituivano né costituiscono valori normativi universali. Alla luce di siffatta mutabilità giuridico-valoriale, Harrati & Vavassori & Villerbu (ibidem) affermano che “le trasgressioni non costituiscono tutte una devianza sotto il profilo ontologico. In effetti, trasgredire certe norme sociali consente anche di rimettere in questione taluni principi e taluni valori, il che può contribuire all’evoluzione della società. Tutta la nostra vita sociale è organizzata in funzione di norme e di codici e questo implica che ciascuna cultura ha la propria lista di comportamenti devianti”.

Chi redige sottolinea, in ogni caso, la sussistenza di divieti universali in grado di garantire, tra l’altro, un minimo di rispetto sociale e di progresso umano all’interno di qualsivoglia civiltà. Per esempio, si ponga mente alla condannabilità perenne dei genocidi e dei trattamenti disumani all’interno dei campi di concentramento nazional-socialisti. Entro tali limiti di decenza socio-normativa, Born (2005) giunge ad asserire che “una norma sociale è sempre inserita in un determinato contesto culturale. La devianza presuppone, dunque, un processo di definizione giuridica nonché una dichiarazione concreta ed esplicita. La società stabilisce, quindi, se un comportamento sia normale oppure a-normale.

È attraverso la società, le sue regole, le sue norme e le sue leggi che l’atto delinquenziale viene definito”. Tuttavia, Harrati & Vavassori & Villerbu (ibidem) nonché Born (2005), secondo chi scrive, recano almeno due lacune definitorie.

In primo luogo, non è predefinito un insieme immutabile di regole minime in grado di preservare i gruppi sociali dall’auto-distruzione. Per esempio, l’omicidio volontario reca il limite universale della legittimità nei soli casi dell’autodifesa o, se ammessa, della pena di morte istituzionalmente comminata.

In secondo luogo, sussistono comportamenti devianti non anti-giuridici. In questo caso trattasi di una devianza nei cui confronti il Diritto Penale non è in grado di fornire una risposta e gli strumenti rimediali, in tal caso, non possono recare una natura prettamente o solamente giuridica. Anche in tema di delinquenza minorile, il Diritto si rivela, talvolta, inadeguato di fronte alla perenne problematica della sfida etica dell’adolescente al mondo normativo degli adulti. Oppure ancora, per esempio, un senza fissa dimora pone alle Istituzioni un caso di devianza sociologica ancorché non illegale. L’Ordinamento giuridico non costituisce la risposta ad ogni tipo di comportamento deviante, come dimostra la fattispecie emblematica del colossale fallimento del sistema penitenziario neo-retribuzionista statunitense. La figura del deviante non coincide, in maniera deterministica, con quella dell’infrattore perseguibile a norma di legge.

 

Teorie criminologiche in tema di devianza

La teoria della tensione, fondata dallo statunitense Merton, reputa che ogni società si fonda su delle finalità culturali specifiche e, principalmente, sulla “riuscita sociale“. Di riflesso, ogni consociato dispone di taluni mezzi istituzionali che consentono di pervenire al fine della società. Tuttavia, il soggetto che non perviene al raggiungimento di questi fini tenterà di raggiungerli con mezzi diversi e, talvolta, illegali. Come si può notare, questa teoria sottolinea le disuguaglianze sociali e la difficoltà, da parte dei consociati, ad essere accettati dal sistema allorquando essi non ne fanno parte.

Una seconda teoria assai diffusa nell’Occidente europeo è quella del controllo sociale, secondo cui i comportamenti delinquenziali costituiscono il risultato di una scolarizzazione inadeguata o carente. Questa teoria evidenzia un indebolimento dei ruoli sociali tra i giovani e, dall’altro lato, le agenzie di controllo costituite dalla famiglia e dalla scuola. Quando viene meno il controllo familiare, ai genitori si sostituiscono i coetanei, che orientano l’individuo verso pratiche delinquenziali. La teoria del controllo sociale è vicina a quella delle “opportunità”. P.e, quando la famiglia non impedisce attività quali le uscite notturne del/della ragazzo/a, vengono favoriti reati e tossicodipendenze, in tanto in quanto l’adolescente non è sottoposto ad alcuna autorità in grado di controllarlo.

In terzo luogo, nella Criminologia elvetica e, più in generale, nel vecchio continente, reca un ruolo non secondario pure la teoria delle sotto-culture devianti, la quale postula una non uniformità delle norme di condotta regolanti il tessuto sociale.

Ora, nei gruppi criminogeni, giovanili e non, sono messe in atto abitudini e scelte comportamentali contrarie all’Ordinamento seguito dalla maggior parte dei consociati. Entro l’ottica di siffatta teoria, chi aderisce alle sotto-culture delinque, per lo più in forma associativa, come dimostra il crimine organizzato o quello eversivo. Tuttavia, chi redige avverte l’esigenza di specificare che un sotto-gruppo non sempre viola ordinamenti giuridici, ma, talvolta, soltanto ordinamenti di matrice comportamentale e, spesso, non in maniera anti-giuridica.

Per esempio, è frequente la fattispecie non criminosa di sette religiose lecite, ancorché generanti della devianza anti-sociale ancorché non anti-normativa. Dunque, come si può notare, gli strumenti rimediali della Giuspenalistica non sono né onnicomprensivi né sempre idonei alla risoluzione dell’antisocialità lecita.

Viceversa, nella Criminologia europea e, soprattutto, nordamericana, sovente la PG e l’AG creano condotte onnipresenti ed onnipotenti, come se il Diritto fosse in grado di ripristinare un ordine ed una legalità che rappresentano una mera utopia dittatoriale ed irrazionale. Il compito del giurista e del criminologo non è quello di azzerare la criminogenesi nei vari contesti sociali. Esisterà pur sempre quella “modica quantità di crimine“teorizzata da Christie all’interno dell’abolizionismo e del riduzionismo scandinavo. Inoltre, come prevedibile, la teoria della tensione presuppone la neutralizzazione o, in ogni modo, il contenimento dell’etero-lesività del delinquente, mentre il “social control“di Garland si lega, in modo pressoché spontaneo, alla pedagogia ed alla massimizzazione delle potenzialità culturali dell’adolescente.

A sua volta, poi, la teoria dei sotto-gruppi criminali tende all’eliminazione dell’individuo deviante, quale elemento di disturbo della pace sociale ordinamentalmente costituita. Di conseguenza, l’approccio criminologico sarà portato alla rieducazione del reo in contesti non retribuzionisti, mentre le Dottrine maggiormente rigoriste, come accade negli USA, sposano, preferibilmente, trattamenti penitenziari neutralizzanti. Purtroppo, l’Art. 75 dello schwStGB e, del pari, il comma 3 Art. 27 Cost., in Italia, non rappresentano affatto dei traguardi irreversibili.

 

La delinquenza passeggera non reca sempre a una carriera criminale

Un atto delinquenziale giovanile raramente porta l’adolescente ad una vera e propria carriera criminale.

Le Blanc (1984), a tal proposito, precisa che “è molto importante differenziare tra un comportamento delinquenziale temporaneo, che caratterizza la gran parte degli adolescenti e, viceversa, un comportamento che si inscrive in quella che certi Autori descrivono come una carriera criminale”. Anche Born (2002) rimarca che la c.d. “delinquenza transitoria “non ha alcun legame con la c.d. “delinquenza persistente”. In particolar modo, va decisamente sottolineato che il giovane delinquente di tipo occasionale si rende responsabile di reati bagatellari con poche recidive, mentre i minorenni ed i giovani adulti inseriti in una autentica carriera del crimine commettono delitti gravemente antigiuridici con frequenti recidive.

Tuttavia, la cronaca televisiva strumentalizza ultra vires gli episodi infrattivi dell’età adolescenziale, sicché, presso l’opinione pubblica, è presente lo stereotipo secondo cui la delinquenza giovanile sarebbe il prodromo ineliminabile e tassativo di una grave delittuosità anche nell’età adulta. Ovverosia, come riferisce Kaluszynski (1996), nel proprio trattato storico-criminologico, Dillon, nel 1905, giungeva, erroneamente, a postulare che “il piccolo malfattore diventerà, fatalmente, un grande criminale […] e ciò mette evidentemente in pericolo l’intero avvenire della nostra patria “. Sembra di essere di fronte agli scritti di Lombroso, il quale predicava la sussistenza di tare ereditarie criminogene ineliminabili.

In realtà, si tratta di affermazioni pseudo-scientifiche e fuorvianti, in tanto in quanto il minorenne deviante raramente reca innanzi le proprie condotte infrattive anche nell’età adulta, pur se non mancano, tutt’oggi, le voci dissenzienti, anche nella Criminologia occidentale.

P.e., Perretti-Watel (2001) sostiene che, seppur in pochi casi, “più l’ingresso nella delinquenza è precoce, più il rischio di persistervi è importante”. Anche Lagrance (2000) [cit. in Perretti-Watel – ibidem] si esprime in maniera deterministica e differenzia tra “delinquenza trasgressiva e delinquenza iniziatica […]. Nella maggior parte dei casi, la prima ha il tratto di una rottura temporanea con l’Ordinamento sociale e le origini familiari. Quanto alla seconda, molto presente nei cc.dd. quartieri sensibili, essa corrisponde, anzitutto e soprattutto, ad una trasgressione sociale che permette ai giovani di integrarsi nella sottocultura deviante locale e di entrare in un percorso di carriera delinquenziale”.

Chi commenta si dissocia fermamente da Perretti-Watel (ibidem) e da Lagrance (ibidem), in tanto in quanto né la famiglia né il quartiere né la sottocultura locale costituiscono fattori criminogeni. L’individuo non può e non deve recare uno stigma negativo a causa di fattori esterni che non sopprimono, in maniera algebrica ed assoluta, le capacità e le potenzialità personali. Del resto, nella prassi quotidiana, è evidente, all’opposto, che un’estrazione familiare alto-borghese non costituisce affatto un impedimento sicuro alle carriere criminali.

In effetti, più correttamente, Harrari & Vavassori & Villerbu (ibidem) si dissociano da consimili posizioni lombrosiane, in tanto in quanto “è necessario prendere in conto vari criteri, come l’età dell’individuo, la durata, la ripetizione e l’alternanza delle manifestazioni, l’insieme delle manifestazioni [criminali] sintomatiche, il tipo di atto delinquenziale/violento e la propria significazione psicologica per il soggetto, i settori colpiti e le risorse del giovane, gli aspetti del funzionamento psichico, l’età fisica e le perturbazioni organiche, le condizioni e le dinamiche familiari, sociali e scolastiche“. Si qualifica spesso in modo fretoloso un deviante, senza prendere in considerazione la complessità di tutti i parametri criminologici.

La stigmatizzazione non ponderata è condannabile, perché crea un’immagine distorta dell’adolescente, il cui carattere tende a cambiare radicalmente nel lungo periodo. Pure Queloz (2004) asserisce che “bisogna creare una griglia di lettura tra gli atti delittuosi che possono commettere gli adolescenti. Bisogna, infatti, introdurre una distinzione tra gli atti di insofferenza, gli atti perturbatori, gli atti derogatori, gli atti di trasgressione e gli atti attentatori “Come si può notare, nemmeno Queloz (2004) propone un’insulsa e fasulla visione deterministica in tema di infrazioni giovanili.

Analogamente, Born (2002) si affranca dal pessimismo giustizialista e retribuzionista, giacché “l’età dei vent’anni costituisce un’età di passaggio, una cerniera in cui il giovane deve prendere delle decisioni importanti, per esempio in tema di formazione o in tema di luogo di residenza. Il loro modo di vita si precisa in parallelo alla loro auto-consapevolezza delle responsabilità, soprattutto penali. Sicché, questi vari elementi condurranno ad un abbandono della delinquenza per la maggior parte dei giovani, ma potrebbero, del pari, rafforzare la delinquenza presso i ragazzi marchiati da lungo tempo a causa della loro vulnerabilità sociale“. Purtroppo, non mancano le voci dissenzienti.

P.e., Le Blanc (ibidem), con una surrettizia finalità retribuzionista, ha analizzato la criminalità minorile in Québec, giungendo alla distorta ed apodittica conclusione che “cinque meccanismi assicurano una radicalizzazione della delinquenza: la precocità, la stabilità, la gravità, la densità e la varietà delle attività delittuose. Quindi, più il grado di delinquenza è elevato durante l’adolescenza e più la probabilità di una criminalità adulta è grande. A livello di cifre, i Criminologi stimano che un po’più della metà dei giovani dichiarati delinquenti dai Tribunali minorili sarà condannata di nuovo nell’atà adulta”.

Chi redige non condivide le conclusioni di Le Blanc (ibidem) in tanto in quanto si è di fronte ad asserti troppo categorici ed afferenti ad una Statistica parziale e limitata ad un Paese nord-americano che non costituisce affatto un valido paradigma per la Svizzera e per l’Europa occidentale. L’errore di Le Blanc (ibidem) consta nel connettere tra di loro adolescenza e maturità, allorquando il dato esperienziale insegna che l’età evolutiva contiene molte diversità tra le varie fasce anagrafiche. In secondo luogo, il rischio di recidiva vale anche per i soggetti cc.dd. “non a rischio “, ammesso e non concesso che il contesto familiare e la precarietà abitativa provochino un effettivo “rischio criminogenetico”.

L’opinione maggioritaria, nella Criminologia svizzera, è che le devianze dell’adolescenza non conducono per nulla, sempre e comunque, ad una carriera criminale. Né, tantomeno, un’estrazione sociale rispettabile preserva da condotte giovanili illecite. Ogni fattispecie va, dunque, analizzata nel proprio contesto concreto.

 

I diritti del fanciullo, del minorenne e del giovane

Il modo migliore per dare voce agli adolescenti infrattori o, ognimmodo, potenziali infrattori, è quello di organizzare Statistiche di lungo periodo, come è già accaduto in Canton Zurigo con la Krista (Kriminellestatistik), guidata dai Professori Killias e Schwarzenegger. Senz’altro non è un’impresa facile, pur se l’uso del personal computer ha agevolato l’allestimento dei censimenti, soprattutto all’interno delle Istituzioni Scolastiche. A parere di Danic & Delalande & Rayou (2006), “studiare i comportamenti dei bambini o dei giovani può sembrare semplice, poiché essi rappresentano, per ciascuno di noi, una realtà massiva, tangibile e familiare […]. Ciononostante, gli Autori sollevano l’importanza di oltrepassare i pregiudizi che abitano nel senso comune, specialmente quando si crea una conoscenza attinente all’infanzia, perché bisogna evitare qualsivoglia preconcetto e conclusione affrettata”.

Quando si pone mano ad una Statistica specificamente adattata ai minori ed ai giovani, bisogna evidenziare che non è sempre scontato di avere accesso ad una popolazione fatta di minorenni, soprattutto quando si dispone di un breve periodo e di scarsi mezzi […]. La prassi dei Censimenti criminologici dimostra che non sempre si possono far partecipare giovani minori degli anni 18, anche nel caso in cui siano in età scolare. Infatti, si abbisogna di numerose autorizzazioni, tra cui quelle dei genitori. Viceversa, non si può allestire alcuna raccolta corretta dei dati.

Con afferenza alla tematica della privacy del minore degli anni diciotto, Hanson (2008) ha giustamente osservato che “di fronte a tali barriere si può notare una tensione tra protezione ed emancipazione. Sussistono due approcci, nella letteratura dei diritti del bambino [e del minorenne in età post-infantile]. Da un lato, si proteggono i minori dal dover fornire i cc.dd. dati sensibili, forse con il fine di proteggerli, come se vivessero nell’ovatta e con lo scopo ulteriore di non generare il loro cattive idee parlando di tematiche spinte.

Dall’altro lato, non si può ignorare il fatto che fenomeni come la delinquenza giovanile rappresentano l’occasione migliore per comprendere i giovani stessi “In effetti, chi scrive concorda con Hanson (ibidem) nel condannare, anche in Italia e nel resto d’Europa, l’irragionevole ipertrofia precettiva delle leggi sulla privacy, la quale è stata fatta pervenire sino alle estreme conseguenze, nel nome di una risibile nonché inutile protezione degli infra-18enni.

Entro tale diversa ottica realista e ragionevole, molti Autori, nella Criminologia elvetica francofona, hanno rimarcato che, senz’altro, bisogna fare un’attenzione particolare quando si censiscono minorenni, al fine di evitare manipolazioni o utilizzi abusivi delle risposte. Tuttavia, tale prudenza non deve far dimenticare come sia essenziale consentire la partecipazione e la presa in conto delle opinioni che i bambini ed i giovani possono apportare negli Studi a loro riservati.

Anzi, tale “diritto alla partecipazione “costituisce uno dei principi fondamentali della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo, promulgata nel 1989 e ratificata dalla Svizzera nel 1997. Essa, nel comma 1 Art. 12, stabilisce che “Gli Stati parte garantiscono al fanciullo, che sia capace di discernimento, il diritto di esprimere liberamente la propria opinione su ogni questione che lo riguarda.

Le opinioni del fanciullo [rectius: del minorenne] sono doverosamente prese in considerazione, proporzionalmente alla sua età ed al grado di maturità manifestata “. Naturalmente, tale “diritto alla partecipazione “va inteso con prudenza, ma la forma più alta di collaborazione con gli adolescenti consiste senza dubbio nella predisposizione di Censimenti criminologici in cui il giovane possa rivelare le proprie abitudini e gli eventuali apporti criminogeni ad eziologia familiare.

Le Statistiche sono il miglior mezzo per delineare con precisione quali siano i bisogni dei minori e dei giovani adulti, come rimarcato da Zermatten & Stoecklin (2009). Parimenti, Danic & Delalande & Rayou (ibidem) affermano che “il ragazzo non è più oggi unicamente considerato come un adulto in miniatura, bensì come un soggetto di diritti. Anche i bambini o, meglio, i giovani non debbono essere analizzati come membri del tale o del tal altro gruppo sociale considerato all’interno di un processo di socializzazione [ed essi sono capaci di definire] il loro ruolo sociale.

L’adolescente è attore della propria socializzazione, la quale è molto importante nella propria costruzione personale, che, a sua volta, interagisce, in maniera non trascurabile, nella commissione di atti delinquenziali. L’adolescente ha una sua capacità d’azione di fronte alle [pre]determinazioni sociali. Egli, così, può trasformare le situazioni oggettive in modo che esse siano occasioni positive per la sua crescita “. In effetti, secondo Zermatten & Stoecklin (ibidem), “il minorenne [in età post-infantile] può influenzare il corso degli eventi, specialmente quando prende decisioni che lo riguardano. Ogni attore sociale può influenzare il sistema sociale, poiché l’attributo attore indica uno stato di riflessività e non di passività “.

 

Il quadro normativo della prevenzione della delinquenza giovanile

La prevenzione rappresenta la miglior medicina contro la delinquenza giovanile. Un primo Testo normativo basilare per la repressione dell’infrattività anti-giuridica minorile è costituito dai Principi direttivi di Riyad. Tuttavia, come asserito da Queloz (2004), “malgrado la ratifica di queste norme, molti Paesi si sono lasciati poi condizionare dalla paura dell’insicurezza e hanno virato verso una politica securitaria dominata dalla tolleranza zero”. Questi Stati hanno dimenticato, sempre secondo Queloz (2004) che “una buona politica sociale preventiva è la migliore delle politiche criminali”.

Del pari, il comma 2 Art. 1 delle Regole di Riyad, promulgate nel 1985, asseriva che, nell’ottica preventiva, “la giustizia deve creare delle condizioni che assicurino al minorenne una vita utile alla comunità, idonea ad incoraggiarlo, nell’età in cui egli è più esposto ad un comportamento deviante, verso un processo di liberazione personale che lo allontani, il più possibile, dal contatto con la criminalità e la delinquenza”.

Anche la Raccomandazione UE R 87/20, del 1987, esorta alla prevenzione ed a “mettere in opera una politica globale che favorisca l’inserimento sociale, nonché programmi specializzati, che consentano di meglio integrare i giovani in difficoltà, con misure di prevenzione istituzionali e tecniche, destinate a ridurre le occasioni di commettere delle infrazioni”.

Altrettanto da non sottovalutare è pure la Convenzione ONU sui diritti del fanciullo del 1989, ratificata da ben 193 Stati, tra cui la Confederazione elvetica. Gli Artt. 37 e 40 di siffatta pattuizione transnazionale insistono sulla ratio per cui la repressione non è la sola risposta possibile di fronte alla delinquenza minorile.

Da menzionare sono pure i Principi Direttivi ONU del 1990 in tema di prevenzione della delinquenza giovanile. Essi insistono sul fatto che prevenire la devianza significa prevenire la criminalità. Tali Principi promuovono, non senza una malcelata astrattezza retorica, il benessere e l’integrazione sociale del giovane e dell’adolescente nella società, la quale deve fare il possibile per assicurare ai minorenni uno sviluppo armonioso, favorendo la loro crescita e rispettando la loro personalità.

In buona sostanza, oggi è quantomai necessario porre l’accento sulle politiche di prevenzione a livello familiare, educativo, comunitario e mass-mediatico. Cario (1997), giustamente, sottolinea che “la costruzione della personalità è specialmente delicata nella prima infanzia e durante l’adolescenza.

Nel corso di questi multipli scambi formativi, il ragazzo va ad apprendere e a rafforzare (o reinvestire) quello che gli procura piacere, ed evita quello che gli procura dispiacere. Egli, dunque, aggiusterà i propri comportamenti in funzione delle reazioni che le esperienze suscitano durante l’età dello sviluppo e dell’evoluzione. Perciò, la stabilità e la qualità affettiva del luogo dello sviluppo creeranno delle capacità intellettive e materiali che saranno determinanti per la gestione delle crisi e dei conflitti. Attraverso la socializzazione, il giovane sviluppa una sua personalità sociale, che comprende un insieme di ruoli di valori e di norme. […] Quindi, la socializzazione è un processo indispensabile per la formazione di un individuo autonomo”. Similmente, Blatier & Robin (2000) ribadiscono l’importanza della formazione culturale, in tanto in quanto “l’aggressività infantile è la miglior predizione dei comportamenti delinquenziali durante l’adolescenza […]. Da cui, l’importanza della scuola e del proprio ruolo di strumento socializzatorio”.

Tuttavia, Mucchielli (2007) precisa che “esistono anche altri poli di socializzazione, oltre alla scuola, ovvero i coetanei e l’universo familiare […]. non è raro, del resto, trovare delle lacune in questi poli socializzativi presso i giovani delinquenti”.

D’altronde, anche Harrati & Vavassori & Villerbu (ibidem) asseriscono che “la prevenzione della delinquenza non è altro che un’anticipazione dei fenomeni o dei fattori di rischio in grado di aggravare delle situazioni criminogene preesistenti. Dunque, la prevenzione è l’insieme delle azioni poste in essere per ridurre o evitare il numero e la gravità di queste situazioni e di questi comportamenti.

La prevenzione è primaria quando essa è indirizzata all’insieme dei fattori criminogeni; essa è, invece, secondaria se è caratterizzata da programmi o da azioni specifiche calibrate su ciascuna persona c.d. a rischio. Ciononostante, non è raro che, come mezzo di prevenzione, certi Stati abbiano preferito un rinforzamento del Diritto Penale”. Altrettanto pertinentemente, Queloz (2007) ricorda che “un’autentica politica criminologica della gioventù passa dalla famiglia, dai luoghi di formazione e da quelli di lavoro. Per conseguenza, l’integrazione e la socializzazione costituiscono i migliori mezzi di prevenzione della delinquenza.

Aebi, Apercu de la situation des enquetes de délinquance auto-reportée en Europe, CromPrev, Assessing Déviance, Crime and Prevention in Europe, 9, 1-11, 2008

Blatier, La délinquance des mineurs. L’enfant, le psychologue, le droit, Presses Universitaires, Grenoble, 1999

Blatier & Robin, La délinquance des mineurs en Europe. Presses Universitaires, Grenoble, 2000

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